L'UNIversiTÀ

Attualità

La verità in mezzo alle dune

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“Provare ad avvalorare l’ipotesi che Giulio Regeni fosse un uomo al servizio dell’intelligence significa offendere la memoria di un giovane universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita”. Possiamo leggere queste parole in una nota diffusa dalla famiglia del nostro giovane connazionale assassinato al Cairo, a pochi giorni di distanza dalla sua morte. Giulio Regeni, infatti, era prima di tutto uno studioso di formazione europea, avendo compiuto il proprio percorso d’istruzione a cavallo fra Italia e Gran Bretagna. Era una persona curiosa ed intellettualmente vivace, e la sua vicenda ci insegna molto a proposito dell’importanza e della dignità di qualsiasi forma di ricerca accademica. In una sua lectio magistralis tenuta presso l’Università di Camerino, Elena Cattaneo, docente di fama internazionale e Senatore della Repubblica, ha coniato una bellissima definizione di ricerca: fare ricerca non vuol dire scalare una montagna, ma vuol dire percorrere un deserto in cui non è stata tracciata alcuna strada. E’ il ricercatore stesso che deve trovare la giusta via: incontrerà poche altre persone sul suo percorso. Deve fare attenzione, perchè se il deserto è troppo affollato, allora vuol dire che la strada non è quella giusta. La ricerca, in definitiva, è qualcosa di bello e importante: vuol dire smettere di studiare per sè stessi, e cominciare a studiare per gli altri. Esattamente questa era stata la scelta di vita di Giulio Regeni: Giulio faceva ricerca; aveva smesso di studiare per sè stesso, e aveva cominciato a studiare per gli altri. Si era allontanato dal proprio paese d’origine: anche lui aveva iniziato ad esplorare il deserto, avventurandosi fra le sabbie dell’Egitto, dove nel periodo della Primavera Araba sono fiorite decine e decine di sindacati indipendenti. E’ proprio ad una delle loro assemblee che aveva dedicato il suo ultimo pezzo scritto per Il Manifesto: “Al-Sisi ha ottenuto il controllo del parlamento con il più alto numero di poliziotti e militari della storia del paese” scriveva Regeni “mentre l’Egitto è in coda a tutta le classifiche mondiali per rispetto della libertà di stampa.” La ricerca, per definizione, è una delle massime forme di libertà.
Ce lo dice la nostra stessa Costituzione: “L’arte e la scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento“. I nostri padri costituenti sapevano quanto fosse importante questa affermazione: infatti, Mussolini aveva preteso che i professori universitari giurassero fedeltà al fascismo, e la loro libertà di ricerca era stata calpestata dal regime. Una volta finita la dittatura, era fondamentale ribadire il valore di tale libertà e i costituenti decisero, addirittura, di lasciarla impressa nella nostra Costituzione. Giulio Regeni conduceva un’attività di studio indipendente: il suo lavoro non era sotto il controllo di nessun capo; non doveva rendere conto a nessun potere politico, non aveva limitazioni di sorta. L’autonomia della sua ricerca, tuttavia, si è andata a scontrare con una dura realtà: le si è opposto il regime oppressore di Al-Sisi, che ha strappato la vita di Giulio. Le sono state scaraventate contro le torture e le violenze, che hanno soffocato il suo personale lavoro. Una delle più grandi ingiustizie di questa vicenda, subito dopo il barbaro omicidio, è che la particolarissima tesi di dottorato di Giulio Regeni non potrà mai essere completata: la ricerca di Giulio, in qualche modo, rimarrà imperfetta. “Eppure i sindacati indipendenti non demordono” proseguiva Regeni nel suo ultimo articolo “Si è appena svolto un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (Ctuws), tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano.” Il movimento dei lavoratori, tuttavia, non costituisce l’unica sacca di resistenza: le università sono fra gli ultimi baluardi contro il regime di Al-sisi. Ce lo dice anche Roberto Saviano in uno dei suoi ultimi articoli: “Giulio è stato rapito, torturato ed ucciso dal Mukharabat, i servizi segreti egiziani. Il motivo? Gli uomini della sicurezza egiziana sarebbero ossessionati dalle informazioni che circolano negli atenei: è questa l’opinione condivisa da chiunque faccia ricerca in Egitto“.
Alla luce di ciò, dobbiamo chiederci per quanto tempo ancora la ricerca accademica, in Egitto, rimarrà un’attività indipendente. Proprio in nome della libertà dell’università che era cara a Giulio a tal punto da portarlo a sacrificare per essa la vita, noi studenti così come tutto il Paese, ora, dobbiamo essere capaci di compiere un gesto: dobbiamo essere, in primis, noi ragazzi che animiamo ogni giorno le università d’Europa a pretendere che venga fatta luce sulla vicenda di Giulio Regeni. Dobbiamo chiedere che venga compiuta un’ultima attività di indagine, un’ultima ricerca in mezzo al deserto. Dobbiamo mettere da parte ogni paura, per addentrarci anche noi fra le sabbie d’Egitto. Il percorso non sarà facile, non sarà scontato, e potrà ancora una volta cozzare con gli interessi nascosti di un maledetto regime: non ci deve ingannare la folla di ricostruzioni farlocche che troveremo in mezzo alle dune.
Alla fine, se ci mobiliteremo con tenacia e convinzione, potremo arrivare in fondo al deserto, fino alle rive del fiume Nilo, e specchiandoci nella sua corrente finalmente vedremo la limpidezza della verità che abbiamo a lungo cercato.

