L'UNIversiTÀ

Politica

SE EQUITALIA MUORE

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A pochi giorni dal via libera in CdM alla Legge di Bilancio 2017, il premier Renzi si è espresso ad una nota emittente radiofonica chiedendo che si evitassero le polemiche ad personam per entrare nel merito della riforma.
“Mi piacerebbe” – ha aggiunto Renzi – “trovare qualcuno dell’opposizione che dica: ‘Io sono contro Renzi, ma sull’abolizione di Equitalia io sono con lui'”.
Ciò che salta all’occhio, almeno per noi piccoli contribuenti, è l’abolizione, o presunta tale, di quello spettro che ha attanagliato le vite di milioni di italiani, Equitalia. Facile dire di cosa si tratti: Equitalia è la longa manu dell’Agenzia delle Entrate, nata sotto l’idea di due note menti, Visco e Tremonti. È stata l’applicazione che però è andata un po’ a rotoli, creando un effetto vessatorio tra contribuente e Agenzia.

Equitalia non è l’ente a cui spetta il controllo della lotta all’evasione, compito dell’Agenzia delle Entrate o della Guardia di Finanza. Per difetto il ruolo principale di Equitalia è quello di andare a risolvere i contenziosi legali o sul pagamento delle imposte.
Sul piano strettamente materiale Equitalia invia delle cartelle di pagamento ai contribuenti che non hanno versato l’imposta nei modi e nei tempi dovuti.
Questi interventi consentiranno una maggiore autonomia gestionale dell’ente di riscossione.
La domanda che sorge spontanea è: che fine faranno milioni di “padri di famiglia” dopo l’abolizione di Equitalia? Nessun problema, il nostro Premier ha pensato a tutto! Si andrà ad incorporare il personale in “esubero” all’interno dell’Agenzia delle Entrate con il medesimo inquadramento contrattuale. Ragionando per conseguenze non andremo lontani. Si, verrà eliminato l’odiato spettro che prende il nome di Equitalia con una ricollocazione del personale ma la riscossione sarà sempre dietro l’angolo.
Quindi qual è l’obbiettivo perseguito da Renzi con l’abolizione di Equitalia? Rimpinguare le tasche dello Stato in un lasso di tempo relativamente breve, di fatto, conosciamo il motto: Pagare tutti, pagare subito.
Come? Scorporando dalle cartelle di pagamento more ed interessi che verranno quasi azzerati, potendo pagare sola la multa o l’imposta con una maggiorazione fissa del 3%.
Tutto ciò riuscirebbe a far rientrare nelle casse dello Stato 4,2 milioni di euro.

Sulla manovra si è espresso anche il Ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, spiegando che non si tratta assolutamente di un condono, perché si pagherá il valore al netto della cartella di pagamento.
Lo stesso circa il tema scottante della voluntary disclosure che si focalizzarà sulla speranza di far emergere tale ricchezza. Ricchezza su cui bisognerà pagare delle imposte. Sempre Padoan ha aggiunto che tale riforma non è da qualificare come mero spot elettorale, affermando che potrà apportare solo del bene al Paese.

Ad entrare sempre più nel dettaglio è stato, invece, il viceministro dell’economia, Enrico Zanetti, spiegando come e cosa si dovrà pagare. Pagheremo l’imposta per intero, mentre verranno scomputate le sanzioni e gli interessi di mora, plus che fa lievitare l’importo delle cartelle stesse di oltre il doppio.
Si ragiona sui tempi ed i modi per “aderire”, preso atto che non si tratta di elidere presidi, ma di andare a rideterminare il carico fiscale sugli evasori.

Ma l’UE? Fermi tutti! Si assisterà ad una “rottamazione” delle cartelle di pagamento, ma con le dovute precisazioni. L’Iva, imposta di matrice europea, rimarrà. Ad oggi non vi è stato un accordo tra Italia ed Unione Europea.

Provando a tirare le somme, la riscossione andrà nelle mani dell’Agenzia delle Entrate e cercando di snellire le procedure che portano alla mera riscossione, lo Stato vedrà rimpinguate le proprie casse; anche per questa volta Renzi avrà regalato mezzo sorriso all’italiano medio.
Giuseppe Pisciotto

Referendum: ma ne siamo davvero in grado?

Sono giorni di contesa politica e di campagna elettorale in vista della data per eccellenza: il 4 dicembre. Quest’ultima è stata caricata così tanto da essere ormai diventata il vero e proprio giorno del giudizio politico: il giorno del referendum sulla riforma costituzionale. Malgrado le incertezze siano predominanti, possiamo permetterci una sola ma ben precisa sicurezza: la mattina del 5 dicembre il panorama politico italiano sarà diverso da come lo conosciamo oggi. Pesi e contrappesi, personalità predominanti e satelliti: tutto questo verrà automaticamente messo in discussione dal risultato di una così importante decisione politica. Una decisione che sarà presa dai cittadini stessi che si recheranno alle urne per un SI o per un NO. O per una scheda bianca. O una più o meno fantasiosa scheda nulla…

