L'UNIversiTÀ

Alessandra Arini

Vengo da Trapani, vivo a Bologna, ma vorrei stare a Roma. Studio giurisprudenza, sogno di trasferirmi alla facoltà di Lettere, ma il mio vero desiderio è essere una studentessa di Filosofia. Improvvisatrice professionale di articoli di tuttologia, ma anche appassionata stravagante di poesia e di altri dilemmi. Insomma, una contraddizione vivente che spera di dilettarvi con i suoi pensieri sul mondo e sul corso delle cose.

Bologna é una regola?

image(Foto di Giovanni Andreani)

Sono ai 300 scalini, il colle da dove si vede il destino di tutta la città. Non sono giunta fino a qui per rispondere alla domanda iniziale, ma per pormela dall’alto. Una regola per essere tale deve darci un comandamento e noi dobbiamo trovare una sintonia nel volerne essere condizionati. Il palazzo dell’Ospedale Maggiore in lontananza, tutta la città antica diffusa a macchia confusa, di cui resta solo un colore rosso intenso che ne copre le forme, gli spazi vuoti che se ne intravedono in mezzo. San Luca in alto sulla sinistra. San Luca che è la prima cosa che vedi di Bologna quando stai per tornare da un treno che ti ha portato qui da un altro altrove. San Luca che è la prima cosa che vedi di Bologna, quando da Bologna vuoi scappare. E come nell’Infinito di Leopardi quella Basilica, posta sulla terrazza della città, pare sembrarti la siepe oltre cui non poter spostare più i tuoi pensieri.
Bologna la puoi incontrare in tanti momenti della vita. La puoi incontrare quando arrivi, quando te ne stai per andare. Quando sei arrivato già da un po’, ma solo una sera, in un all’ improvviso non programmato, ti prende la nostalgia di un profumo che hai avvertito all’angolo di una strada in centro. L’ ipod con la musica scarico ti ha costretto a mettere via le cuffie e così devi necessariamente respirare il rumore di questa città dal vivo. Sarà facile allora accorgersi di come Bologna viva di una musica propria, trafficata di immagini che sono un fragile e variabile elenco di tutti i quadri di parole e di scene umane che la popolano senza invaderla: il violinista piazzato davanti via de’ Musei che cerca sempre di rubarti l’ispirazione per il suo nuovo pezzo dal sorriso o dalla malinconia che la tua espressione si è cucita addosso quel giorno, due ragazze sedute sui gradini di San Petronio che fanno un gran vociferare di confidenze mentre bevono bicchieri pieni di altrettante cose che non si diranno, gli umarell davanti il cantiere Rizzoli, le mani incrociate dietro la schiena e tutto un parlottare a gesti, un uomo sui quaranta  con la valigetta in mano e una bella camicia bianca col colletto slacciato, cammina di fretta mentre parla al telefono. Pensi che pagheresti per sapere se fra quindici anni avrai anche tu quella stessa sicurezza nel sapere dove andare in una mattina come un’altra.

Io Bologna la incontrai una sera di un po’ di tempo fa seduta sugli scalini di San Giovanni in Monte. Mi accorsi che non era una città come le altre, ma che aveva dentro di sé altre città. In quell’angolo che mi riservava quella sera compresi la sua regola: dare a tutti l’impressione che un posto di lei appartenga a loro. Una piazza, la terrazza del condominio dove abitano, una panchina dentro un giardino, un portico sotto cui vanno a chiacchierare. Tutti a Bologna hanno il loro posto. Quello dove l’hanno incontrata o quello dove si sono incontrati con loro stessi. Quello dove si sono fatti una fotografia con una persona che amavano, o quello dove hanno fotografato solo con gli occhi un momento che poi li avrebbe cambiati per sempre. E questa è una magia che non si può trovare altrove. Come se questa città fosse un enorme castello con un numero esagerato di stanze, ed anche se le stanze sembrano non bastare per quanti sono quelli che abitano il castello, in un modo quasi inspiegabile, alla fine ognuno riesce a trovare la propria: unica, nascosta. Quella dove sentire forte il peso del proprio posto in mezzo alla bellezza degli altri.
image(foto di Giovanni Andreani)

