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Si svolgerà oggi a Messina la XXI Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie, ma in contemporanea il filo della memoria unirà anche altre città italiane. Fra queste anche Reggio Emilia, una scelta emblematica che lancia un forte messaggio da parte di tutta la società civile emiliana, impegnata nella lotta contro forme di mafia che, in maniera sempre più pervasiva, intaccano il tessuto sociale ed economico nazionale e internazionale. Proprio a Reggio Emilia, infatti, avrà luogo la fase dibattimentale del processo “Aemilia”, un procedimento di enorme portata che ha visto portare alla luce scenari sommersi, inquietanti e accuratamente “legalizzati”.
Per la complessità dell’evoluzione del fenomeno mafioso e per la necessità di affrontarlo anche in maniera scientifica e, quindi, riconoscerlo, abbiamo intervistato la Prof.ssa Stefania Pellegrini, impegnata in prima fila in questa lotta, nonché docente presso la Scuola di Giurisprudenza di Bologna, dove é titolare del corso “Mafia e Antimafia”, oltre ad essere Direttore del Master di II livello in “Gestione e riutilizzo di beni e aziende confiscati alle mafie. Pio La Torre”. Buona lettura!

Professoressa, quali aspetti delle mafie sono ad oggi maggiormente preoccupanti e come possono essere affrontati a livello legislativo e sociale?
Senza dubbio ciò che maggiormente preoccupa è la stretta connessione e commistione tra illegalità e legalità. Questo è dimostrato da un duplice fattore. Innanzitutto, le mafie investono sempre di più nell’economia legale che rappresenta uno strumento estremamente redditizio e poco pericoloso per riciclare, e quindi far fruttare, gli ingenti capitali che provengono dai mercati illegali e che, senza il riciclo, sarebbero inutilizzabili. Tale immissione di capitali sporchi nel mercato legale avviene con la complicità di professionisti che, pur rimendo estranei alle consorterie criminali, offrono le loro prestazioni mettendo a servizio la propria competenza nel costituire società, acquistare quote societarie, investire nella finanza. Non c’è una categoria di professionisti che si possa escludere da questa «corte». Si tratta di titolari di qualificatissimi studi professionali che trovano la via d’uscita per tutto: riciclare denaro, fare un investimento proficuo, truccare le gare d’appalto. E poi progetti, lottizzazioni, pratiche falsificate. Se la nostra legislazione è assolutamente all’avanguardia nel colpire le attività criminali e i capitali mafiosi provenienti da tale attività, è necessario constatare, nonostante i recenti interventi, una debolezza degli strumenti di aggressione dei reati di corruzione e riciclaggio. Pur riconoscendo l’assoluta utilità dello strumento repressivo giuridico, ritengo sia necessario recuperare e rafforzare l’incisività e l’efficacia di altre modalità sanzionatorie.
Ritengo sia necessario respingere il riconoscimento della «rilevanza penale» e della conseguente «responsabilità penale» come presupposto di una responsabilità che è innanzitutto morale etica e sociale. Nella nostra cultura politica, illegalità e immoralità, reato e peccato, responsabilità penale e responsabilità politica vengono astutamente mescolate per sfuggire ad ogni controllo.
Dovremmo riportare al centro del dibattito il principio in base al quale, come sosteneva Durkheim: «Non bisogna dire che un atto urta la coscienza comune perché è criminale, ma che è criminale, perché urta la coscienza comune. Non lo biasimiamo perché è un reato, ma è un reato perché lo biasimiamo». È quindi la coscienza collettiva, negli ultimi tempi così sgretolata, che va potenziata mediante la riaffermazione dei valori e dei sentimenti comunitari.

Cosa è cambiato nelle organizzazioni criminali di stampo mafioso e cosa invece è rimasto immutato?
La mafia ha la grande capacità di trasformarsi pur rimanendo se stessa. Le dinamiche relazionali e di potere sono sempre le stesse. Si mostrano come “benefattori” mettendo a disposizione ingenti liquidità di capitale e poi si impossessano delle attività economiche che hanno, seppur parzialmente, finanziato. Concedono apparentemente aiuto, trovano posti lavoro, licenze, ma ciò che richiedono in cambio è la totale disponibilità e l’asservimento ai progetti criminali. Queste dinamiche sono conosciute e note da sempre agli studiosi e agli operatori. Al contempo, la capacità camaleontica della criminalità organizzata è stupefacente. Si insinua nei territori sino a carpirne le risorse e a strumentalizzare relazioni di potere. Prendendo come esempio i settori economici di investimento, recenti ricerche dimostrano come la criminalità organizzata non investa solo nei settori tradizionali, ma sfrutta le risorse e le modalità di investimento tipiche del territorio. Se in Sicilia il settore più esposto è quello legato alle costruzioni, in Emilia Romagna si investe nel settore finanziario e nel servizio alle imprese. Se in Calabria si costituiscono imprese individuali, in Lombardia si investe mediante Srl.