E così, con in testa queste parole, che si sono aggiunte alle centiania di migliaia già lette su giornali e su internet, oltre a quelle sentite e risentite in televisione o su YouTube e canali vari, il 30 settembre mi preparavo per il dibattito tra Matteo Renzi e Gustavo Zagrebelsky. Aspettavo questo dibattito da giorni: lo scontro tra titani. Da una parte il furbetto di Firenze, difficile da arginare quando straripa. Dall’altra il gigante professorone, pacato quanto tagliente. E quindi ero pronto, in pieno stile fantozziano con familiare di peroni gelata, frittatona di cipolle e rutto libero. Mi ero organizzato per bene con i miei amici e, alla fine, eravamo un gruppetto piuttosto numeroso ed eterogeneo. Accanto a solito e immancabile oddiomasietedavverotroppi gruppo di “giuristi”, c’erano una studentessa di Lettere, un dottore in Scienze infermieristiche e un laureato in Ingegneria: tutte persone con un ottimo livello culturale, nessuna di queste completamente “chiusa” o insensibile a ciò che succede nel mondo e in Italia. Il risultato? Più volte queste valide persone chiedevano chiarimenti, spiegazioni, semplificazioni di ciò che sentivano in televisione. Domande alle quali, dall’alto della magnifica cultura giuridica, era difficile trovare una risposta piacevole o minimamente comprensibile (senza uno sbadiglio di mezzo). Questo perché il dibattito è stato inutile. Non ha avuto alcun valore “pedagocico” ma, al contrario, ha contribuito a confondere chi aveva una mezza idea. Un dibattito che ha ringalluzzito solo le rispettive tifoserie, felici di aver visto i loro beniamini e ben pronti ad elogiarli acriticamente.

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Il confronto tra Renzi e Zagrebelsky moderato da Mentana

E allora, ho subito pensato: caspita! Siamo messi davvero male! Se un gruppo di persone ben istruite e interessate ai temi politici più importanti ha avuto grande difficoltà a capire la materia del referendum costituzionale…cosa dire dei tanti milioni di concittadini disinteressati e con una differente istruzione? (altro…)

Primavere sfiorite?

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Ricordo bene quando, ormai cinque anni fa, scrivevo delle Primavere arabe. Dovevo scrivere un pezzo per il giornale del mio liceo, “Il Pitagora”, piccola (ma efficace) testata che ricordo ancora con tanto affetto. Erano giorni concitati quelli dei primi mesi del 2011. I telegiornali, i giornali e i social networks descrivevano un mondo, quello dei giovani arabi, in rivolta.
Una rivolta come non si era mai vista; un moto popolare fresco, giovane, consapevole della sua forza e desideroso di affermare i suoi diritti, quegli stessi diritti conosciuti, desiderati e poi urlati proprio grazie a Facebook e Twitter, i nuovi megafoni dei manifestanti. Le rivolte (la maggior parte) erano esplose seguendo il tipico copione delle grandi rivoluzioni: una crisi, economica e sociale; un governo insensibile e irrispettoso delle istanze della popolazione; una drammatica e terribile mancanza del bene base sempre dato per scontato e, proprio per questo, più importante di tutti: il pane.
Questi erano solo alcuni dei tanti fattori che, uniti tra loro, avevano dato vita a quel malcontento, evolutosi poi in coraggio e in sfida diretta e sfrontata. Una lotta aperta e consapevole contro le rigide istituzioni di quei paesi, dallo Stretto di Gibilterra alle Alture del Golan. Un’intera cintura di paesi, uniti da profondi legami storici e culturali, oltre che linguistici, era in rivolta. Paesi legati e simili sotto molti aspetti, anche socio-politici, ma comunque ben diversi tra loro: una diversità che molto spesso, un Occidente prepotente e irrispettoso verso le altre civiltà, dimentica facilmente.
Parlare oggi, nella Primavera del 2016, di quelle “primavere” sbocciate in quei mesi (e di cui avevo scritto tanto appassionatamente) fa uno strano effetto. Il primo e più ovvio impatto è quello di confrontarsi con una promessa mancata, una speranza delusa. Il confronto tra le pagine del 2011 e le pagine di questa nostra primavera, ormai solo metereologica e non più politica, è davvero impietoso. In quel pezzo di 2011, mentre l’Italia era impantanata negli ultimi drammatici gemiti del berlusconismo (e delle relative olgettine e feste di palazzo), mentre cioè la situazione nazionale appariva deprimente e con ben poco da offrire, laggiù, dall’altra parte del Mediterraneo, le cose apparivano diverse.
Era bello abbandonare le “pochezze” del nostro giardino politico per ammirare qualcosa di più appassionante e, a suo modo, storico: centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, soprattutto giovani e giovanissimi, per la prima volta in rivolta. Un movimento spontaneo di popolo che appariva come risvegliatosi da un lungo sonno e, (all)ora, finalmente pronto ad ottenere una conquista: la dignità. La dignità di essere riconosciuti dal proprio governo come persone, prima che come sudditi. Sembrava davvero che si stesse assistendo ad un cambiamento radicale di quelle società, rigidamente governate da dittature militari. Dittature “laiche”, nemiche dei fondamentalismi religiosi e, proprio per questo, finanziate e sostenute dall’Occidente, da noi. Gheddafi, Ben Alì, Mubarak, Assad. Sono i nomi di alcuni dei rais che hanno pagato a caro prezzo (anche con la vita stessa) questo momento storico.
Non è un caso che solo uno di questi nomi accenda una scintilla nella sorda indifferenza generata dagli altri, ormai non più importanti. Il nome è quello di Assad, l’attuale presidente di una Siria a pezzi, teatro di una sanguinosa e distruttiva guerra civile. La Siria, culla della civiltà e scrigno di magnifici tesori archeologici, oggi si presenta come la prova madre del fallimento di una stagione.
La premessa delle primavere arabe era che, anche in quella contraddittoria parte del mondo, si fosse arrivati ad un punto di svolta. La promessa era la democrazia, accompagnata da un riavvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo, che sarebbero state accomunate da questo valore. Sono stati i fatti a smentire questa promessa, travolta da una poderosa e micidiale reazione. L’esempio più lampante è rappresentato dall’Egitto: dittatura militare sotto il generalissimo Mubarak prima, fragile “democrazia elettorale” governata dai Fratelli musulmani poi, oggi dittatura militare guidata dal generalissimo Al Sisi (in questi giorni tristemente nota). Questo schema, volutamente semplicistico, può far capire la crudele sequenza di eventi succedutisi da quel lontano 2011.
In questo contesto però, si alza una voce timida e orgogliosa: è la fragile voce della Tunisia, paese sotto attacco da parte dell’Isis, confinante con una Libia a sanguinante e a pezzi. Una Tunisia che vede nel turismo la sua principale risorsa e che proprio per questo subisce sanguinosi attentati nelle sue strutture balneari. Questo paese, culturalmente molto legato alla Francia, sembra aver rispettato alcune di quelle promesse, pur reggendosi su una fragilità che non lascia spazio a trionfalismi.
Eppure, dopo questo confronto tra due editoriali di tempi e giornali diversi, viene da chiedersi: fino a che punto è giusto parlare di “primavere sfiorite”? Lo stesso termine, primavera, sottintende che in precedenza vi fosse un inverno. E, in questa concezione, non si annida forse la presunzione, tutta occidentale, di essere la migliore civiltà possibile e ritenere quindi arretrate ed ignoranti tutte le altre “non ancora pronte” per la democrazia? E non è forse questa l’anticamera delle guerre di “esportazione della democrazia” che conosciamo tanto bene?
Probabilmente, l’articolo del 2011, non si concentrerebbe su questi interrogativi. Quell’articolo avrebbe in mente una diversa concezione di giustizia e di libertà. L’articolo del 2016, forse proprio perché venuto dopo tante “primavere”, non può che risolversi in un invito al rispetto verso i tempi e i modi della storia, specie se è quella degli altri. Eppure, inevitabilmente, quella nota di rammarico rimane; così come la speranza che, un giorno, si possa ritornare a vedere quelle immagini, sorridenti e vittoriose.