Enrico Verdolini
Rappresentante di Sinistra Universitaria in Senato Accademico

Fino in fondo al pozzo

Palazzo Marino - Comune di Milano
Palazzo Marino – Comune di Milano

Con un nodo alla gola che non si è ancora sciolto sono trascorse settimane dalla morte di Giulio Regeni, ricercatore friulano di 28 anni, inghiottito dal buio di un omicidio politico. Abbiamo aspettato che le notizie acquisissero una certa coerenza prima di scriverne, anche perché le indagini preliminari che parlavano di un incidente stradale, come causa del decesso, erano assai poco credibili.
Ci siamo documentati, stiamo seguendo con apprensione gli sviluppi di questa vicenda che evidentemente cela conflitti e interessi ulteriori: le piste improponibili, i risultati autoptici italiani ed egiziani che non combaciano, gli evidenti segni di tortura sul corpo di Giulio.
Le nostre istituzioni non sono state a guardare, Amnesty International Italia ha promosso la campagna “Verità per Giulio Regeni”, cui ha aderito la Repubblica e pochi giorni fa anche il Parlamento europeo si è espresso con una risoluzione d’urgenza in cui “condanna con forza la tortura e l’assassinio del cittadino europeo Giulio Regeni” e “chiede alle autorità egiziane di fornire alle autorità italiane tutti i documenti e le informazioni necessarie per permettere un’inchiesta pronta, trasparente e imparziale”. Essa condanna la violazione dei diritti umani e l’uso sistematico di sequestri e torture contro gli oppositori da parte del regime di Al Sisi. L’Egitto l’ha respinta come “non veritiera”.
Noi non possiamo aggiungere informazione a quella che ci viene proposta e che, soprattutto in casi controversi come questo, è essa stessa una giungla. All’inizio è stato faticoso persino capire quale versione dei fatti raccontasse il vero. Per giorni è stato difficile individuare la fonte più attendibile, ma la volontà di non accettare depistaggi e verità di comodo è il fine che ci ha motivati nella realizzazione di questo pamphlet dedicato a Giulio Regeni.
L’UNIversiTA può contribuire a mantenere agitate le acque dell’attenzione su questa storia, perché fra di noi non passi, assieme al tempo, l’incontenibile bisogno di verità e di giustizia. Siamo studenti indignati che raccolgono una delle voci del coro che grida verità per Giulio Regeni. Questa edizione straordinaria del nostro giornale esprime la nostra tensione, l’inquietudine positiva che ci accompagna alla ricerca di una spiegazione.
Abbiamo pensato a queste pagine come un’opportunità per approfondire le ragioni di questo ingiustificato attentato alla vita di un giovane che aveva incentrato i suoi studi di ricerca sul sindacalismo indipendente egiziano e sui diritti dei lavoratori. Vogliamo capire cosa ci sia dietro la sua morte per leggere i profili ulteriori alla cronaca del fatto.
Pertanto uno dei primi interrogativi che ci siamo posti è stato quello di approfondire il tema e il metodo di ricerca di Giulio, i suoi ideali, che erano al contempo la fonte e il fine della sua attività. Infatti, non è scontato declinare il contenuto dello studio di un ricercatore, perché capire i caratteri della sua indagine significa avvicinarsi, almeno col pensiero, agli esiti della sua ricerca. Si trova quello che si cerca e forse Giulio era andato troppo in fondo. Così fra i contributi esterni alla nostra redazione abbiamo accolto con entusiasmo anche quello di un ricercatore e due dottorandi, perché ci orientassero nella definizione di questa professione.
Inoltre, abbiamo provato a ricostruire il contesto culturale e politico egiziano oltre all’analisi dei fatti.
Siamo stati spronati da un naturale senso del dovere, una particolare sensibilità sociale di chi reputa fondamentale la ricerca di questa verità ancora insabbiata.
In una lettera a l’Espresso i genitori di Giulio scrivono che in una scuola di Fiumicello un gruppo di giovani ha piantato una quercia simbolica nell’area scolastica, perché diventi un giorno “un luogo di ricordo, di meditazione, ma anche di vita”.
Nel rispetto dei loro sentimenti e della dignità del loro dolore, anche noi abbiamo voluto scrivere in queste pagine, che sono l’esito di un lavoro collettivo, ci auguriamo, utile e discreto.
Ci sono vite che non conoscono la morte, se nel loro nome altra gente si mobilita con pazienza e perseveranza.
Forse sarà stata solo una coincidenza, ma Giulio è scomparso al Cairo proprio il 25 Gennaio, anniversario delle proteste del 2011 in Piazza Tahrir contro l’allora presidente Mubarak.
Intanto, ogni giorno emergono novità sul caso Regeni, che non sarà trascinato via dalle turbini del deserto. Giulio era un cittadino italiano, uno studente europeo, perciò è nostra la responsabilità di reagire come se fosse stato nostro fratello ad aver subito quelle torture, come se fosse stato di un nostro amico quel cadavere rinvenuto in condizioni pietose in un fosso di periferia. Ma in fondo a quel fosso noi vogliamo trovare la verità, come fosse quel pozzo di cui scriveva Sciascia ne Il giorno della civetta: “la verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.

