L'UNIversiTÀ

Politica

Che guerra sarà

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Ricordo bene il mio 11 Settembre 2001. Ero seduto sul divano del soggiorno e attendevo il solito appuntamento del dopo-pranzo, l’immancabile “Melevisione” e i suoi cartoni su Rai Tre. Ricordo che la trasmissione si interruppe improvvisamente: la cosa non mi andò giù e protestai per qualche istante, vivendo quegli incerti ed innocenti secondi che ognuno di noi, quel giorno, ha trascorso prima di aprire un nuovo capitolo di Storia, quella con la S maiuscola.
Ricordo e ricorderò quella notte del Novembre 2015. Ricorderò quando, in un locale a Bologna, distrattamente lessi sullo smartphone quella notizia di un attacco a Parigi, con 17 morti. Una notizia che si faceva sempre più grande e sanguinosa con il passare delle ore, dei minuti. Alcuni dettagli verranno inevitabilmente rimossi, levigati e falsificati dalla memoria; altri entreranno a far parte della mia persona e, silenziosi, influenzeranno le mie idee, i miei pensieri e le mie posizioni in un futuro dibattito o commentando una notizia; nel leggere e nel rapportarmi con una situazione, con un problema, con una persona.
Generalmente non scrivo mai in prima persona, non qui, non su un giornale. Ho sempre creduto che la prima persona avesse un potere talmente forte e spiazzante da dover essere usata con parsimonia, con attenzione. La prima è sempre una scommessa, un raccontare rinunciando allo schermo rassicurante della più distaccata e “professionale” terza persona. Con la terza persona si cerca di affidare alle parole il crisma dell’analisi che si pretende oggettiva, il sigillo del commento addomesticato dallo stile.
Eppure è difficile, su questo finire del 2015, mantenere un distacco, rifugiarsi verso altri pensieri che non richiamino in gioco l’individualità e la persona di ognuno di noi. Difficile in questi giorni pensare ad altro che non sia scontro, conflitto, guerra.
Guerra: una parola potente che nel corso degli anni la nostra società ha cercato in tutti i modi di sminuire, terzomondizzare o, al contrario, usare con insistenza nelle più svariate e modeste situazioni, rendendola di fatto meno terribile proprio perché abusata. Una parola che si ripropone vestita di abiti nuovi ed inediti, almeno fino ad ora, a noi cittadini europei degli Anni 10. Ai giovani della cosiddetta generazione Erasmus, i figli dell’Europa senza frontiere interne e senza controlli.
Un evento è “grande”, è storico se riesce a catalizzare attorno a sé l’attenzione di mondi e sensibilità diverse; se riesce a rimpicciolire tutto ciò che, diverso da sé stesso, lo ha preceduto e lo segue; se riesce a cambiare il modo di far pensare e di rapportarsi ai problemi passati e futuri. I fatti accaduti quella notte parigina hanno immediatamente reso così distanti, piccoli e infinitamente superflui argomenti e problemi che, solo qualche giorno prima, sembravano fondamentali o insormontabili. Che fine hanno fatto, giusto per citare qualche esempio tra i tanti, tutte quelle “dichiarazioni di guerra” alla cosiddetta legge di stabilità? E il progetto del nuovo centrodestra salviniano dopo la manifestazione in Piazza Maggiore? Il nostro giardino italiano ci è parso immediatamente troppo piccolo e modesto ed è subito stato messo da parte di fronte all’irruenza del terribile nuovo.
Eppure sento che la nostra necessità principale debba essere proprio riappropriarci di quella piccolezza, di quel giardino fatto dei piccoli-grandi problemi della normale quotidianità. Questo clima teso e lugubre si riflette anche su ciò che scrivo, temendo che, quel (fisiologico) distacco temporale che intercorrerà tra il mio scrivere e la pubblicazione di questo pezzo, possa essere sfondo di un altro, totalizzante e micidiale evento; vanificando e rendendo inattuali pensieri e parole.
Che guerra sarà? Si potrà continuare a parlare di guerra o dovrà cambiare anche il nostro vocabolario, il nostro modo di raccontare e percepire le cose e gli eventi?
Dovremo scendere a compromessi, addentrarci in quel rischioso baratto tra libertà-diritti e sicurezza? Domande simili si susseguono nel dibattito pubblico e nel personale confronto che, ognuno di noi, con mezzi e modi diversi, intrattiene con la sua coscienza e i suoi valori. L’anno che verrà porterà con sé un mondo sempre più piccolo e interconnesso: il Medio-Oriente non è mai stato più vicino, i fatti di Parigi sembrano riguardare la nostra capitale e non quella di uno stato confinante, l’agire globale dell’Isis e dei suoi avversari comporta inevitabilmente riflessioni regionali ed internazionali. Un mondo (occidentale) che però non è mai sembrato, allo stesso tempo, così fragile e insicuro, con il rischio dietro l’angolo dell’erezione di nuove barriere fino ad oggi dimenticate.
Frontiere chiuse, controlli, coprifuoco, stato d’emergenza, legge eccezionale: sono solo alcuni dei termini che abbiamo imparato a (ri)conoscere in questo finire di 2015. Sono pezzi di un mondo che ancora non conosciamo ma che dobbiamo capire, senza perdere noi stessi.
Una delle critiche più frequenti verso la società occidentale e la sua gioventù sostiene che esse si sarebbero svuotate di ideali ed ideologie, divenendo società liquida, in continua evoluzione e discussione. Una società che dimostra tutta la sua fragilità proprio di fronte alle granitiche certezze dei fondamentalismi che la attaccano. Una prima dimostrazione la si può avere leggendo sui social network più frequentati, un modo banale (ma forse non troppo) di tastare il polso di una certa opinione pubblica, la “pancia” del web. I commenti che si leggono sono i più disparati e spaziano dal più duro e intransigente anti-islamismo alla critica verso la società occidentale e le sue contraddizioni (si prenda come esempio la “disparità di trattamento” tra i morti di Parigi e quelli delle innumerevoli tragedie in altre parti del mondo meno considerate e conosciute). Questi dibattiti, queste posizioni inconciliabili, queste autocritiche, dimostrano come sia impossibile parlare di un corpo sociale unito nei confronti di un “nemico” comune. Questa frammentazione si contrappone ad un soggetto, l’Isis, formato da giovani militanti fermamente convinti nella loro missione divina, così convinti da rinunciare alla loro stessa vita. L’asimmetria di questi due piani può spaventare ma, sinceramente, per certi aspetti mi rincuora.
Dopotutto, in un certo senso, è la stessa differenza che passa tra una persona che si interroga continuamente sulle sue scelte, che esercita una severa autocritica e che riflette su ogni sua azione e relativa conseguenza, e una persona mossa da una fede incrollabile che non lascia spazio ad alcun dubbio. Ho sempre ritenuto più maturo e in definitiva, più umano, il primo di questi atteggiamenti.
L’auspicio per il 2016 è che la nostra eterogenea fragilità rimanga il punto di forza della nostra società democratica e multiculturale.
Ascoltando e apprezzando le parole di Luciano De Crescenzo che nel suo bellissimo “Così parlò Bellavista” (libro e poi anche film), fa pronunciare al protagonista, professore di filosofia in pensione:
“Il bene è il dubbio, quando voi incontrate una persona che ha dei dubbi state tranquilli, vuol dire che è una brava persona, vuol dire che è democratico, che è tollerante, quando invece incontrate questi qui [Indicando il punto esclamativo disegnato sulla lavagna], quelli che hanno le certezze, la fede incrollabile, e allora stateve accorte, vi dovete mettere paura, perché ricordatevi quello che vi dico: la fede è violenza, la fede in qualsiasi cosa è sempre violenza.”
Che questo 2016 sia l’anno della fede nella nostra capacità di difendere i nostri dubbi.