Da un raìs all’altro

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Ogni mistero, specie se annidato sulla sfera politica delle relazioni tra stati, può finire per disperdere all’infinito le tracce che dovrebbero portare ai responsabili. La sensazione è che il giallo della morte di Giulio Regeni possa protrarsi a lungo, senza trovare risposte. La tragedia che ha colpito il nostro concittadino friulano sembra aprire una finestra di coinvolgimento nell’opinione pubblica, rispetto al tipo e alla quantità di rapporti che ci sono tra il nostro Paese e l’Egitto, oltre a riportare all’attenzione le dinamiche di potere interne a uno dei più rilevanti attori del Medio Oriente.
L’ordine di grandezza delle relazioni tra i due Paesi non sembra affatto trascurabile. Non è certo una novità che i Paesi arabi, da sempre, rappresentano un’area di interesse per gli Stati europei che, come il nostro, si affacciano sul mar Mediterraneo. E sono in tanti, a dire il vero, a bussare alla porta del generalissimo Abdel FattahAl-Sisi. Ci sono le banche, per cominciare, con il primo gruppo bancario italiano, Intesa San Paolo, che dal 2006 ha acquisito il quinto istituto di credito egiziano Bank of Alexandria, muovendo 5 miliardi di euro e rendendolo di fatto l’unico istituto a capitale straniero nel paese arabo. Banche, ma anche energia, altro settore sul quale l’Italia può fare la voce grossa rispetto agli altri competitor internazionali. L’estate scorsa Eni ha scoperto le potenzialità del supergiacimento Zhor, una miniera da 850 miliardi di metri cubi di gas, che porta con sé un indotto di gasdotti e infrastruttre. A tutto ciò, si aggiungano una miriade di legami che intrecciano gli interessi della nostra cara piccola e media impresa con le piattaforme imprenditoriali egizie.
Relazioni che, dunque, sembrano fitte e intense, al punto tale da chiedersi legittimamente se questo possa rappresentare o meno un elemento utile per minacciare Al-Sisi e lo stato maggiore egiziano, qualora non venga fatta chiarezza su questo mistero.
Eppure sappiamo che é stato proprio lo stesso Presidente egiziano a rassicurare il Governo italiano circa l’impegno delle forze di intelligence egiziane per far luce sulla morte di Regeni. Ma sappiamo anche che al momento è in azione una task-force investigativa italiana. L’efferatezza riscontrata sul corpo di Giulia sembra scatenare, infatti, la sensazione che possa trattarsi di omicidio politico, nemmeno questa certo rappresenta una novità. Ciò che non risulta chiaro ancora a nessuno è il perché colpire proprio un ricercatore, e perché questo ricercatore. Che possa trattarsi di uno scambio di persona, di un effettivo spionaggio o un semplice abbaglio della polizia egiziana, bisogna sempre partire dal lavoro che Regeni faceva sul territorio egiziano.
Ciò che è risaputo ai più, perché rimpallato su tutti i media, è che, oltre ad essere stato un articolista del Manifesto, pur pubblicando sotto pseudonimo, Giulio Regeni guardava ai sindacati indipendenti egiziani per i suoi interessi di ricerca.
Perché proprio i sindacati? Perché rimarcare la definizione di “indipendenti”?