Questa candela rimarrà accesa per Giulio

Piazza Santo Stefano, Bologna
Piazza Santo Stefano, Bologna

Amnesty International è un’organizzazione non governativa, una delle principali organizzazioni mondiali che si occupano di diritti umani.
É nata nel 1961, tra un brindisi e un articolo di giornale: l’avvocato inglese Peter Benenson, indignato dalla notizia della condanna a sette anni di reclusione per due studenti portoghesi, colpevoli di aver brindato alla libertà in un caffè di Lisbona – nel periodo del regime dittatoriale di Antonio de Oliveira Salazar – ha deciso di “accendere”, per la prima volta, la candela di Amnesty International.
Il 28 maggio del 1961 il settimanale londinese The Observer ha pubblicato la sua lettera aperta “The Forgotten Prisoners”. Benenson ha cominciato quella lettera con le seguenti parole: “Aprite il vostro quotidiano un qualsiasi giorno della settimana e troverete la notizia di qualcuno, da qualche parte del mondo, che è stato imprigionato, torturato o ucciso poiché le sue opinioni e la sua religione sono inaccettabili per il suo governo”. Inoltre, ha esortato i lettori a esercitare pressione sui governi: Se a protestare è una persona sola l’effetto è limitato. Se sono in molti l’effetto è miracoloso”. É stato proprio questo “appello per l’amnistia” a segnare la nascita di Amnesty International.
Del simbolo dell’associazione, ormai emblema della protezione dei diritti umani nel mondo, è lo stesso Benenson a chiarircene il significato: “In passato i campi di concentramento e altri buchi infernali del mondo erano immersi nell’oscurità. Oggi sono illuminati dalla candela di Amnesty, una candela avvolta dal filo spinato. Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: ‘Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità‘”.
Peter Benenson é scomparso il 25 febbraio del 2005 in seguito ad una polmonite, ma la sua candela è rimasta accesa.
La candela amnestiana oggi arde in 150 Paesi, contando più di tre milioni di membri attivi nella difesa dei diritti umani.
La luce della candela deve continuare a illuminare la vicenda di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friulano scomparso la notte del 25 Gennaio al Cairo e ritrovato ucciso il 4 febbraio in un fosso di Giza. L’autopsia ha confermato che Giulio, prima di ricevere il mortale colpo al collo che ha provocato la rottura di una vertebra cervicale, fosse stato sottoposto a torture continuative per nove giorni.
Chi lo ha rapito? Dove è stato tenuto prigioniero? Quali sono stati gli esecutori materiali delle torture sul giovane e quali, ancora, i mandanti? Perché? Su che cosa stava lavorando Giulio? Chi ha costruito le discordanti versioni rilasciate dopo la sua morte? Chi e secondo quali modalità sta indagando sul caso? Come stanno collaborando con le nostre autorità?
Attualmente in Egitto per essere torturati – dichiara il portavoce della sezione italiana Amnesty International Riccardo Noury – non serve avere un background come quello che si era ipotizzato, essere un agente o un presunto collaboratore di un qualche servizio segreto, tesi comunque ritenuta inverosimile, ma è sufficiente fare ricerca o occuparsi dei diritti umani. Segni come quelli sul corpo di Regeni sono stati ritrovati tante altre volte su corpi egiziani.
La sua uccisione ha messo in evidenza la situazione di drammatica repressione e violazione dei diritti umani in Egitto. Il Cairo è avvolto da una cappa di violenza e di paura. “Da quando Al Sisi è salito al potere, le organizzazioni per i diritti umani hanno registrato centinaia di casi di sparizioni e oltre 1700 condanne a morte e decine di migliaia di arresti. La tortura è praticata abitualmente nelle stazioni di polizia e nelle carceri, compresi i centri segreti di detenzione. La libertà d’espressione e manifestazione pacifica sono pesantemente limitate e i difensori dei diritti umani e i giornalisti subiscono abitualmente persecuzioni e processi irregolari”.
Basti pensare alla campagna promossa dalla tv di Stato egiziana che invita a “non aprire il tuo cuore allo straniero perché una parola può salvare una Nazione”, evidenzia Riccardo Noury.
Ovviamente non può essere Amnesty International a condurre le indagini, ma quello che chiediamo è che le autorità egiziane forniscano una ricostruzione veritiera dell’omicidio, portando avanti un’inchiesta approfondita, rapida e indipendente.
Il direttore generale di Amnesty International, Gianni Ruffini, a tal proposito, ha invitato il Ministro degli Affari Esteri, Paolo Gentiloni, e l’amministratore delegato di Eni spa, Claudio Descalzi, chiedendo al primo, attraverso l’ambasciata italiana al Cairo, e al secondo, in virtù degli accordi commerciali intercorrenti tra Italia ed Egitto, di fare il possibile per sollecitare le autorità egiziane.
Inoltre, insieme a la Repubblica Amnesty International Italia ha lanciato una nuova campagna nazionale “Verità per Giulio Regeni” per non permettere che l’omicidio del ricercatore italiano cada nel dimenticatoio. Uno striscione di dieci metri sarà esposto fuori dagli uffici della Sezione Italiana e sarebbe auspicabile che questo gesto, se pur simbolico, si estendesse ai Comuni italiani, alle Università e ad altri centri di cultura del nostro Paese.
Si è, inoltre, tenuto un presidio davanti all’Ambasciata d’Egitto a Roma per chiedere verità sulla scomparsa di Giulio.

Scuola di Giurisprudenza, Palazzo Malvezzi - Bologna
Scuola di Giurisprudenza, Palazzo Malvezzi – Bologna

Noi, gruppo universitario Amnesty International (GG089) di Bologna, in qualità di cittadini, di attivisti, ma anche e soprattutto in quanto studenti, come lo era Giulio, chiediamo verità sul caso. Ci siamo mobilitati, lasciando in tutte le aule studio di Bologna post-it recanti il messaggio “Verità per Giulio Regeni”; abbiamo raccolto e divulgato informazioni tramite social network. Abbiamo registrato anche un video, che contiene pensieri, speranze e paure di studenti universitari come noi, come Giulio, per raccontare quanto accaduto.
Insomma, nel nostro piccolo, speriamo e pretendiamo che, anche attraverso le nostre attività, Giulio non venga dimenticato. La nostra sete di verità e giustizia è forte, come lo deve essere la luce di Amnesty International nell’oscurità di questo momento storico.

Maria Morbiducci
Attivista e tesoriera del gruppo giovani 089 Amnesty International

SE LA MAFIA E’ UN SISTEMA, PERCHE’ NON PUO’ ESSERLO L’ANTIMAFIA?

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“IO MORTO PER DOVERE. La vera storia di Roberto Mancini il poliziotto che ha scoperto la Terra dei Fuochi” è il titolo del libro edito da Chiarelettere e scritto da Luca Ferrari e Nello Trocchia, che é stato presentato lo scorso 21 Marzo in occasione della “Giornata contro le mafie” presso la Coop Ambasciatori di Bologna. Erano presenti Libero Mancuso, avvocato ed ex magistrato, Stefania Pellegrini, Professoressa di Sociologia del diritto e Mafie e Antimafia presso la Scuola di Giurisprudenza di Bologna e Monika Dobrowolska Mancini. L’ennesima storia mai ridondante di eroi senza paura che, nonostante i soprusi e gli abbandoni da parte delle Istituzioni, nonostante la convergenza di interessi dello Stato con le associazioni mafiose e la riluttanza dello stesso al reale e concreto rispetto della legalità, si battono fino alla morte, una morte che sopraggiunge e lascia attoniti.
Non vi chiedo di piangere, vi chiedo di arrabbiarvi“- con queste parole la vedova di Roberto Mancini, Monika, alimenta il fuoco del suo crudo e diretto intervento nella serata di presentazione. Una donna schietta, per nulla rassegnata, determinata a portare avanti una lotta non solo contro i sistemi mafiosi che hanno reso possibile la creazione di un mostro ambientale come la Terra dei Fuochi, ma anche contro la passività sociale che ci rende schiavi convinti di essere liberi. “La terra dei fuochi è in tutta Italia“, prosegue Monika, ed è vero, non solo perchè poco alla volta emergono scenari simili anche in altri luoghi italiani, ma anche perchè la possibilità che ciò continui a verificarsi in altre zone è molto alta, vista la notevole concentrazione di traffici di rifiuti tossici, anche a livello internazionale.
Un vero monito alla società civile, quello di Monika, contro gli egoismi e l’inerzia generale; inoltre, le parole di Libero Mancuso e Stefania Pellegrini hanno contribuito a delineare profonde carenze soprattutto all’interno dell’ambiente giudiziario: “Troppe volte ho incontrato il termine prescrizione in questo libro”, afferma la Pellegrini, sostenendo che per la complessità di determinate indagini sia essenziale un allungamento sensibile dei termini di prescrizione. Mentre Mancuso ha ribadito a più riprese la necessità di velocizzare e snellire la macchina giudiziaria.
Il danno ambientale provocato nella Terra dei Fuochi è di enorme portata, le morti per tumori da amianto non si fermano, imperversano soprattutto fra i bambini. Si fa sempre più preponderante la necessità di assicurare da un lato i colpevoli alla giustizia in maniera effettiva e veloce, ma anche quella di risarcire il danno cagionato alle vittime della Terra dei Fuochi e di tutte le persone che continuano ad abitare quella terra.
La procedura penale e quella civile devono adeguarsi ad affrontare nuove tipologie di reato e di controversie non più gestibili con gli strumenti inefficienti del “garantismo a tutti i costi”: l’internazionalizzazione di alcune tipologie criminose, come quella del traffico di rifiuti, richiedono un’azione coordinata e unitaria da parte di tutti gli Stati Membri UE, per mezzo di scambi di informazioni a livello europeo e di progressivi ravvicinamenti dei sistemi processuali. Cosí il processo, quale strumento di tutela e giustizia per i cittadini, sarebbe decisamente più semplice a livello burocratico, meno formalizzato, ma non per questo meno garantista. Se la mafia è un sistema, perchè non può esserlo l’Antimafia?