Questa la regola che fa da regola alle altre. Una volta trovata la propria stanza, viene da sé trovarsi incastrati in tutti gli altri comandamenti, quindi: vivere secondo un modo che è tipico di questo ambiente. Essere senza copione. A Bologna la vita è, quasi la maggior parte delle volte, una grande prima senza prova generale, e devi avere l’abilità di far finta di sapere gestire con arte situazioni non previste per non deludere lo spettatore che ti è dentro. Dall’università, agli amici, alle sere di pioggia, o a questo tramonto ai 300 scalini, è sempre una corsa contro l’emozione inversa.
Dicono che Bologna sia molto cambiata nel tempo, che prima si avvertisse di più l’armonia eccentrica della partecipazione, del movimento, della positiva confusione. Non abbiamo prove per dire il contrario, ma a me sembra come se a questa città appartenga un mistero che non le hanno strappato via gli anni. Rimane quasi illeso questo formulario di comandamenti che va dalle regole per gestire i luoghi fino a quelle per gestire il proprio tempo libero e non libero. Quelle che ti indicano strada per trovare la tua stanza, e quelle che ti impartiscono come arredarla. Con tende, senza tende, con una grande armadio o solo con una sedia dove poggiare pochi vestiti importanti.

image (Foto di Giovanni Andreani)

Bologna è una regola che può anche deludere. Perché ogni città ha dentro la città interiore che vivi in quel momento. La debolezza, la paura di non essere forte come lo pretende la vita che ti attende, l’amore che si nasconde dietro la solitudine introversa di una sera in centro. E Bologna è maledettamente brava a traslare su di sé, come uno specchio, le sensazioni che ti investono e a rivestirne della stessa pelle anche tutti i luoghi che la abitano. Le Torri ti sembreranno allora meno alte, meno infinite. E tutte le sue piazze meno ariose, più strette e affollate dalla confusione di una vita che non ti appartiene.
Ma la mattina dopo è gia passato. Perché Bologna, così come noi, si è già svegliata in un’altra maniera. Con la stessa frenetica fretta con cui cambia il nostro umore, cambia il suo. Perché l’umore di Bologna è il nostro nelle stesse proporzioni in cui sono nostre anche la sua grazia ed il suo carattere.
Bologna è la regola e noi siamo la regola di Bologna. Nessuno dei due sa prescindere dalla presenza dell’altro. Perché, nonostante in ogni posto in cui esistiamo lasciamo parti di quello che siamo, in questa città più delle altre andiamo a formare la sua storia mentre lei crea il nostro presente. Siamo le sue strade, i suoi pomeriggi, i suoi impegni.
È lei è la nostra domanda, le nostre notti insonni, lei è i nostri comandamenti.

Hailstone’s dance

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Quando si guarda un film al cinema generalmente non ci si scorda mai della visione collettiva che se ne sta avendo, ci si immedesima sì, ci si interroga da dentro. Ma c’è un tutto, c’è un cinema che ti ricorda che non sei solo. Che più persone stanno guardando la vita che si manifesta in quella pellicola. Hailstone’s dance inverte le proporzioni di questa collettività e ti fa sentire una cosa sola con la solitudine della storia che racconta.
Siamo in Iran e Lei non la vedremo mai negli occhi. Ha un vestito bianco con lo strascico di cotone che sbatte sull’asfalto nero della strada dove cammina. La meta non la conosciamo, ma piano piano assume le forme del finale di questo racconto. Ci sono giostre, marciapiedi, ci sono prati verdissimi e poi palazzi alti quanto i tetti di una metropoli, ci sono luoghi da piccoli, e luoghi da grandi. Ci sono voci di bambini sul sottofondo dei rumori, e poi il suono chiaro di un pianto inghiottito all’ultimo momento. Ci sono contrari, ci sono opposti degli opposti. Ci sono immagini di un’ infanzia iniziata per bene, e immagini della stessa infanzia rubata poco dopo.
Hailstone’s dance è il tragitto verbale di una ragazza che racconta lo stupro domestico subito dal padre. La voglia profonda di augurare la morte a chi le ha fatto del male, e la sincerità morale, però, nel non riuscire ad essere allo stesso basso livello di chi le ha procurato la morte interiore.
Ogni giorno sembra che il ricordo debba diminuire e che debba fare meno impressione sentire quella sporcizia nella propria vita. Ma ogni giorno è grande la delusione di non potersi emancipare dal dolore. Il futuro non è futuro perché è nascosto dalle ombre, ma lei continua a camminare, sulla strada, sul marciapiede. Non sa quando avrà la sensazione fisica di andare oltre, e di non tornare indietro, ma cammina. Ascolta con insistenza il ritmo di una vita che, se comunque non è ancora “futuro”, è già “divenire”.
Il regista, Seyed Ali Jenaban, è presente in sala. Dice qualche parola commosso, poi lascia parlare il cortometraggio. La sua più grande emozione è vedere Bologna seduta in platea davanti a lui. È una città che non è la sua, ma è una città che gli ha dato la possibilità stasera di ascoltare il suo talento.

