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Lui mi osserva. Sta lì appeso ad un muro, con il suo sguardo deciso che cela un velo di malinconia disperatamente equilibrata, e mi osserva. Anche io osservo questa foto, mi chiedo come possa essere così eloquente nella sua laconicità. Mi chiedo come mai questa foto riesca a diventare una Medusa pietrificante, come faccia un volto fissato per sempre e salvato dalla decadenza del corpo e dallo scorrere insensibile del tempo a catturare l’osservatore e a capovolgere i ruoli: l’osservatore diventa osservato, l’osservato si trasforma nell’osservatore che inchioda. Occhi. Questa mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini potrebbe intitolarsi anche semplicemente così. Sono due occhi sinceri, scuri, mediterranei. Stridono con la mascella squadrata e le labbra sottili, da persona dura; stridono con il portamento elegante, le mani dietro la schiena, le gambe leggermente aperte in una posa autorevole. Pasolini non era un duro. Pasolini era ciò che gli occhi mostrano: “se lo guardi, ti guarda con il cuore negli occhi, quasi con spavento, a dirti che non ha fatto nulla di male, che è un innocente” scrive in “La terra di lavoro”. La mostra è allestita al Mambo, a Bologna, proprio la città che gli diede i natali. Bologna fu, per Pasolini, una patria vera e propria, in cui approdare sempre quando rischiava di sentirsi apolide. Anche dopo il suo trasferimento a Roma, infatti, rafforzò i legami culturali con gli intellettuali Roberto Roversi e Francesco Leonetti, e nel 1955 fondò “Officina”, una rivista di poesia improntata su un razionalismo dalle matrici gramsciane e marxiste e su un neosperimentalismo contrapposto alla letteratura ermetica e neorealista.
Officina” è il titolo della mostra e anche, se vogliamo, un insieme di parole chiave che racchiudono l’estro artistico dell’intellettuale, pittore, poeta, regista. La prima parola chiave è: luoghi. Pasolini sceglie i luoghi non perché spinto dalla ricerca spasmodica della quiete, in cui rinvigorire lo spirito, non per dimenticarsi di se stesso né tanto meno per ritrovare se stesso. Egli si concentra sul Sud d’Italia, su Casarsa, sulle borgate romane ed il suo è un intento politico e filantropico. Politico perché crede fermamente nel riappropriarsi di quella spontaneità genuina che il consumismo di una società “liquida”, per citare Baumann, stanno uccidendo; filantropico perché, mitizzando quelli stessi luoghi, li rende simboli di un valore universalmente condiviso. L’intellettuale crea anche una corrispondenza “di amorosi sensi” tra i miti, legando tra di loro la figura di Narciso, a quella di Cristo, a quella della madre. Madre è la seconda parola chiave per Pasolini. Con la madre, egli ha un rapporto viscerale, d’amore e angoscia: la supplica di proteggerlo, di dargli ripetutamente una nuova vita; la madre è la rosa, la primavera, ma al tempo stesso è come se volesse scrollarsi di dosso la sua ombra ingombrante, perché quell’amore esclusivo non ammette condivisione e porta all’isolamento, alla solitudine. La madre, per Pasolini, potremmo dire che sia una Madonna assassina e triste: tutte le madri rappresentate da lui lo sono, passando da Anna Magnani in “Mamma Roma”, fino a Maria Callas in “Medea”. Questo dolore che porta in scena è il dolore di esistere in quanto esseri umani. Il “selvaggio dolore di essere uomini” è anche quello di essere allontanato dal Friuli, regione della sua intimità proiettata all’esterno. Qui, Pasolini s’impegna politicamente, studia il dialetto originario, ha le sue prime esperienze omosessuali e per queste viene allontanato, perché accusato di aver commesso atti impuri con due ragazzi alla festa di paese. Pasolini è un uomo di fede. La sua produzione artistica è anche una produzione “eucaristica”. È la rappresentazione del Cristo, dietro il quale si nasconde il poeta stesso. Un Cristo “figlio”, sacrificato all’altare dell’egoismo umano; un Cristo “comunista”, un personaggio di “borgata”, che lotta per i più poveri, per i relitti umani della società, che attua un vero e proprio conflitto civile tra classi sociali. Il diverso è escluso, così come Medea nell’omonima rivisitazione della tragedia greca di