Io non ho paura, e tu?

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Si svolgerà oggi a Messina la XXI Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, ma in contemporanea il filo della memoria unirà anche altre città italiane. Fra queste anche Reggio Emilia, una scelta emblematica che lancia un forte messaggio da parte di tutta la società civile emiliana, impegnata nella lotta contro forme di mafia che, in maniera sempre più pervasiva, intaccano il tessuto sociale ed economico nazionale e internazionale. Proprio a Reggio Emilia, infatti, avrà luogo la fase dibattimentale del processo “Aemilia”, un procedimento di enorme portata che ha visto portare alla luce scenari sommersi, inquietanti e accuratamente “legalizzati”.
Per la complessità dell’evoluzione del fenomeno mafioso e per la necessità di affrontarlo anche in maniera scientifica e, quindi, riconoscerlo, abbiamo intervistato la Prof.ssa Stefania Pellegrini, impegnata in prima fila in questa lotta, nonché docente presso la Scuola di Giurisprudenza di Bologna, dove é titolare del corso “Mafia e Antimafia”, oltre ad essere Direttore del Master di II livello in “Gestione e riutilizzo di beni e aziende confiscati alle mafie. Pio La Torre”. Buona lettura!

Professoressa, quali aspetti delle mafie sono ad oggi maggiormente preoccupanti e come possono essere affrontati a livello legislativo e sociale?
Senza dubbio ciò che maggiormente preoccupa è la stretta connessione e commistione tra illegalità e legalità. Questo è dimostrato da un duplice fattore. Innanzitutto, le mafie investono sempre di più nell’economia legale che rappresenta uno strumento estremamente redditizio e poco pericoloso per riciclare, e quindi far fruttare, gli ingenti capitali che provengono dai mercati illegali e che, senza il riciclo, sarebbero inutilizzabili. Tale immissione di capitali sporchi nel mercato legale avviene con la complicità di professionisti che, pur rimendo estranei alle consorterie criminali, offrono le loro prestazioni mettendo a servizio la propria competenza nel costituire società, acquistare quote societarie, investire nella finanza. Non c’è una categoria di professionisti che si possa escludere da questa «corte». Si tratta di titolari di qualificatissimi studi professionali che trovano la via d’uscita per tutto: riciclare denaro, fare un investimento proficuo, truccare le gare d’appalto. E poi progetti, lottizzazioni, pratiche falsificate. Se la nostra legislazione è assolutamente all’avanguardia nel colpire le attività criminali e i capitali mafiosi provenienti da tale attività, è necessario constatare, nonostante i recenti interventi, una debolezza degli strumenti di aggressione dei reati di corruzione e riciclaggio. Pur riconoscendo l’assoluta utilità dello strumento repressivo giuridico, ritengo sia necessario recuperare e rafforzare l’incisività e l’efficacia di altre modalità sanzionatorie.
Ritengo sia necessario respingere il riconoscimento della «rilevanza penale» e della conseguente «responsabilità penale» come presupposto di una responsabilità che è innanzitutto morale etica e sociale. Nella nostra cultura politica, illegalità e immoralità, reato e peccato, responsabilità penale e responsabilità politica vengono astutamente mescolate per sfuggire ad ogni controllo.
Dovremmo riportare al centro del dibattito il principio in base al quale, come sosteneva Durkheim: «Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale, perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo». È quindi la coscienza collettiva, negli ultimi tempi così sgretolata, che va potenziata mediante la riaffermazione dei valori e dei sentimenti comunitari.

Cosa è cambiato nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso e cosa invece è rimasto immutato?
La mafia ha la grande capacità di trasformarsi pur rimanendo se stessa. Le dinamiche relazionali e di potere sono sempre le stesse. Si mostrano come “benefattori” mettendo a disposizione ingenti liquidità di capitale e poi si impossessano delle attività economiche che hanno, seppur parzialmente, finanziato. Concedono apparentemente aiuto, trovano posti lavoro, licenze, ma ciò che richiedono in cambio è la totale disponibilità e l’asservimento ai progetti criminali. Queste dinamiche sono conosciute e note da sempre agli studiosi e agli operatori. Al contempo, la capacità camaleontica della criminalità organizzata è stupefacente. Si insinua nei territori sino a carpirne le risorse e a strumentalizzare relazioni di potere. Prendendo come esempio i settori economici di investimento, recenti ricerche dimostrano come la criminalità organizzata non investa solo nei settori tradizionali, ma sfrutta le risorse e le modalità di investimento tipiche del territorio. Se in Sicilia il settore più esposto è quello legato alle costruzioni, in Emilia Romagna si investe nel settore finanziario e nel servizio alle imprese. Se in Calabria si costituiscono imprese individuali, in Lombardia si investe mediante Srl.