Si può amare per corrispondenza?

Appuntamenti, visite guidate a noi stessi, il futuro dietro l’angolo, il prezzo delle cose, l’amicizia più duratura, i soldi, la musica preferita, il posto che chiamiamo casa. Eppure, tra tutte queste offerte necessarie, l’umanità è ancora seduta a girarsi i pollici davanti al mistero dell’amore. Parlarne equivale ad aprire la pagina più scontata della storia, macchiata di clichè tanto banali quanto assoluti. Il desiderio di renderlo un concetto aulico, un’emozione lontana dalla propria carne e la contemporanea tentazione di rapportarlo solo a quello vissuto. Forse per parlarne si deve necessariamente essere così: intrisi fino al collo di se stessi e della propria inutile esperienza.
Chi lo ha narrato o spiegato, lo ha fatto a suo modo. Partendo da una domanda, da uno scompartimento, solo da una lato o da un unico punto di vista della grande facciata.

Si può amare per corrispondenza? Tornatore parte da qui e ci pone senza mezzi termini la domanda. Probabilmente non gliene importa molto della risposta, che rimarrà personale, segreta, sconosciuta. Ma è tale il valore del suo dubbio che, a prescindere dalle conseguenze che instillerà in ognuno, decide di impiantarci sopra il suo nuovo film. Una storia combattuta tra il peso dell’irrealtà e quello della consistenza. Una studentessa di astrofisica dagli occhi verdi, e un professore universitario con la voce rarefatta quasi quanto questo amore.

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Lei impacciata quanto il dolore di una vita di cui le sfugge la logica, lui complesso quanto le stelle che studia e che insegna. Una felicità poco afferrabile che scorre sullo spartito di un gioco di sguardi. La loro è però una comunicazione quasi unicamente virtuale, non sanno uscire dall’irrealtà. Perché il mondo vero non potrebbe capire e perché il mondo vero non esiste. Si saranno visti poche volte in tutto, poi solo Skype, whatsapp e altri mezzi velati rispetto alla vita cruda e concreta. Una storia che poggia tutti i suoi mattoni sulle fondamenta di una passione che non si può toccare dal vivo, perché non c’è incontro, perché non c’è un appuntamento.

Chiudo la cerniera del percorso sentimentale del film perché non è su questo oggetto che si concentra la mia attenzione e perché lo superficializzerei deviandolo verso un altro discorso, non prestandogli la giusta attenzione narrativa e di significato. Piuttosto, il film stesso apre spazio alla domanda generale e collettiva di un più grande interrogativo interiore: si può amare così, per corrispondenza? È un amore vero o è solo la proiezione di un amore più comodo, che non deve combattere con la noia della realtà e con la paura del dolore vero? Gli amori virtuali, quindi.
Uomini e donne, che, ogni giorno tessono, a loro modo, le fila di una quotidianità spezzata, ma ininterrotta. Lui vive a Breslavia, lei a Roma, lui a Milano, lei a San Francisco. Lui vive nella stessa città di lei, lei vive nella stessa città di lui, ma si costruiscono tra di loro milioni di altre città invisibili che frappongono incroci, semafori e altre coincidenze alla possibilità di incontrarsi realmente. Questi sono solo esempi di come anche la vicinanza o la distanza, dopo internet, siano diventate delle misure assolutamente relative dentro cui far entrare o uscire le proporzioni e i sentimenti di ogni cosa che vogliamo. Videochiamarsi all’ora di cena, chattare tra una pausa e un altro inizio, scambiarsi i segnali non sempre decifrabili di giornate che si consumano per ognuno in un altro spazio.
Abbiamo collezioni di nuovi modi per sentirci in maniera più o meno profonda, e spesso li scegliamo con o senza la coscienza della lunghezza dei fili che ci porteranno addosso queste relazioni.
La protagonista del film, aggrappata soltanto a filmati, registrazioni, e ad altri particolari privi di consistenza plastica, sente, dentro di lei, la stessa forza di un sentimento che anche senza azioni ha in sé il peso specifico di una cosa vera.
Incontrarsi su internet è possibile, mantenere vivo un incontro su internet è possibile. Ma è amore, connessione, affinità, tempesta o cos’ altro?