Choc

image“Choc”, un’eloquente esclamazione. Per la prima volta lo stesso titolo occupa il taglio alto delle prime pagine di Figaro e Humanité. Al contrario, per l’ennesima volta i cronisti di droit e gauche prediligono l’ortografia francese a dispetto dell’originale anglofona, shock. D’altronde il rapporto tra i francesi e la loro lingua è da sempre un amore romantico basato sul rifiuto di qualsiasi altro corteggiatore. Ordinateur anziché computer, per dirne una.

La domanda sorge spontanea: porquoi?

 

Hugh Grant diventato all’improvviso protagonista di Coupe de foudre a Notting Hill, per dirne due. E Poutine, delegittimazione anagrafica di Putin, per dire basta. E certo non si sbagliava Goethe nel considerare che “I matematici sono come i francesi: se si parla con loro, traducono nella loro lingua, e diventa subito qualcosa di diverso”. Forse lo choc non è shock perché si tenta di circoscrivere la dimensione territoriale del fatto. Quasi si voglia che resti una notizia privata, intima. Un po’ come quando ci si vergogna così tanto di qualcosa che si preferisce tenerla nascosta. Ebbene sì, i risultati elettorali del primo turno sono roba di cui vergognarsi. L’ultradestra di Marine Le Pen raggiunge il 27,73% conquistando sei regioni su tredici. La domanda sorge spontanea: porquoi? Dietro al merito dell’avversario c’è sempre il demerito dell’altro. La strategia politica di Hollande ha giocato a favore del Front National. Una dichiarazione di guerra tanto giustificabile quanto precipitosa che ha avuto come prima conseguenza quella di avallare le ragioni degli estremisti. Come seconda, alimentare il terrore ed il senso di insicurezza tra i citoyens della Repubblica Francese. In una stagione anomala per la vendemmia, (altro…)

Mattarella, il Messia?

C’è chi ha detto di  aver visto  passeggiare nel cielo di Piazza Quirinale un numero di colombe superiore al normale il giorno dell’elezione,  c’è chi ha raccontato tutto con un bagaglio di particolari meno minuzioso, più scarso, ma in entrambe le chiavi di lettura, la faccia del racconto della nomina di Mattarella, a presidente della Repubblica, ha assunto i toni di un episodio tra il mitico e il salvifico.

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  La cosa curiosa infatti, forse tipica del nostro essere italiani e del nostro dover autorappresentarci le tutte le faccende che qui si consumano, è proprio questa rincorsa al senso, al perché escatologico di ogni avvenimento. Una rincorsa al senso, dicevo, che si attesa anzitutto nelle somiglianze, nei paragoni:

Sergio Mattarella ha da appena un mese dato inizio al suo mandato, ed è già il nuovo Papa Francesco. Ed è già l’uomo da cui ci si aspetta una sobrietà incorruttibile, un’ evangelico messaggio parzialmente laicizzato di speranza.  (altro…)

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