Perché l’aggressione ai patrimoni mafiosi è uno strumento vincente contro forme di criminalità legate sempre di più al controllo di società e capitali?
La consapevolezza che l’inquinamento del mercato causato dall’infiltrazione mafiosa comporti un serio e grave pericolo per la tenuta degli equilibri economici e finanziari è andata sempre più diffondendosi, così come è ormai unanimemente condiviso il convincimento che la privazione del patrimonio mafioso rappresenti uno strumento di contrasto delle organizzazioni mafiose, forse più della stessa detenzione degli affiliati che possono essere facilmente sostituiti da un esercito di accoliti facilmente reclutabili nelle fila dell’organizzazione. Sottrarre alla mafia la sua grande disponibilità finanziaria equivale a disarticolare le organizzazioni criminali più della detenzione degli affiliati, ad evitare il rafforzamento del potere economico dell’organizzazione, a minare la possibilità di mantenere strutture logistiche e di effettuare reclutamenti, a minare la sopravvivenza economica degli affiliati, liberi e detenuti, dei loro familiari e dei loro avvocati, a limitare gli approvvigionamenti di armi, di stupefacenti e di tutto il necessario per svolgere o incrementare i traffici illeciti.

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Il processo “Aemilia” é la punta di un iceberg rimasta sommersa troppo a lungo?
In Emilia Romagna per anni ha regnato un approccio alle mafie, diffuso in tutto il Nord del Paese, caratterizzato da una sostanziale negazione del problema a seguito, innanzitutto, di un rifiuto culturale. Ammettere la presenza delle mafie avrebbe significato ammettere l’inefficacia dei tanto osannati anticorpi che avrebbero reso il tessuto sociale ed economico impermeabile alle dinamiche criminali. Ora che è emerso, non solo che il territorio non era impermeabile, ma che si è mostrato un terreno fertile, è crollato il mito dell’Emilia Romagna come quello di una Regione all’avanguardia nelle politiche di controllo sociale garantiste e tutelanti l’autonomia privata e collettiva. Ma ritengo comunque sia esagerato etichettare questa Regione come “terra di mafia”. L’indagine Aemilia ha fatto emergere un fitto intreccio di interessi economici tra ‘ndrine calabresi e imprenditori locali, ma nelle “terre di mafie” la criminalità organizzata gode di un esteso consenso sociale che qui non c’è.

Cosa rappresenta per Lei la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie” e quale messaggio vuoLe lanciare ai giovani in questa occasione dall’alto del Suo impegno sociale e accademico?
La “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie” rappresenta un’importante occasione per mostrare alla collettività che una società democratica e responsabile ha il dovere di ricordare tutte le vittime delle mafie che, loro malgrado, sono diventate eroi di una guerra che non può essere delegata solo a chi ricopre ruoli istituzionali. Ognuno di noi può, quotidianamente, impegnarsi a far si che le loro morti non siano state vane. Nella lotta alla mafia, la repressione, pur essendo uno strumento imprescindibile, non può da sola vincere un nemico che si nutre di consenso sociale e di indifferenza.
Costruire e partecipare a percorsi di cittadinanza attiva rappresenta un strumento che toglie alle mafie terreno fertile. Non solo denuncia, quindi, ma impegno costante e virale. Dimostriamo che il nostro Paese “bellissimo e disgraziato” è il Paese dell’antimafia e non solo della mafia. Dell’antimafia non urlata e strumentalizzata, ma di quella silenziosa che produce Cultura, Conoscenza e Consapevolezza.

REFERENDUM 17 APRILE 2016: UN VOTO PER LA VITA E PER IL FUTURO

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Ebbene il referendum sul mare si farà! La Corte Costituzionale ha così ammesso il quesito referendario che permetterà ai cittadini italiani il 17 aprile 2016 di poter esprimere il proprio voto in merito alla abrogazione o meno della disciplina, così modificata dalla Legge di Stabilità 2016.
Essa prevede che i titolari di permessi di perforazione, coltivazione e ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia possano proseguire le loro attività senza scadenza sino alla “durata della vita utile del giacimento” – fermo restando il limite delle 12 miglia per la concessione di nuovi permessi. Una vera esenzione privilegiata che permetterà alle società, già operanti nel settore energetico fossile ed in possesso di permessi in Italia, di protrarre senza scadenze le proprie attività nei nostri mari, se non interverrà in sede referendaria una volontà decisa e compatta di tutta la società civile. Ci troviamo dinanzi ad una pluralità di attacchi non solo contro l’ambiente, ma anche contro la salute dei cittadini e l’economia di molte zone: le trivellazioni, infatti, comporterebbero nelle zone interessate una concentrazione di sostanze nocive e cangerogene rinvenibili nell’aria, nella terra e nelle acque come l’idrogeno solforato (H2S), nitrati (NOx), i composti organici volatili (VOC), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH), nanopolveri pericolose, alcune delle quali possono provocare modificazioni genetiche non di poco rilievo. Questo dato, com’è facile intuire, si ripercuoterà negativamente sulla salute dei cittadini, sulla qualità del cibo che mangiamo e dell’aria che respiriamo, senza tener conto della possibilità molto alta che si verifichino incidenti tali da poter compromettere interi ecosistemi.
Uno studio dell’Ispra, inoltre, ha accertato la dannosità della cosiddetta “airgun” una tecnica di ricerca petrolifera particolarmente impattante per il sistema marino in quanto danneggia irrimediabilmente il sistema immunitario di organismi acquatici, impedendone la riproduzione.
E’ pertanto vitale votare per l’abrogazione di questa disciplina sia in negativo, per evitare che il legislatore rimuova il limite delle 12 miglia dinanzi a una volontà popolare contro l’estensione delle esenzioni, sia in positivo, perché il Ministero non prosegua con la concessione di permessi entro i parametri e concentri politiche e risorse verso fonti di energia sostenibili e rinnovabili.