Se decido di raccontare la mia vita a qualcuno di fisicamente assente nella mia, compio un atto di coraggio o sto nascondendomi invece di fronte alla trasparenza di chi ho di vero di fianco a me?
Se apprendo dal dialogo che si instaura con l’altro le coordinate dei suoi modi di fare, di essere, di concepire e di esistere in genere, sto conoscendo il vero o solo un perimetro limitatissimo di quella che è la sua persona? Ci stiamo sperimentando reciprocamente o stiamo dando alla luce solo le parti di noi più convenienti, lasciando nel buio quello che non vogliamo mostrare? Ci stiamo innamorando sul serio o no?
Dipende. Questa è la risposta universale.
La mia invece è che Sì, è possibile. Su internet è possibile incontrare l’amore. Ma è anche possibile incontrare il “nonamore”. Come in tutti i posti e le occasioni dove dobbiamo mettere in gioco noi stessi. Proprio perché la rete è diventato un posto della vita come un altro, è diventata anche un’opportunità come tutte le altre, meno romantica di una stazione dove prendere lo stesso treno dello sconosciuto che abbiamo accanto, ma non meno reale di una piazza, di una strada o di una conversazione casuale nata dentro una lavanderia a gettoni.
Amare è sicuramente la complessità più grande, indipendentemente dal luogo della vita in cui avvenga. Ma dobbiamo mettere in conto che in un momento di così frenetica trasformazione della forma di tutte le cose apparenti, ci possa accadere addirittura più facilmente di saperci specchiare in un altro distante che abbia i nostri stessi filtri di comunicazione che in un altro, fisicamente vicino, ma spoglio di quella libertà di immaginare e di essere che circonda tutti i nostri incontri virtuali.

