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Ricordo bene quando, ormai cinque anni fa, scrivevo delle Primavere arabe. Dovevo scrivere un pezzo per il giornale del mio liceo, “Il Pitagora”, piccola (ma efficace) testata che ricordo ancora con tanto affetto. Erano giorni concitati quelli dei primi mesi del 2011. I telegiornali, i giornali e i social networks descrivevano un mondo, quello dei giovani arabi, in rivolta.
Una rivolta come non si era mai vista; un moto popolare fresco, giovane, consapevole della sua forza e desideroso di affermare i suoi diritti, quegli stessi diritti conosciuti, desiderati e poi urlati proprio grazie a Facebook e Twitter, i nuovi megafoni dei manifestanti. Le rivolte (la maggior parte) erano esplose seguendo il tipico copione delle grandi rivoluzioni: una crisi, economica e sociale; un governo insensibile e irrispettoso delle istanze della popolazione; una drammatica e terribile mancanza del bene base sempre dato per scontato e, proprio per questo, più importante di tutti: il pane.
Questi erano solo alcuni dei tanti fattori che, uniti tra loro, avevano dato vita a quel malcontento, evolutosi poi in coraggio e in sfida diretta e sfrontata. Una lotta aperta e consapevole contro le rigide istituzioni di quei paesi, dallo Stretto di Gibilterra alle Alture del Golan. Un’intera cintura di paesi, uniti da profondi legami storici e culturali, oltre che linguistici, era in rivolta. Paesi legati e simili sotto molti aspetti, anche socio-politici, ma comunque ben diversi tra loro: una diversità che molto spesso, un Occidente prepotente e irrispettoso verso le altre civiltà, dimentica facilmente.
Parlare oggi, nella Primavera del 2016, di quelle “primavere” sbocciate in quei mesi (e di cui avevo scritto tanto appassionatamente) fa uno strano effetto. Il primo e più ovvio impatto è quello di confrontarsi con una promessa mancata, una speranza delusa. Il confronto tra le pagine del 2011 e le pagine di questa nostra primavera, ormai solo metereologica e non più politica, è davvero impietoso. In quel pezzo di 2011, mentre l’Italia era impantanata negli ultimi drammatici gemiti del berlusconismo (e delle relative olgettine e feste di palazzo), mentre cioè la situazione nazionale appariva deprimente e con ben poco da offrire, laggiù, dall’altra parte del Mediterraneo, le cose apparivano diverse.
Era bello abbandonare le “pochezze” del nostro giardino politico per ammirare qualcosa di più appassionante e, a suo modo, storico: centinaia di migliaia di persone, uomini e donne, soprattutto giovani e giovanissimi, per la prima volta in rivolta. Un movimento spontaneo di popolo che appariva come risvegliatosi da un lungo sonno e, (all)ora, finalmente pronto ad ottenere una conquista: la dignità. La dignità di essere riconosciuti dal proprio governo come persone, prima che come sudditi. Sembrava davvero che si stesse assistendo ad un cambiamento radicale di quelle società, rigidamente governate da dittature militari. Dittature “laiche”, nemiche dei fondamentalismi religiosi e, proprio per questo, finanziate e sostenute dall’Occidente, da noi. Gheddafi, Ben Alì, Mubarak, Assad. Sono i nomi di alcuni dei rais che hanno pagato a caro prezzo (anche con la vita stessa) questo momento storico.
Non è un caso che solo uno di questi nomi accenda una scintilla nella sorda indifferenza generata dagli altri, ormai non più importanti. Il nome è quello di Assad, l’attuale presidente di una Siria a pezzi, teatro di una sanguinosa e distruttiva guerra civile. La Siria, culla della civiltà e scrigno di magnifici tesori archeologici, oggi si presenta come la prova madre del fallimento di una stagione.
La premessa delle primavere arabe era che, anche in quella contraddittoria parte del mondo, si fosse arrivati ad un punto di svolta. La promessa era la democrazia, accompagnata da un riavvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo, che sarebbero state accomunate da questo valore. Sono stati i fatti a smentire questa promessa, travolta da una poderosa e micidiale reazione. L’esempio più lampante è rappresentato dall’Egitto: dittatura militare sotto il generalissimo Mubarak prima, fragile “democrazia elettorale” governata dai Fratelli musulmani poi, oggi dittatura militare guidata dal generalissimo Al Sisi (in questi giorni tristemente nota). Questo schema, volutamente semplicistico, può far capire la crudele sequenza di eventi succedutisi da quel lontano 2011.
In questo contesto però, si alza una voce timida e orgogliosa: è la fragile voce della Tunisia, paese sotto attacco da parte dell’Isis, confinante con una Libia a sanguinante e a pezzi. Una Tunisia che vede nel turismo la sua principale risorsa e che proprio per questo subisce sanguinosi attentati nelle sue strutture balneari. Questo paese, culturalmente molto legato alla Francia, sembra aver rispettato alcune di quelle promesse, pur reggendosi su una fragilità che non lascia spazio a trionfalismi.
Eppure, dopo questo confronto tra due editoriali di tempi e giornali diversi, viene da chiedersi: fino a che punto è giusto parlare di “primavere sfiorite”? Lo stesso termine, primavera, sottintende che in precedenza vi fosse un inverno. E, in questa concezione, non si annida forse la presunzione, tutta occidentale, di essere la migliore civiltà possibile e ritenere quindi arretrate ed ignoranti tutte le altre “non ancora pronte” per la democrazia? E non è forse questa l’anticamera delle guerre di “esportazione della democrazia” che conosciamo tanto bene?
Probabilmente, l’articolo del 2011, non si concentrerebbe su questi interrogativi. Quell’articolo avrebbe in mente una diversa concezione di giustizia e di libertà. L’articolo del 2016, forse proprio perché venuto dopo tante “primavere”, non può che risolversi in un invito al rispetto verso i tempi e i modi della storia, specie se è quella degli altri. Eppure, inevitabilmente, quella nota di rammarico rimane; così come la speranza che, un giorno, si possa ritornare a vedere quelle immagini, sorridenti e vittoriose.

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Alessandro Milito
Questa persona, nata 24 anni fa a Crotone (in Calabria, in fondo a destra), generalmente è logorroica e difficilmente evita di parlare e gesticolare. Il suo principale problema è parlare di se stesso: ne è totalmente incapace. Potremmo dire che ha conseguito la Maturità classica e questo lo ha portato all'originale scelta di studiare Giurisprudenza a Bologna e laurearsi. Scrive sin da quando perse un giochino a sei anni (trovato negli ovetti di cioccolata): la ricerca di quell'oggetto fu il suo primo capolavoro letterario. Da allora condivide le sue paranoie e insofferenze così. Gli piace credersi di sinistra, se questo sia vero o no è un quesito che lascia ad altri.
Alessandro Milito

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