Perché l’aggressione ai patrimoni mafiosi è uno strumento vincente contro forme di criminalità legate sempre di più al controllo di società e capitali?
La consapevolezza che l’inquinamento del mercato causato dall’infiltrazione mafiosa comporti un serio e grave pericolo per la tenuta degli equilibri economici e finanziari è andata sempre più diffondendosi, così come è ormai unanimemente condiviso il convincimento che la privazione del patrimonio mafioso rappresenti uno strumento di contrasto delle organizzazioni mafiose, forse più della stessa detenzione degli affiliati che possono essere facilmente sostituiti da un esercito di accoliti facilmente reclutabili nelle fila dell’organizzazione. Sottrarre alla mafia la sua grande disponibilità finanziaria equivale a disarticolare le organizzazioni criminali più della detenzione degli affiliati, ad evitare il rafforzamento del potere economico dell’organizzazione, a minare la possibilità di mantenere strutture logistiche e di effettuare reclutamenti, a minare la sopravvivenza economica degli affiliati, liberi e detenuti, dei loro familiari e dei loro avvocati, a limitare gli approvvigionamenti di armi, di stupefacenti e di tutto il necessario per svolgere o incrementare i traffici illeciti.

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Il processo “Aemilia” é la punta di un iceberg rimasta sommersa troppo a lungo?
In Emilia Romagna per anni ha regnato un approccio alle mafie, diffuso in tutto il Nord del Paese, caratterizzato da una sostanziale negazione del problema a seguito, innanzitutto, di un rifiuto culturale. Ammettere la presenza delle mafie avrebbe significato ammettere l’inefficacia dei tanto osannati anticorpi che avrebbero reso il tessuto sociale ed economico impermeabile alle dinamiche criminali. Ora che è emerso, non solo che il territorio non era impermeabile, ma che si è mostrato un terreno fertile, è crollato il mito dell’Emilia Romagna come quello di una Regione all’avanguardia nelle politiche di controllo sociale garantiste e tutelanti l’autonomia privata e collettiva. Ma ritengo comunque sia esagerato etichettare questa Regione come “terra di mafia”. L’indagine Aemilia ha fatto emergere un fitto intreccio di interessi economici tra ‘ndrine calabresi e imprenditori locali, ma nelle “terre di mafie” la criminalità organizzata gode di un esteso consenso sociale che qui non c’è.

Cosa rappresenta per Lei la “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie” e quale messaggio vuoLe lanciare ai giovani in questa occasione dall’alto del Suo impegno sociale e accademico?
La “Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie” rappresenta un’importante occasione per mostrare alla collettività che una società democratica e responsabile ha il dovere di ricordare tutte le vittime delle mafie che, loro malgrado, sono diventate eroi di una guerra che non può essere delegata solo a chi ricopre ruoli istituzionali. Ognuno di noi può, quotidianamente, impegnarsi a far si che le loro morti non siano state vane. Nella lotta alla mafia, la repressione, pur essendo uno strumento imprescindibile, non può da sola vincere un nemico che si nutre di consenso sociale e di indifferenza.
Costruire e partecipare a percorsi di cittadinanza attiva rappresenta un strumento che toglie alle mafie terreno fertile. Non solo denuncia, quindi, ma impegno costante e virale. Dimostriamo che il nostro Paese “bellissimo e disgraziato” è il Paese dell’antimafia e non solo della mafia. Dell’antimafia non urlata e strumentalizzata, ma di quella silenziosa che produce Cultura, Conoscenza e Consapevolezza.

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Grazia Di Cesare

Grazia Di Cesare

Mi chiamo Grazia Di Cesare sono abruzzese, ho 23 anni e frequento il quinto anno della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Bologna. Scrivere è una delle mie passioni più grandi sin da piccola, amo il giornalismo d'inchiesta e d'attualità. Mi piace leggere, viaggiare sono una curiosa per natura, amo la natura e mi piace l'avventura e scoprire sempre posti, cose e persone nuove.

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