PRIMARIE USA – Il bacio del momentum

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Che cosa vuol dire momentum? Una parola latina, dal sapore arcaico, spesso usata nella politica americana. Che significato ha questo termine?
Gli adolescenti, si sa, hanno sogni, e spesso sono sogni strani: all’epoca del secondo anno di liceo, ormai circa otto anni fa, il mio sogno era quello di poter votare alle primarie americane. Leggevo quasi ogni giorno Repubblica, e settimana dopo settimana le seguivo con curiosità: era il momentum di un giovane senatore dell’Illinois che affrontava la macchina da guerra di Hillary Clinton, ex first lady di fama internazionale. In politica, si sa, fino a quando non viene contata l’ultima scheda nessuno ha la certezza di essere il vincitore. E fu così che gli elettori incoronarono il nuovo leader del Partito Democratico, che di lì a poco sarebbe diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Insomma, era il momentum di Barack Obama.
Ma che cos’è il momentum? Si tratta di quella particolare atmosfera che ci fa capire che qualcuno è destinato ad un compito, a farsi carico di una missione, e la gente per questo motivo è disposta a seguirlo e a dargli fiducia. E’ un’aura di fascino e di carisma che avvolge una figura politica ed accompagna la sua ascesa. E’ un qualcosa di artificiale, creato dalle circostanze, dalla lente dei media e dal sostegno (anche economico) crescente.
A distanza di anni, sorge spontanea una domanda: da che parte soffia il vento del momentum nel 2016? Tutto è cominciato in Iowa, il primo Stato ad essere chiamato ad esprimere la propria preferenza: con appena 3 milioni di abitanti, l’Iowa rappresenta meno dell’1% della popolazione americana. L’ironia della sorte vuole che questo territorio prenda il nome da una tribù indiana che lo abitava, e che fu costretta ad allontanarsi con l’arrivo dei coloni. E’ qui che ha inizio il grande gioco. E’ qui che può scoccare la scintilla: è qui che può cominciare il momentum di un candidato.
L’importanza dell’Iowa come Stato si riduce esclusivamente al fatto che si tratta del primo Stato in assoluto a votare. O meglio, ad organizzare i caucus. Per alcuni giorni, i riflettori del mondo intero si concentrano sul remoto Iowa e sui suoi caucus.
Mentre il Partito Repubblicano dà sfogo al proprio elettorato ricorrendo al classico strumento del voto, il Partito Democratico organizza delle particolari forme di assemblea in cui ogni partecipante esprime il proprio punto di vista su di un candidato. Al termine della riunione, i vari partecipanti si dividono in gruppi all’interno della sala, a seconda del personaggio che vogliono sostenere. I membri di ogni gruppo possono cercare di convincere gli altri a cambiare schieramento, e lo possono fare nei modi più disparati. Se un gruppo di persone non supera determinate soglie numeriche, i suoi appartenenti devono dividersi fra gli altri gruppi. I caucus vengono organizzati nei luoghi più disparati: scuole, palestre, chiese, club di cucina. E’ proprio questo sistema di voto ad aver determinato un risultato del tutto inaspettato in ambito democratico, una sorta di pareggio fra i due candidati.

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Da una parte abbiamo ancora una volta Hillary Clinton, personaggio di spicco della politica americana, forte di un curriculum di che nessun altro candidato può vantare Dall’altra, Bernie Sanders, parlamentare che ama definirsi socialdemocratico, parola che negli USA equivale quasi ad una bestemmia.
Le consultazioni del Partito Repubblicano, invece, sono state il teatro non tanto del successo di qualcuno quanto di due sconfitte: quella di Jeb Bush, in primis, il terzo della sua famiglia ad ambire alla Casa Bianca; quella di Donald Trump, miliardario schietto e populista dato da tutti come super favorito (come dire:”Gli USA sono il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti“). I conservatori hanno consegnato la palma della vittoria a Ted Cruz, candidato forte dell’appoggio delle frange più integraliste del movimento religioso, e a Marco Rubio, che pur essendo arrivato terzo ha comunque fatto parlar di sè. In Iowa, insomma, sembrava che fosse il momentum di Sanders, così come di Cruz e Rubio in campo avverso. Le primarie del New Hampshire hanno in parte confermato, in parte smentito questi fatti: da un lato, sicuramente non è ancora scemato il fenomeno Bernie Sanders, mentre in campo repubblicano la seconda tappa ha portato al trionfo di Donald Trump.
In prospettiva, si potrebbe avere una rimonta dell’unica donna realmente in lizza in questo grande gioco, così come un’affermazione più netta di Trump: in queste primarie, in realtà, il momentum non ha ancora toccato nessuno dei vari candidati. Non ci resta che aspettare le prossime consultazioni, ed in particolare il Super Tuesday, il primo giorno di marzo, in cui sarà chiamata al voto una buona parte degli Stati americani.
Per i Democratici e per i Repubblicani, il bacio del momentum deve ancora arrivare.

Pakistan: attacco all’università

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“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”

L’articolo 33 della nostra Costituzione esordisce con queste parole: quest’articolo ed il succcessivo numero 34 parlano di università, scuola ed istruzione come parte essenziale della nostra società.
L’università, dunque, non è soltanto una comunità, fatta di insegnanti, ricercatori, studenti: università è prima di tutto sinonimo di libertà.
La mattina del 20 gennaio ero nell’aula studio di via Zamboni 27. Stavo per cominciare il lavoro della mattinata, quando al mio computer ho letto un titolo dell’Huffington Post che mi ha lasciato di stucco: “Pakistan, strage di studenti”. La notizia si è diffusa molto rapidamente, grazie ai giornali online e ai social: alle nove e mezza del mattino (le cinque e mezza in Italia) quattro terroristi avevano fatto irruzione nell’università di Charsadda, nelle aule e nei dormitori del campus, facendo strage di ragazzi e ragazze. L’attentato è stato poi rivendicato dalla frangia pakistana dei talebani, come ripercussione per una serie di operazioni antiterrorismo condotte ai confini con l’Afghanistan.
Il Pakistan non è nuovo a questo genere di attentati: già nel dicembre 2014, i talebani del gruppo Ttp assalirono una scuola di Peshawar, frequentata da ragazzi fra i 6 ed i 16 anni figli di militari pakistani, uccidendo quasi 150 persone.
Avevo i libri già sul tavolo di fronte a me, pronti per l’ennesimo ripasso, ma non riuscivo a cominciare senza prima leggere fino in fondo l’articolo. Era successo tutto da pochissime ore, e ancora non si avevano informazioni dettagliate. Mi sono guardato attorno: la biblioteca di Scienze Giuridiche era affollata come sempre nel periodo d’esami. C’erano un sacco di miei amici e di persone che conosco di vista: qualcuno preparava il prossimo appello di diritto civile, o di canonico, mentre i più diligenti del quinto anno stavano scrivendo la tesi.
Mi sono rimesso a studiare un po’ sovrappensiero. Mi ci è voluto qualche tempo prima di trovare la giusta concentrazione. E’ passata qualche ora, e mi sono incontrato con un amico per pranzo assieme. Prima di riprendere lo studio ho controllato al computer se c’erano novità.
Ho letto un secondo articolo. L’università di Charsadda è un ateneo di piccole dimensioni, che conta grosso modo 3.000 studenti. Il giorno dell’attentato, l’intera comunità era in festa: l’ateneo è intitolato a Bacha Khan, leader pakistano della non-violenza che seguiva l’esempio del più famoso Mahatma Ghandi. Per l’evento, era prevista una lettura pubblica dei testi delle sue poesie, a cui stavano partecipando all’incirca seicento persone. Non conoscevo Bacha Khan, ma da una breve ricerca nella Rete scopro che si battè in vita contro la scissione del Pakistan dall’India, essendo favorevole al mantenimento di un unico stato in cui potessero convivere la popolazione musulmana e quella indù.w
Sono tornato a leggere i miei appunti di diritto tributario: stavo ripassando una delle parti più complesse del programma, quella sul calcolo del reddito di impresa. Nel giro di poco tempo mi sentivo già stanco. Mi sono fermato un attimo a metà pomeriggio, per riprendere le forze. Ho preso uno snack alle macchinette, ed ho acceso di nuovo il pc. Un professore di chimica dell’università pakistana è morto in un estremo tentativo di difendere i suoi ragazzi. Ha preso una pistola, ha detto agli allievi di chiudersi in un’aula, e ha cercato di difenderli. Attaccare l’università vuol dire attaccare un’incubatrice di innovazione. Vuol dire colpire un’idea ancora prima che nasca, nel momento stesso in cui sta prendendo forma.”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”: una libertà che si concretizza nel momento stesso in cui il professore accompagna la crescita dei suoi studenti, una libertà che è stata stroncata ancora prima di spiccare il volo.
Quel professore non ha difeso il suo laboratorio, non ha difeso le sue provette, non ha difeso la sua ricerca. Quel professore, negli ultimi istanti di vita, ha pensato a mettere in salvo il vero frutto del suo sforzo: i suoi ragazzi, le giovani menti alle quali ha cercato di trasmettere la sua passione e l’esperienza degli studi. Quella del professore è stata, insomma, un’ultima difesa della propria libertà, e noi tutti dovremmo essergli grati per questo eroico gesto.