Per andare in profondità e cercare di capire cosa tutto questo possa implicare, bisogna fare un passo indietro e tenere presente le dinamiche della politica interna dello Stato arabo. L’Egitto di questi anni ci fa tornare alla memoria i fatti del 2011 e la “primavera” di quei popoli che arrivarono, per extrema ratio, a destituire i propri raìs. Come accaduto in Tunisia, Libia e Yemen, anche gli egiziani ottennero la testa del proprio dittatore, Hosni Mubarak. Come nel giro di tre anni si sia arrivati da Mubarak ad Al-Sisi non è altro che la storia ordinaria di come le rivoluzioni del continente africano vengano facilmente tradite, in un susseguirsi di colpi di Stato, gelando i sentimenti della primavera araba, già bollata come grande illusione. Laddove la politica è troppo debole, sono i militari a prendere in mano le sorti di questi Paesi. Come in questo caso. Una giunta militare accompagna l’uscita di scena di Mubarak e indice elezioni libere per il 2012. La stessa giunta, un anno più tardi, destituisce con un golpe guidato da Al-Sisi, allora ministro della difesa, il neo-eletto presidente Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, il cui stesso governo non aveva mancato di assumere derive autoritarie a sfondo religioso e senza peraltro porre freno alle proteste per l’inasprirsi della crisi finanziaria egiziana. Da un raìs a un altro. Al-Sisi, infatti, ha consolidato il proprio potere quando, nel 2014, il suffragio popolare gli ha fatto toccare una di quelle percentuali bulgare – 96% – alle quali siamo stati già abituati dalle esperienze passate di altri regimi mediorientali. Un dato che gli ha permesso di soffocare l’opposizione, arrestando circa 20mila persone, sospettate di ostilità verso il nuovo assetto di potere, in nome della lotta al terrorismo. Concetti che è, tuttavia, difficile distinguere in Egitto. Pur trattandosi di un paese in cui la confessione islamica è prevalente, ciò non intacca la natura laica che le sue istituzioni hanno voluto assumere dal momento della decolonizzazione in poi. Motivo per il quale il multipartitismo e l’opposizione liberale sono tollerate. A farne le spese sono, invece, le frange dell’estremismo, sia politico che religioso. E poi ci sono i sindacati e con essi, di conseguenza, i diritti dei lavoratori egiziani. Anche questi duramente colpiti dal golpe di Al-Sisi in poi. E’ qui forse che si può collocare la rischiosa attenzione di Giulio Regeni per il sindacalismo indipendente. Le medesime ragioni per le quali lo stesso preferiva non firmare i suoi articoli, temendo per la propria incolumità. Prima della presenza di sindacati indipendenti bisogna, innanzitutto, riscontrare la presenza di un sindacato “ufficiale”, l’Egyptian Trade Union Federation (ETUF), federazione sindacale diretta dallo Stato e quindi difficilmente da considerarsi “indipendente”. Obiettivo esplicito di Al-Sisi è rafforzare la collaborazione tra l’ETUF e il governo, in maniera tale da marginalizzare il ruolo dei sindacati indipendenti nella rappresentanza dei lavoratori egiziani. I sindacati indipendenti si erano moltiplicati proprio a partire dalla rivoluzione del 2011, distinguendosi fra questi, in aperta contrapposizione all’ETUF, l’Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU) e l’Egyptian Democratic Labour Congress (EDLC).
Gli ultimi frammenti di questo interessante contesto socio-politico è lo stesso Giulio Regeni a fornirceli, attraverso l’articolo pubblicato dal Manifesto lo scorso 5 febbraio, a firma di Giulio, nonostante l’opposizione dei famigliari. Il raìs sembra essere riuscito nel suo intento di indebolire le frange indipendenti, dal momento che le due principali formazioni indipendenti sembrano agire ormai in maniera troppo frammentata e per lo più a livello locale. Troppo colpite dalle operazioni di repressione e cooptazione del governo, che, da due anni a questa parte, impedisce loro di convocare una assemblea generale. Regeni si trovava a riportare le loro ultime istanze, l’idea di stare uniti e veicolare una nuova protesta che guardasse ancora una volta a piazza Tahrir, cuore della rivoluzione.
E’ molto difficile riuscire a incrociare ricerca e giornalismo, trovandosi questi a viaggiare quasi sempre su binari paralleli. L’esperienza di Giulio dimostra che è possibile farlo, soprattutto se è la passione ciò che unisce questi diversi fini. La ricerca della verità del giornalismo, da una parte, la rigorosità e i canoni della ricerca accademica dall’altra. Un binomio che alla fine può rivelarsi troppo scomodo per alcuni.