Le emozioni del 2015

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Mi hanno chiesto di parlare delle emozioni di quest’anno. Ho risposto di sì anche se non conosco le vostre, e non conosco appieno neanche le mie. Forse nessuno può dire di conoscerle realmente prima di averle consumate del tutto, mangiate fino in fondo. Emozioni che ci divorano, che ci aspettano, che esistono mentre siamo impegnati ad esistere da un’altra parte, emozioni che non sanno chi siamo, emozioni per cui dimentichiamo chi eravamo, emozioni che ritorneranno, un’altra volta, ed emozioni che se ne andranno per sempre insieme a chi ce le aveva portate per la prima volta.
Ma ci sono emozioni però che, a differenza delle altre, sono collettive: non nel senso che non le viviamo individualmente, ma nel senso che le viviamo un po’ tutti e ci fanno assomigliare davanti agli eventi, davanti alle cose straordinarie e anche di fronte a quelle normalissime. Il 2015 ce lo ricorderemo sì per gli incontri fatti, per quelli troppo poco vissuti, per le questioni lasciate in sospeso, per quelle che avremmo voluto riaprire, per i silenzi che abbiamo cominciato, per i discorsi che abbiamo chiuso, ma ce lo ricorderemo anche per una serie di sentimenti diffusi scoppiati nella nostra vita a seguito di più occasioni comuni, come se il nostro corpo fosse invisibilmente legato al corpo del mondo e respirasse e vivesse tramite il filtro di sensazioni che stiamo contemporaneamente vivendo tutti.
Paura: la lunga notte di Parigi ci ha fatto spegnere le luci per un po’. A casa, a lavoro, in tutti i posti di vita, abbiamo messo da parte noi stessi, e abbiamo cominciato a guardare fuori dalla finestra. Una finestra chiusa ovviamente, perché il dolore sarebbe potuto entrarci in casa e dovevamo stare attenti a chi frequentare, a dove andare, a quanto vivere. Una paura che non è durata poi così tanto, presto ci siamo rimessi gli abiti della noncuranza e abbiamo spostato i nostri pensieri altrove. Traghettati dall’idea che meno se ne parlasse, meno la guerra esistesse, abbiamo cominciato il nostro gioco del silenzio.
Immensità: Samantha Cristoforetti va nello spazio. È la prima donna italiana a farlo. Ma non sentiamo di più l’intensità dell’evento per una questione di orgoglio femminista, ne percepiamo di più l’intensità perché stavolta si tratta di uno “spazio” condiviso. Abbiamo immagini, abbiamo collegamenti, c’è un filo che unisce la nostra terrena quotidianità alla quotidianità dell’universo. Dalle foto satellitari siamo infinitamente invisibili, e questo ci regala un senso di leggerezza che ridimensiona la grandezza delle nostre faccende. Mentre osserviamo cosa si vede di noi, ritornano le domande a cui il nostro io più introverso sarà affezionato per sempre: “ Chi siamo?”, “ Dove andremo?”, “Quanto è reale il senso delle cose che proviamo o che crediamo di vivere?”
Silenzio: era il 3 Settembre 2015 e tutti ci siamo dovuti fermare un momento. Fu il giorno in cui il dolore del mondo si tolse definitivamente le maschere e assunse le sembianze di quelle di un bambino disteso senza vita sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Il capo affondato nella sabbia umida, la magliettina rossa ancora fradicia di acqua e di paura. Fino a quell’istante avevamo avuto tutti le nostre teorie personali sull’immigrazione, tuti avevamo avuto uno o più argomenti con cui sostenere una conversazione sul tema. Ma dopo quella foto le parole si asciugarono bruscamente. Sarebbero riprese a vivere dopo un po’. Ma per una buona ora, quantomeno, siamo stati zitti quanto quella spiaggia, costretta ad ospitare una colpa molto più grande di lei.
Speranza: fede o non fede. Dio o bisogno di Dio, questo è stato l’anno di Papa Francesco. Il viaggio a Cuba, quello in Africa. Parole spese per l’amore libero. Gesti che si sono pronunciati in favore dell’uguaglianza dell’altro. Ognuno ha le sue religioni interiori, le proprie spiegazioni su chi siamo, ma vedere un pontefice più cristallino nella promozione della vita, ha come dato a tutti un senso di fiducia più grande nella vita stessa. Ed indipendentemente da quanto crediamo che dopo di qui ci sia qualcosa, guardare a questo cambiamento può aprire un bisogno di infinito dentro, o semplicemente, può far dare valore ad un mistero che non avevamo considerato.
Mondialità: Expo è stata la parola chiave. Ogni terra è un confine, ed ogni confine un sapore. Culture espresse in un piatto, e piatti intesi come pretesti per scoprire cosa c’è al di là del perimetro che ci vede vivere. File eccessive, contestazioni organizzative, questa però è una polemica che lasciamo al di fuori del recinto delle emozioni. Perché Expo ci insegna che quella fila chilometrica, e assolutamente discutibile, noi siamo comunque disposti a farla e che quindi il senso della curiosità supera sempre quello dell’insofferenza. Che il senso della ricerca, supera quello dell’intolleranza. Uno stupore per il Mondo che si è manifestato a Milano, ma che si realizza di continuo anche nel nostro intimo.
Nostalgia: questa giornata ha a che fare con i bilanci, ed anche con quelli delle emozioni. Nessuno può dire di non essere cambiato. Forse di poco, forse non troppo. Ma ognuno si porta addosso un viaggio da cui esce diverso, più coraggioso, meno forte, più se stesso, meno chi aveva finto di essere stato. Ed anche le emozioni più brutte, quelle più spericolate, anche le emozioni a cui accodiamo tutti i riferimenti negativi di questo anno, ora assumono la forma di una cosa che è stata e che in quanto vissuta può dire di possedere una sua definizione, un suo margine di conoscibilità. Tutto oggi diventa nostalgia. Tutto oggi diventa una cornice, a suo modo pregiatissima, entro cui infilare un quadro di quello che abbiamo capito e di quello che abbiamo capito non capiremo mai. Lo appenderemo da qualche parte, dentro di noi, e continueremo questa collezione del vivere e dell’essere, sempre, spregiudicatamente, noi stessi.