Euripide. Il diverso è barbaro, mago, omicida della sua stessa prole. La focalizzazione sulla tragedia greca, da parte di Pasolini, è anche il pretesto per dipingere una tela moderna e sfaccettata che s’ispira al nucleo familiare, sede di un rapporto complicato tra padri e figli, di una sensualità incestuosa tra fratelli. Questa libertà di costumi Pasolini la rivede anche nel terzo mondo, in Africa, India (dove gira anche un documentario). Pasolini ama questi luoghi selvaggi quanto Tasso amava la libertà sessuale e violenta del satiro nella sua “Aminta”; li ama perché, secondo il suo punto di vista, quei luoghi non erano stati ancora alterati dal consumismo, dal capitalismo, dalla borghesia, dal dominio della televisione che svuotava la realtà di consistenza e sostanza, offrendo allo spettatore una droga potente che è l’assuefazione. Quella stessa assuefazione di cui soffrivano i giovani, devastati da un’assenza di personalità e adoranti solo dinanzi all’altare del dio denaro, così come impone la società borghese. L’io svuotato di identità non si rivela se non nel sogno: la dimensione onirica è la chiave delle dinamiche più oscure e segrete della libertà umana. É il “perturbante”, per dirla citando Freud, ovvero l’Unheimlich, il togliere il velo di Maya da ciò che, apparentemente morto e sepolto, ricompare terrorizzandoci.
Pasolini fu un essere umano che tentò di arginare l’impeto del totalitarismo che manipola le coscienze e si nasconde dietro l’ipocrita maschera del progresso. Non solo: senza voler fare per forza retorica spicciola, la figura di quest’uomo è quella di un animale braccato dai suoi sicari, politici o intellettuali come lui. “Una morte violenta conclude una vita violenta”. Ecco come i telegiornali dell’epoca liquidano la morte di Pasolini. Un mese dopo, “La gazzetta del Sud” scrive: “il delitto non sconvolge, perché Pasolini era dedito alla violenza“. Tutti i giornali, persino Il Manifesto, giornale di sinistra, mettono in luce l’omosessualità e la perversione crudele di Pasolini. Perversione avvalorata dalla versione di Pino Pelosi, il quale aveva dichiarato di aver ucciso Pasolini perché il poeta aveva provato a seviziarlo con un palo di legno. La figura del letterato è così usata per spiegarne la morte, un po’ come se Pasolini fosse stato l’omicida di se stesso, avendo lasciato indizi di una fine turpe, sparsi qua e là tra le sue opere. Questa, però, non è la realtà. Pasolini non voleva morire: stava scrivendo Petrolio – in cui bersaglia pesantemente l’Eni e descrive la distruzione del mondo giovanile e il suo bipolarismo – stava montando Salò. Questo “vate delle puttane”, così come viene definito dalla stampa di destra dopo l’uscita del suo film Mamma Roma, in realtà è un uomo consapevole del cinismo del mondo che “non lo vuole e non lo sa”. È un uomo che compare nella lista di epurandi da portare in Sardegna, il cui autore è il maresciallo De Lorenzo, che vuole tentare un colpo di Stato. La sua analisi disincantata della vita, descritta senza tralasciare nemmeno le perversioni proprie dell’animo umano lo consacrano nel panorama di quegli artisti a tratti “maledetti”, a tratti “benedetti” e celebrati ancora oggi, perché siamo tutti consapevoli, chi più chi meno, di vivere una vita che molto spesso guardiamo da lontano, perché non sappiamo affrontare i mostri che ci portiamo dentro né quelli che ci perseguitano all’esterno e che Pier Paolo Pasolini, con minuzia quasi maniacale, ci ha svelato.
Ed io camminerò/ leggero, andando avanti, scegliendo per sempre/ la vita, la gioventù”.

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Ivana Matarazzo

Ivana Matarazzo

Mi chiamo Ivana e studio Lettere Classiche. Sono una sognatrice con i piedi ben piantati per terra e la testa per aria, un'ottimista per natura e per necessità, una persona tanto sensibile quanto permalosa. Amo leggere, scrivere, osservare, viaggiare per un mondo reale e fantastico, recitare; amo i gatti, l'arte, la letteratura, il cinema, la fotografia; amo le persone schiette, oneste, imprevedibili, determinate e solari; amo le domande fatte al momento giusto e i silenzi, quando le parole non servono.

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