La vicenda SNAM e la salvaguardia del territorio

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QUAL E’ L’ECONOMIA CHE VOGLIAMO REALMENTE?
-LA VICENDA SNAM E LA SALVAGUARDIA DEL TERRITORIO-

Se vi dicessi che molte realtà del centro e sud Italia stanno combattendo contro un mostro voi come reagireste? Probabilmente molti di voi, credendomi pazza, chiuderanno il link e torneranno a fare qualcosa di più importante, ma a chi volesse continuare la lettura consiglio di tenersi forte, perchè il mostro di cui stiamo parlando esiste davvero e probabilmente striscerà sotto i piedi di migliaia di cittadini italiani: si chiama “Rete Adriatica”.
E’ la società SNAM RETE GAS promotrice di questo progetto: un metanodotto che si snoderà da Massafra (TA) a Minerbio (BO) con annessa centrale di compressione a Sulmona (AQ), un gasdotto da un’enorme portata attraverserà l’Appennino minacciando costantemente non solo i cittadini residenti nei territori oggetto, ma tutta l’Italia.
Il progetto lanciato nel 2004 ha subito catturato l’attenzione e il dissenso di migliaia di cittadini: il gasdotto, infatti, andrebbe ad attraversare 3 Parchi Naturali nonchè 21 aree protette, rischiando di comprometterne l’ecosistema e la biodiversità. Non dimentichiamo, inoltre, che quest’opera inizialmente collocata lungo la fascia adriatica è stata poi spostata nella zona appenninica, a causa dell’elevato grado di urbanizzazione della zona costiera, andando a coinvolgere anche alcune delle zone più sismiche d’Italia: il tratto Sulmona (AQ) – Foligno (AQ) infatti è ad elevatissimo rischio sismico,di primo grado, come in generale il tratto abruzzese collocato a ridosso della faglia del monte Morrone.
Come avete ben compreso l’impatto ambientale di quest’opera è enorme e pericoloso: collocare un gasdotto al di sotto di una zona sismica di primo grado equivale a dire continuo rischio di esplosioni, possibilità di dissesto idrogeologico, possibilità di perdita di aree naturali, aree protette e luoghi di interesse archoelogico, storico e artistico, per non parlare del livello di salubrità dell’aria che riceverebbe un notevole peggioramento a causa delle emissioni.
A questo punto bisogna chiedersi: qual è l’economia che vogliamo realmente? E’ un’economia basata sulla distruzione o sulla costruzione distruttiva forse? Oppure è un’economia “umana” rispettosa degli esseri umani e del pianeta nel quale viviamo, rispettosa dei diritti delle persone e non asservita solo ed eslcusivamente al “dio denaro”? Io credo in quest’ultima e penso che tutti gli esseri umani dovrebbero farlo, ma non perchè ciò sia soltanto giusto da un punto di vista “naturale” per così dire, ma anche e soprattutto perchè l’economia, come il denaro, sono nostre invenzioni, ed è proprio quando una tua invenzione inizia ad essere indipendente da te che diviene un mostro fuori controllo. Questo progetto è stato, oltretutto, dichiarato di interesse comunitario nel 2013, dichiarazione che mostra chiaramente la posizione europea in merito, una posizione menefreghista a dir poco di un’Europa che ha costruito il suo impero con le speranze di alcuni grandi maestri e l’ha distrutto con il materialismo di alcuni piccoli leaders.
Ovviamente, neanche il nostro caro premier sta affrontando la questione con la dovuta serietà: grazie allo “Sblocca Italia”, infatti, l’opera andrebbe ad essere considerata come rientrante nelle “infrastrutture dedicate al trasporto, rigassificazione e allo stoccaggio sotterraneo del gas in programma in Italia, comprese quelle di servitù per l’Europa che attraverserebbero il nostro Paese”: una dichiarazione di guerra praticamente al suo stesso popolo.
Attualmente il pendolo di fuoco è sospeso tra l’intransigenza della multinazionale non disposta a considerare altri tracciati disponibili e le legittime richieste di tutela da parte di cittadini e Istituzioni locali.
Vi starete, a questo punto, sicuramente chiedendo quali benefici possa apportare un’opera così impattante al nostro Paese, veniamo pertanto, ad affrontare un’analisi sia in termini economici che in termini di rischiosità dell’opera: il metanodotto, innanzitutto, trasporeterebbe il gas proveniente dall’Azerbaigian principalmente, un Paese dalle ripetute violazioni di ogni tipo di diritti umani. Come afferma Gianni Rufini, Presidente di Amnesty International: “Dietro l’immagine ostentata dal governo di una lungimirante, moderna nazione c’è uno stato in cui regolarmente e sempre più le critiche incontrano la repressione governativa. Giornalisti, attivisti politici e difensori dei diritti umani che osano sfidare il governo vanno infatti incontro ad accuse inventate, processi iniqui e lunghe pene detentive. Almeno 20 tra giornalisti, avvocati, attivisti dei movimenti giovanili e oppositori sono stati arrestati e condannati nei 12 mesi che hanno preceduto l’inizio dei Giochi europei. Alla vigilia della cerimonia inaugurale, ci è stato impedito di entrare nel paese. Lo stesso è accaduto a giornalisti del Guardian, di Radio France International e della tedesca Ard” – dice Rufini. Un Paese, dunque, dalle responsabilità molto gravi, che con quest’opera non faremo altro che arricchire: l’Italia, invece, verrà utilizzata come servitù di passaggio con l’assunzione di tutti i rischi che abbiamo sopra enunciato e, nel frattempo, dovrà sostenere gli irrimediabili danni economici causa espropriazioni e mutamenti delle destinazioni d’uso di molti fondi, alcuni dei quali gravati anche da usi civici. L’Italia, in sintesi, devasterà il proprio territorio compromettendone le peculiarità ambientali, geologiche, storiche, artistiche; metterà in pericolo la salute dei propri cittadini collocando un simile mostro in aree decisamente incompatibili con l’opera; finanzierà Paesi in cui la repressione e le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, nonchè, multinazionali senza scrupoli, e tutto questo, per guadagnarci poco o niente, divenendo un tavolo d’affari per la ricchezza di pochi. IO NON CI STO! E se anche tu, che hai avuto pazienza di leggere questo articolo, la pensi come me per favore condividi, parla di questa vicenda con i tuoi amici e parenti, renditi conto che il Pianeta è la cosa più importante che abbiamo e dobbiamo preservarlo da questi soprusi! #iononcisto #nosnam #notubo