Gianluca Scarano
Dottorando in Sociologia economica e studi del lavoro presso l’Universitá degli Studi di Milano ed ex rappresentante degli studenti presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna

La politica di House of Cards

House of cards è la serie che è riuscita nel difficilissimo intento (specie in questo periodo storico) di fare della politica un dramma teatrale in streaming. La scalata al potere di Francis e Claire Underwood, i nuovi “coniugi” Machbeth della politica di Washington, sapientemente coniugata con le loro vicende (e strategie) private, è una storia che ha coinvolto tantissimi e ha fatto diventare House of Cards la serie capofila della sua piattaforma streaming, Netflix.

Si è detto e scritto molto sulle qualità della serie, sulle sua capacità innovativa e sul carisma dei due attori protagonisti in stato di grazia, Kevin Spacey e Robin Wright. Una serie che, giunta ora alla sua quarta stagione, è stata caratterizzata da momenti qualitativamente ed emotivamente elevatissimi, per poi cedere il passo ad altri passaggi meno chiari ed immediati oltre che meno efficaci. Fermo restando quindi gli alti e bassi tipici di ogni serialità, House of cards si è sviluppata sempre sullo stesso palcoscenico: il mondo della politica. Più precisamente, la politica americana, la “Washington dei burocrati” e dei palazzi del potere tra i quali spicca l’House of cards per eccellenza: il Campidoglio (sede del Congresso Usa), dove tutto ha avuto inizio.

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Ma qual è la politica di House of cards? La serie, basata sull’omonimo romanzo dello scrittore britannico Michael Dobbs, ci mostra dei politici senza scrupoli, ciascuno impegnato nella sua (crudele) lotta personale per ottenere il potere. Una lotta senza esclusione di colpi, anche i più bassi, incentrata sull’ambizione seconda a nient’altro e su un unico desiderio: raggiungere il gradino immediatamente più in alto e poi quello dopo, e quello dopo ancora…

Qualsiasi politico di House of cards, sia esso un deputato, un senatore, un capogruppo, un vice-presidente o altro, gioca le carte di cui dispone e punta tutto per ottenere il massimo possibile. Un gioco crudele e violento, le cui armi sono il ricatto, l’intimidazione, l’astuzia, il voltafaccia. Ogni mossa viene attentamente studiata ed eseguita solo se è in grado di portare il massimo vantaggio personale, immediato o futuro.

E gli elettori? Il “popolo”?

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REFERENDUM 17 APRILE 2016: UN VOTO PER LA VITA E PER IL FUTURO

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Ebbene il referendum sul mare si farà! La Corte Costituzionale ha così ammesso il quesito referendario che permetterà ai cittadini italiani il 17 aprile 2016 di poter esprimere il proprio voto in merito alla abrogazione o meno della disciplina, così modificata dalla Legge di Stabilità 2016.
Essa prevede che i titolari di permessi di perforazione, coltivazione e ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia possano proseguire le loro attività senza scadenza sino alla “durata della vita utile del giacimento” – fermo restando il limite delle 12 miglia per la concessione di nuovi permessi. Una vera esenzione privilegiata che permetterà alle società, già operanti nel settore energetico fossile ed in possesso di permessi in Italia, di protrarre senza scadenze le proprie attività nei nostri mari, se non interverrà in sede referendaria una volontà decisa e compatta di tutta la società civile. Ci troviamo dinanzi ad una pluralità di attacchi non solo contro l’ambiente, ma anche contro la salute dei cittadini e l’economia di molte zone: le trivellazioni, infatti, comporterebbero nelle zone interessate una concentrazione di sostanze nocive e cangerogene rinvenibili nell’aria, nella terra e nelle acque come l’idrogeno solforato (H2S), nitrati (NOx), i composti organici volatili (VOC), gli idrocarburi policiclici aromatici (PAH), nanopolveri pericolose, alcune delle quali possono provocare modificazioni genetiche non di poco rilievo. Questo dato, com’è facile intuire, si ripercuoterà negativamente sulla salute dei cittadini, sulla qualità del cibo che mangiamo e dell’aria che respiriamo, senza tener conto della possibilità molto alta che si verifichino incidenti tali da poter compromettere interi ecosistemi.
Uno studio dell’Ispra, inoltre, ha accertato la dannosità della cosiddetta “airgun” una tecnica di ricerca petrolifera particolarmente impattante per il sistema marino in quanto danneggia irrimediabilmente il sistema immunitario di organismi acquatici, impedendone la riproduzione.
E’ pertanto vitale votare per l’abrogazione di questa disciplina sia in negativo, per evitare che il legislatore rimuova il limite delle 12 miglia dinanzi a una volontà popolare contro l’estensione delle esenzioni, sia in positivo, perché il Ministero non prosegua con la concessione di permessi entro i parametri e concentri politiche e risorse verso fonti di energia sostenibili e rinnovabili.