Il “mio” eterno ritorno.

Questa vita,come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione ” ( La Gaia Scienza, persistenza-della-memoriaFriedrich Nietzsche)

 

Ogni giornata è una scalata frettolosa verso qualche meta di noi stessi: il lavoro, il traffico, l’amore, l’affitto, la spesa, la felicità. Tutto boccheggia in una bolla di acqua fragile e ogni corsa è indispensabile per esistere. In questa piscina di complicazioni e di impegni,  non so che spazio o peso possa possedere la filosofia nella propria tabella di marcia quotidiana. Eppure, che cosa saremmo senza quella piccola nuvola invisibile del pensiero che ci si ferma accanto ogni volta che ci muoviamo, parliamo, facciamo, litighiamo, sogniamo. La nuvola che mi si è fermata accanto stavolta ha il nome di “eterno ritorno”. Fu il concetto principe della filosofia di Nietzsche  ed è quasi impossibile non essere rimasti impressionati dalla stranezza ermetica di questo concetto: tutto è destinato a rivivere. Quello che abbiamo già vissuto, lo rivivremo altre volte. Quello che ci accadrà, ci sarà già accaduto. Cambiamo, cresciamo, dimentichiamo, ma tutto  questo è vano perché lo dovremo riprovare, risperimentare. Cosa vuol dire  quindi? Un “semplice” delirio del filosofo o piuttosto un accenno  sofisticato della teoria della reincarnazione?  Davvero la vita può essere un infinito traghetto di déjà-vu in cui percepiamo la familiarità di momenti che abbiamo la certezza di non aver vissuto? Critici, e professionisti del pensiero si sono avvicendati in un ventaglio di raffinatissime interpretazioni e quello che appare indubbio e che si debba leggere il tutto in termini metaforici e non strettamente materiali.

Io però, adesso, non vorrei far sfumare il discorso in qualcosa di accademico, ma piuttosto  aprire uno spaccato di ragionamento personale e povero di mezzi. Quello che i filosofi hanno lasciato, lo hanno lasciato a tutti. Hanno dato pensieri unici, non chiavi uniche. Quindi, fermo restando le precauzioni necessarie, il primo passo per accogliere la filosofia nella propria vita, è dare alla filosofia la forma della  propria vita.

L’eterno ritorno nelle relazioni: Quante volte riviviamo lo stesso momento, solo perché noi non modifichiamo il nostro essere con gli altri. Ci leghiamo di nuovo allo stesso prototipo di persona, ci facciamo di nuovo intrattenere dagli stessi simili modi di fare, di comunicare, solo perché non  è cambiata l’impronta di quello che crediamo di cercare. Nell’amore inteso nella sua forma più intensa, ma anche in tutte le altre forme d’amore “minore” di cui ci riempiamo la vita. Pur nella confusissima diversità delle cose che ci attraversa, una parte di noi rimane tale e non andrà avanti se non continuando ad andare indietro. Rivivremo allora lo stesso dolore o la stessa bellezza? Probabile. Ma non perché tornerà “quel dolore”, ma perché torniamo eternamente noi stessi , con la nostra anima cifrata pronta a rispondere nella sua lingua al linguaggio degli altri.

