House of cards è la serie che è riuscita nel difficilissimo intento (specie in questo periodo storico) di fare della politica un dramma teatrale in streaming. La scalata al potere di Francis e Claire Underwood, i nuovi “coniugi” Machbeth della politica di Washington, sapientemente coniugata con le loro vicende (e strategie) private, è una storia che ha coinvolto tantissimi e ha fatto diventare House of Cards la serie capofila della sua piattaforma streaming, Netflix.

Si è detto e scritto molto sulle qualità della serie, sulle sua capacità innovativa e sul carisma dei due attori protagonisti in stato di grazia, Kevin Spacey e Robin Wright. Una serie che, giunta ora alla sua quarta stagione, è stata caratterizzata da momenti qualitativamente ed emotivamente elevatissimi, per poi cedere il passo ad altri passaggi meno chiari ed immediati oltre che meno efficaci. Fermo restando quindi gli alti e bassi tipici di ogni serialità, House of cards si è sviluppata sempre sullo stesso palcoscenico: il mondo della politica. Più precisamente, la politica americana, la “Washington dei burocrati” e dei palazzi del potere tra i quali spicca l’House of cards per eccellenza: il Campidoglio (sede del Congresso Usa), dove tutto ha avuto inizio.

House_of_Cards-titoli

Ma qual è la politica di House of cards? La serie, basata sull’omonimo romanzo dello scrittore britannico Michael Dobbs, ci mostra dei politici senza scrupoli, ciascuno impegnato nella sua (crudele) lotta personale per ottenere il potere. Una lotta senza esclusione di colpi, anche i più bassi, incentrata sull’ambizione seconda a nient’altro e su un unico desiderio: raggiungere il gradino immediatamente più in alto e poi quello dopo, e quello dopo ancora…

Qualsiasi politico di House of cards, sia esso un deputato, un senatore, un capogruppo, un vice-presidente o altro, gioca le carte di cui dispone e punta tutto per ottenere il massimo possibile. Un gioco crudele e violento, le cui armi sono il ricatto, l’intimidazione, l’astuzia, il voltafaccia. Ogni mossa viene attentamente studiata ed eseguita solo se è in grado di portare il massimo vantaggio personale, immediato o futuro.

E gli elettori? Il “popolo”?

House of cards disegna un popolo che si limita ad osservare da lontano e a ratificare scelte già prese altrove, nei corridoi e nei palazzi di un mondo inaccessibile e oscuro. Una democrazia “so overrated”, per citare una delle più celebri esclamazioni di Frank Underwood. Un popolo nelle mani di un’oligarchia, quella dei “signori della politica”, i quali giocano sul destino di migliaia di persone senza mai rendersene conto per davvero (o peggio: senza dare a ciò alcuna importanza).

House_of_Cards_Season_1_First_Cast_Promo

Ecco quindi che un disegno di legge può “passare” se si è in grado di ricattare, con i tempi e con i modi giusti, quel deputato piuttosto che quel senatore; ecco una riforma della scuola da usare come trampolino di lancio per qualcosa di più grande; ecco un ospedale per veterani o un fondo per la ricerca che muore per far spazio ad un altro progetto, più conveniente e più “spendibile” politicamente. Ciascuno di questi elementi si tramuta in un’arma da puntare verso i propri avversari, sempre pronti a vendicarsi in un secondo momento. In House of cards non c’è mai un “interesse collettivo” che la politica si incarica di intercettare e soddisfare. Non si parla mai di “Nazione” e di pubblico benessere. E, quando questi concetti vengono evocati, lo sono sempre in un’ottica distorta e diversa e lo spettatore è in grado di capire quanto questi, in definitiva, non vengano mai considerati per davvero. Tutto ruota attorno alle battaglie dei singoli e al loro desiderio di potere vero, non quello del denaro, evocato come mero strumento e mai come meta finale. E se una scelta politica è in grado di soddisfare l’elettorato o l’interesse nazionale ben venga, ma ciò rimane sempre un effetto solo eventuale di scelte fatte a monte, con in mente ben altri fini.

Lo spettatore è chiamato a “sbirciare” in questo mondo torbido, introdotto proprio da Frank che più di una volta si rivolge direttamente al suo pubblico, con un gesto che ha un ché di teatrale ma non solo. Ecco quindi che ci si trova “complici” della menzogna, accuratamente spiegata, razionalizzata ed inserita in un piano più grande di cui si viene chiamati a far parte. Il parlare direttamente allo spettatore, il farlo immergere nel dietro le quinte della menzogna, rappresenta l’essenza stessa di House of cards, la sua ambizione di voler raccontare la politica più oscura e inaccessibile. Ovviamente tutto questo disegno fantapolitico rischia di s-cadere in un eccessivo irrealismo e di diventare più “fanta” che “politico”.

house-of-cards4
Kevin Spacey è Frank Undewood in House of Cards

Questo perché la visione che House of cards ha della politica è sostanzialmente una visione pessimista e il pessimismo tende sempre a colorare la realtà con tinte (o)scure. Ciò non significa che House of cards non ci dica qualcosa di vero: chiunque abbia fatto attività politica, anche pura e semplice (persino quella “da circolo”), saprà rivedersi nei riti, nel linguaggio e nei continui colpi bassi che la serie mette in scena. Ed è un piacere lasciarsi trasportare in questo spettacolo machiavellico, proprio perché cerca di mostrarci “cosa ci sta dietro”, cosa entra in gioco quando si ha a che fare con il vero potere. Questo ci permette di capire e contestualizzare i vari #Enricostaisereno e le varie “libertà di coscienza” lasciate su un determinato disegno di legge, avendo sempre in mente però che questi rappresentano un volto della politica, uno dei tanti.

Un volto, quello del Kevin Spacey politico, che sarà difficile da dimenticare.

The following two tabs change content below.
Alessandro Milito
Questa persona, nata 24 anni fa a Crotone (in Calabria, in fondo a destra), generalmente è logorroica e difficilmente evita di parlare e gesticolare. Il suo principale problema è parlare di se stesso: ne è totalmente incapace. Potremmo dire che ha conseguito la Maturità classica e questo lo ha portato all'originale scelta di studiare Giurisprudenza a Bologna e laurearsi. Scrive sin da quando perse un giochino a sei anni (trovato negli ovetti di cioccolata): la ricerca di quell'oggetto fu il suo primo capolavoro letterario. Da allora condivide le sue paranoie e insofferenze così. Gli piace credersi di sinistra, se questo sia vero o no è un quesito che lascia ad altri.
Alessandro Milito

Ultimi post di Alessandro Milito (vedi tutti)

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *

Comment *