PRIMARIE USA – Il bacio del momentum

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Che cosa vuol dire momentum? Una parola latina, dal sapore arcaico, spesso usata nella politica americana. Che significato ha questo termine?
Gli adolescenti, si sa, hanno sogni, e spesso sono sogni strani: all’epoca del secondo anno di liceo, ormai circa otto anni fa, il mio sogno era quello di poter votare alle primarie americane. Leggevo quasi ogni giorno Repubblica, e settimana dopo settimana le seguivo con curiosità: era il momentum di un giovane senatore dell’Illinois che affrontava la macchina da guerra di Hillary Clinton, ex first lady di fama internazionale. In politica, si sa, fino a quando non viene contata l’ultima scheda nessuno ha la certezza di essere il vincitore. E fu così che gli elettori incoronarono il nuovo leader del Partito Democratico, che di lì a poco sarebbe diventato Presidente degli Stati Uniti d’America. Insomma, era il momentum di Barack Obama.
Ma che cos’è il momentum? Si tratta di quella particolare atmosfera che ci fa capire che qualcuno è destinato ad un compito, a farsi carico di una missione, e la gente per questo motivo è disposta a seguirlo e a dargli fiducia. E’ un’aura di fascino e di carisma che avvolge una figura politica ed accompagna la sua ascesa. E’ un qualcosa di artificiale, creato dalle circostanze, dalla lente dei media e dal sostegno (anche economico) crescente.
A distanza di anni, sorge spontanea una domanda: da che parte soffia il vento del momentum nel 2016? Tutto è cominciato in Iowa, il primo Stato ad essere chiamato ad esprimere la propria preferenza: con appena 3 milioni di abitanti, l’Iowa rappresenta meno dell’1% della popolazione americana. L’ironia della sorte vuole che questo territorio prenda il nome da una tribù indiana che lo abitava, e che fu costretta ad allontanarsi con l’arrivo dei coloni. E’ qui che ha inizio il grande gioco. E’ qui che può scoccare la scintilla: è qui che può cominciare il momentum di un candidato.
L’importanza dell’Iowa come Stato si riduce esclusivamente al fatto che si tratta del primo Stato in assoluto a votare. O meglio, ad organizzare i caucus. Per alcuni giorni, i riflettori del mondo intero si concentrano sul remoto Iowa e sui suoi caucus.
Mentre il Partito Repubblicano dà sfogo al proprio elettorato ricorrendo al classico strumento del voto, il Partito Democratico organizza delle particolari forme di assemblea in cui ogni partecipante esprime il proprio punto di vista su di un candidato. Al termine della riunione, i vari partecipanti si dividono in gruppi all’interno della sala, a seconda del personaggio che vogliono sostenere. I membri di ogni gruppo possono cercare di convincere gli altri a cambiare schieramento, e lo possono fare nei modi più disparati. Se un gruppo di persone non supera determinate soglie numeriche, i suoi appartenenti devono dividersi fra gli altri gruppi. I caucus vengono organizzati nei luoghi più disparati: scuole, palestre, chiese, club di cucina. E’ proprio questo sistema di voto ad aver determinato un risultato del tutto inaspettato in ambito democratico, una sorta di pareggio fra i due candidati.

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Da una parte abbiamo ancora una volta Hillary Clinton, personaggio di spicco della politica americana, forte di un curriculum di che nessun altro candidato può vantare Dall’altra, Bernie Sanders, parlamentare che ama definirsi socialdemocratico, parola che negli USA equivale quasi ad una bestemmia.
Le consultazioni del Partito Repubblicano, invece, sono state il teatro non tanto del successo di qualcuno quanto di due sconfitte: quella di Jeb Bush, in primis, il terzo della sua famiglia ad ambire alla Casa Bianca; quella di Donald Trump, miliardario schietto e populista dato da tutti come super favorito (come dire:”Gli USA sono il paese che amo. Qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti“). I conservatori hanno consegnato la palma della vittoria a Ted Cruz, candidato forte dell’appoggio delle frange più integraliste del movimento religioso, e a Marco Rubio, che pur essendo arrivato terzo ha comunque fatto parlar di sè. In Iowa, insomma, sembrava che fosse il momentum di Sanders, così come di Cruz e Rubio in campo avverso. Le primarie del New Hampshire hanno in parte confermato, in parte smentito questi fatti: da un lato, sicuramente non è ancora scemato il fenomeno Bernie Sanders, mentre in campo repubblicano la seconda tappa ha portato al trionfo di Donald Trump.
In prospettiva, si potrebbe avere una rimonta dell’unica donna realmente in lizza in questo grande gioco, così come un’affermazione più netta di Trump: in queste primarie, in realtà, il momentum non ha ancora toccato nessuno dei vari candidati. Non ci resta che aspettare le prossime consultazioni, ed in particolare il Super Tuesday, il primo giorno di marzo, in cui sarà chiamata al voto una buona parte degli Stati americani.
Per i Democratici e per i Repubblicani, il bacio del momentum deve ancora arrivare.