Illustrazione: Davide Mancini aka DARTWORKS-drawstory
https://www.facebook.com/DARTWORKS-drawstroy-103674446354364/?ref=ts&fref=ts

Link di approfondimento:

http://atlanteitaliano.cdca.it/conflitto/gasdotto-rete-adriatica-brindisi-minerbio-e-centrale-di-compressione-di-sulmona

https://sulmonambiente.wordpress.com/

https://www.facebook.com/Studenti-notubo-467154420141659/?ref=ts&fref=ts

Elogio dell’artista della reinvenzione

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10 gennaio 2016, due giorni esatti dopo il compimento del suo sessantanovesimo compleanno, l’artista David Bowie muore. L’ennesimo articolo dovuto per celebrare un pilastro della musica nonchè dell’arte in generale, che ha condizionato e accompagnato il mondo da decenni a questa parte. Di David Bowie sarebbe inutile elencare i successi dell’immensa carriera musicale, mentre riveste importanza particolare alimentare e ricordare la sua immagine, come esempio della scoperta perenne di se stessi. Stoica infatti è stata la sua capacità di reinventarsi e adeguarsi ad un mondo occidentale in piena evoluzione, dal punto di vista stilistico, culturale e sentimentale, invincibile nel suo talento nell’abbracciare il nuovo, il giovane, condizionato fortemente dai suoi trasferimenti nelle capitali europee che sono tutt’ora culle della civiltà, fino all’America.
Un ricordo particolare va al Bowie di Berlino, citato non a caso nel famosissimo film “I ragazzi dello zoo di Berlino”, come emblema di una città che ai tempi necessitava di reinventarsi, riprendersi, connettersi al popolo, ma anche come emblema di una società giovanile colpita dalla droga nel pieno petto degli anni ’80. Abuso che ha colpito anche l’artista in questione come tanti altri artisti, nonostante occorra riconoscere come ad un’anima tale, l’eccesso abbia sviluppato un lato eccentrico che permette di ammirare il suo trasformismo, il flusso dell’estetica che lo ha portato a rivisitare il suo personaggio con forte determinazione, ma anche con la contraddittorietà riflessa nei suoi occhi diversi, pieni di dura espressività.
Basti pensare al conflitto d’immagine che separa il Bowie berlinese a quello degli anni ’90, berlinese al quale forse tutti ci ricolleghiamo se pensiamo alla sua grandezza, evolutasi anche nel periodo successivo, quando ormai la musica elettronica stava iniziando a spopolare. Lui si aprì anche a questa, nonostante l’affezione di tutti noi sia maggiormente rivolta a quel Bowie truccato, colorato, forte, con significato contraddittoriamente malinconico e doloroso.
Artista magico, in primis per la sua canzone, piena di trasporto verso emozioni di stomaco, dolorose per lo più, proprio per ricordare che la più grande arte nasce dal male e dal dolore, al quale però egli ha dato anche la sua immagine, immagine piena di vivace colore e shok, enigma del flusso di coscienza che accompagna qualsiasi sensibilità toccata dalla vita vissuta appieno, contrastante col testo, proprio per colpire l’occhio, primo tramite di comunicazione, per poi arrivare dentro, nell’anima nascosta dell’artista che è in ogni persona.
Documentari, articoli, telegiornali, tante cose celebrano la sua mancanza, ricordano la sua grandezza, la grandezza di un colosso rappresentativo di varie generazioni, a partire da quella dei miei genitori fino ad arrivare a quella attuale. Infatti una memoria particolare va verso la sua dedizione che dovrebbe essere d’insegnamento, dedizione alla musica che gli ha permesso di rinnovarsi e rinnovare, per continuare a svolgere la sua carriera con forza titanica. Lui era in ogni retroscena evolutivo.
La memoria più grande va al Bowie di Heroes, piacevolmente malinconico, tristemente colorato, amaramente tossicodipendente, totalmente connesso alla Berlino e quindi a tutta l’Europa e ai giovani underground del tempo, malinconici, colorati e tossicodipendenti, come lui. Questo perchè un personaggio che sia grande, deve saper comprendere e farsi portatore dei valori del suo tempo, ed è stata questa la sua forza: il vivere i valori alternativi degli anni della sua carriera, renderli arte e donarli. Un uomo che ha saputo raccogliere il peggio, per renderlo arte e bellezza.
Ciao David.

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