Referemdum costituzionale e crisi UE: il 2016 riscriverà la nostra cittadinanza

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Che cittadini saremo?
Il 2015 ci ha lasciato con un carico di incertezze. Incertezze che ci accompagnano da anni e che percepiamo nel dibattito pubblico e privato. Allo stesso tempo, l’anno appena passato ha aggiunto un bagaglio di nuove e cupe domande, lasciandoci con un retrogusto di inedita insicurezza. Un anno violento, il 2015, specie nei suoi mesi finali caratterizzati da quello che da più parti è stato etichettato come “l’attacco all’Europa” e dall’inizio di una “nuova guerra al Terrore”, per quanto nuova possa essere ritenuta la degenerazione di un sanguinoso conflitto, quello siriano, che imperversa ormai da cinque anni.
Un anno in cui più volte è stata rilanciata l’immagine del continente europeo minacciato, dell’Europa sotto attacco da parte di forze incredibilmente più forti e influenti dell’Unione stessa. Un’Ue che ha assistito con grande partecipazione alla “tragedia greca” e ha vissuto la crisi di un popolo mai fino ad ora percepito come così vicino, nel bene e nel male. Un’Unione (anche) di popoli in crisi di identità e incerta sul suo stesso futuro.
Il 2016 si apre con questa gravosa eredità e con gli sviluppi di quanto è già iniziato nei mesi precedenti. Fare pronostici è sempre difficile e l’impresa diventa davvero ardua se questi riguardano gli orientamenti principali che la società seguirà e vivrà.
Un’impresa che rischia di diventare superflua e velleitaria visti i continui cambiamenti che un mondo, multipolare e complesso come quello attuale, serba quotidianamente.
Eppure è possibile individuare sin da ora due temi che saranno al centro dell’agenda comune. Due temi strettamente legati tra loro, in grado di influire sul nostro essere cittadini, italiani ed europei. Il 2016 sarà l’anno in cui, in un modo o nell’altro, verranno riscritti i termini della nostra cittadinanza.

Il referendum costituzionale, annunciato per il mese di ottobre, rappresenterà la fase conclusiva di un lungo e articolato processo parlamentare e politico che ha come obiettivo la modifica della Carta del 1948. Una riforma sulla quale ha puntato tutto il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, collegando il suo futuro politico alla vittoria del Sì al referendum confermativo.
Un referendum che non richiederà alcun quorum come in quelli a cui siamo più abituati (ad essere chiamati) a partecipare. Sarà una lotta che vedrà contrapposti due schieramenti ben distinti e che avrà come oggetto una proposta, alla quale si risponderà con un sì o con un no.
Il referendum (specialmente quando riguarda la Costituzione) è lo strumento di democrazia diretta per eccellenza, la chiamata del popolo alle urne per effettuare una scelta che è ritenuta fondamentale per il percorso politico della Nazione. Esso rappresenta una chiamata di responsabilità del singolo in quanto cittadino e membro di una comunità che si riunisce per scegliere il proprio futuro.
Al di là del “romanticismo repubblicano”, la cruda realtà politica rappresenta un Presidente del Consiglio che punta tutto sul referendum, rendendolo di fatto un voto di fiducia collettivo nei suoi confronti. Non deve stupire: il personaggio politico di Matteo Renzi si basa sulla sua capacità innovatrice (o presunta tale) e sul suo fermo decisionismo. “Portare a casa” una riforma del sistema costituzionale, in grado di snellire il processo decisionale e rendere più efficiente quello legislativo, è indubbiamente un risultato di un certo rilievo. Il tutto senza dimenticare i tentativi che sono stati effettuati più volte da altrettanti leader forti (Craxi, D’Alema, Berlusconi) e desiderosi di lasciare un segno incisivo sulla struttura dello Stato e, in definitiva, la sua storia. Superare il cosiddetto “bicameralismo perfetto”, ovvero la completa parità di competenze tra Camera e Senato, ritenuto ormai inadeguato, è uno degli obiettivi che la politica italiana si pone da decenni senza però riuscire a raggiungerlo.
Il segretario del Pd vorrà quindi sondare il suo consenso con il referendum confermativo e, in caso di vittoria, potrebbe agevolmente continuare la sua carriera politica puntando alla riconferma per un ulteriore mandato. Un leader attento alla sua popolarità ma che necessita di un successo elettorale almeno pari a quello delle elezioni europee del 2014.
Matteo Renzi, infatti, nonostante la sua scalata al Partito democratico basata su una schiacciante vittoria alle primarie, non ha raggiunto Palazzo Chigi con un successo elettorale, ma con un voto del “vecchio” Parlamento del 2013. Sulla carta, una procedura perfettamente legittima in una Repubblica parlamentare. Sul piano politico, una debolezza che il Presidente del Consiglio deve colmare con una massiccia chiamata ai seggi. Un referendum che si colora quindi di un significato particolare.

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ATTENZIONE: la gasparrite ha colpito ancora!

Ci risiamo: la gasparrite ha colpito ancora. Il nostro paese presenta uno dei più alti tassi di incidenza di questa terribile malattia in grado di mettere in ginocchio il nostro sistema sanitario nazionale. I medici e i ricercatori di tutt’Italia si stanno interrogando su come combattere il diffondersi di questo morbo letale. Fino ad ora, nonostante gli sforzi eroici di tanti scienziati, i risultati sono stati al di sotto delle aspettative: la gasparrite continua nella sua incontenibile opera di distruzione.

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Equipe medica al lavoro contro il morbo

Ma quali sono i sintomi di questa piaga sociale e qual è la sua origine?

Quanto ai primi, sulla base dei pochi dati di cui disponiamo, possiamo dire che la gasparrite comporta:

  • Febbre alta e manie di grandezza
  • Incontenibile desiderio di essere al centro dell’attenzione
  • Elevato rilascio di luoghi comuni
  • Piccoli ma numerosi segni di razzismo sparsi
  • Tremolio da populismo
  • Bolle di qualunquismo

Ancora non sappiamo se questi siano gli unici sintomi del morbo ma, nel caso doveste provarne uno o più tra questi, contattate immediatamente l’autorità sanitaria più vicina.

Maurizio Gasparri (FI)

La gasparrite nasce dall’opera dell’eccellentissimo Maurizio Gasparri, senatore della Repubblica nonché Vicepresidente del Senato. L’egregio vanta un curriculum di tutto rispetto e un carisma d’altri tempi. Fascista da sempre, il nostro si è sempre distinto nell’attivismo politico e nella sua incredibile capacità di risultare inadeguato ma, allo stesso tempo, onnipresente. Maurizio è artefice di una roboante scalata che, dai fasti del mitico e cameratesco Movimento sociale italiano, lo ha portato a vestire i panni di Ministro delle comunicazioni oltre che di alfiere del regno berlusconiano. Tutti (?) ricorderanno sicuramente la mitica “legge Gasparri” (o forse ricorderanno l’imitazione di Gasparri fatta da Neri Marcorè. Sì: decisamente questa). Di sicuro la ricordano dalle parti di Mediaset e Fininvest.

Ma tutti i regni, prima o poi, finiscono e il nostro caro principe berlusconiano si è ritrovato senza Re e senza nemmeno reame. Eppure, il Maestro non ha voluto saperne di essere “rottamato”: affatto. Ha trovato un modo semplice ma spietatamente efficace per essere ancora presente in un’era politica in cui avrebbe poco a che fare. Ed ecco la gasparrite. Sparare esternazioni incredibilmente stupide e violente, volgarità cameratesche che farebbero rabbrividire il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket. Ed in questo consiste tutta l’attività politica del senatore, nient’altro. Del resto, per quale altro motivo si dovrebbe ricordare il nome di un reperto archeologico di un’epoca ormai decaduta? Quale contributo dà il senatore Maurizio Gasparri al dibattito politico se non quello di riportare tutti, come una fantascientifica macchina del tempo, all’età della pietra (e qui potrebbe offendersi qualche nostro antenato)? Il nostro cyberbullo ha costruito un impero tutto suo, un mondo autosufficiente in cui tutto è fatto a sua immagine e somiglianza (e cioè: tutto è assai volgare). Fare una rapida carrellata dei suoi ormai epici e numerosissimi “tweet” è un gesto che ogni buon cittadino dovrebbe fare.

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Tipico esempio di gasparrite acuta

Eppure, sia chiaro: essere affetti da gasparrite non vuol dire essere stupidi e non rendersi conto della volgarità, della violenza e della forza delle proprie parole “controcorrente”: tutt’altro. L’affetto da gasparrite è una macchina rozza e bruta ma crudele ed efficiente. Ecco ad esempio un esemplare che ne è affetto (ed anche parecchio):

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Esemplare affetto da gasparrite

Qui possiamo notare il perfetto esemplare affetto da gasparrite: politico “moderato”, fiero difensore della morale cattolica, esordisce con una bomba rumorosissima. E l’effetto che ottiene è esattamente quello che desidera: qualcuno si ricorderà della sua esistenza perché, si sa, ha detto qualcosa che merita di essere letta (se non altro per poterla criticare). E così, la gasparrite, infida ed inesorabile, attacca silenziosa gli anticorpi della società e rende “notizia” il superfluo. O peggio: l’idiozia. E si basa proprio sulla consapevolezza che, più “la spari grossa”, più visibilità otterrai.

Riusciremo a guarire e a liberarci da questa piaga?

Le elezioni spagnole: ultima chiamata per l’Europa

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La Spagna è parte dell’Europa, delle sue paure e delle sue pulsioni: questo è un dato di fatto, e ce lo confermano le recenti elezioni politiche iberiche del 20 dicembre 2015.
Il nostro continente è animato da due sentimenti crescenti. In primis, abbiamo una sempre più forte sfiducia nei confronti delle istituzioni europee: i sogni dei padri nobili dell’Unione sembrano essersi incrinati. L’euroscetticismo è legato a doppio filo alla crisi economica, e soprattutto alle ricette che l’Unione ha messo in campo per uscirne: in tutto il continente possiamo individuare alcune forze politiche critiche verso l’Europa accanto ad altre marcatamente europeiste, così come ci sono posizioni contrapposte per quanto riguarda le attuali politiche economiche europee.
A questo primo elemento se ne aggiunge un altro: emergono nuove forze politiche accanto a quelle già radicate, ed alcune di quelle più antiche si rinnovano nelle leadership. C’è una contrapposizione fra un modo tradizionale di intendere la politica, ed uno del tutto nuovo: così come si sono fatti strada i mezzi di comunicazione di massa, primo fra tutti la Rete, ora si diffondono anche grazie ad essi idee ed energie nuove nella società.
Due diverse visioni dell’Europa, due diverse (altro…)

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