L’eterno ritorno nelle relazioni del  mondo:  ci si prepara ad una condizione di tensione internazionale simile  a quella del secolo scorso. Sarebbe dovuto essere tutto profondamente diverso, più pulito, meno infrangibile. Eppure, la follia spericolata dell’uomo può ciclicamente mettere a repentaglio l’equilibrio apparente della pace. Ritorna un modello di male selvaggio che si serve di persone con credenziali affini e analoghe: sono pazze e hanno nel parlare un’inquietudine che rasenta un odio generalizzato. Anche questa una semplice coincidenza astrale di ritorno? O forse la rappresentazione di come gli eventi tornino solo dopo che è tornata la predisposizione dell’uomo a farli accadere?

L’eterno ritorno del nostro futuro: così come siamo adesso potremmo essere già pronti a raccontare molte cose della vita che  dobbiamo ancora vivere:  le volte in cui staremo male, quelle in cui staremo bene. E non perché dei sogni premonitori ce lo abbiano rivelato, ma perchè l’essere che ci caratterizza è fin dall’inizio  un libro che si ripete, con le pagine che si susseguono a seconda di come sono legati i nostri movimenti interiori. Come  risponderemo a quella chiamata, cosa ci inventeremo dopo la fine di quel lavoro, chi vorremo accanto per sentirci liberi. Il futuro avverrà, ma in base a come siamo già avvenuti noi. Ritornerà quello che ancora deve venire, e viceversa.

Parafrasare un concetto così grande all’ interno di universi così scombinati e diversi come quelli delle nostre vite  è illogico e questo stesso mio tentativo non ha la pretesa di avervi convinto. In fondo, come ogni pensiero, anche quello di Nietzsche  porta addosso la stessa caratteristica dei nostri, cioè la sua individualità.  Quindi, spiegarlo a tutti i costi o farlo aderire alla propria interpretazione, vorrebbe dire anche un po’ violarlo, non rispettarlo nella sua purezza. Ma con questa parentesi di lettura lanciata come un amo nel vostro mondo ho solo voluto aprire una strada alla curiosità di pensare ai “grandi pensieri” come cose invisibili incastrate nella nostra vita di tutti i giorni. Perché anche il bisogno di farsi domande ritorna, eternamente.

Alessandra Arini

Coprire per scoprirci: giornata contro la violenza sulle donne

 

Il 25 nove49244-1mbre è un Giorno che amo. E’ stato scelto come data simbolo contro la Violenza sulle Donne e rappresenta qualcosa che fa rabbrividire, ma per me è un bel giorno. Sono tante le iniziative che negli hanno dato un volto alla sensibilità di Bologna mentre aspetta questa data; ogni novembre si legge di nuovi o riproposti spettacoli teatrali, di campagne di sensibilizzazione, di libri e storie raccontate da voci di donne con gli occhi illuminati dal coraggio. Ieri si è concluso il pomeriggio con un flash mob in piazza Maggiore “Un Filo caldo e colorato contro la violenza sulle donne”, tantissimi rettangoli di lana uniti in un’unica grande sciarpa con la quale centinaia di persone hanno “abbracciato” in crescentone. L’idea nasce da un’iniziativa bresciana che è riuscita a realizzare un’enorme coperta composta da sedicimila moduli arrivati in città da tutto il mondo che ha occupato tutta Piazza Vittoria. “Coprire” significa “prendersi cura”, i ferri e i gomitoli che sono usciti dalle quattro mura domestiche per formare sciarpe e coperte e sono scesi nelle piazze italiane sono un simbolo “scoperto” per dichiarare la consapevolezza delle donne e del loro essere insieme. Ieri le donne che tenevano quella lana cercando di scaldarsi un po’ le mani stavano combattendo, gli occhi velati dai pensieri delle atrocità e della violenza, dalle storie che ascoltiamo ma, insieme, una gioia contagiosa. Quell’ empatia, appunto, che una data sui nostri calendari ci aiuta a percepire e respirare a pieni polmoni

Elena Nicoletti

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Ognuno questa mattina si è svegliato spento come la Torre Eiffel.

StadioOgnuno questa mattina si è svegliato spento come la Torre Eiffel.  Le luci staccate, a Parigi, e anche dentro di noi. Da un lato, la frenesia di dover condividere una nostra analisi sui social, quasi a volerci  assicurare un posto nella tribuna dello sgomento, dall’altro il bisogno di stare zitti per fare spazio alle spiegazioni che comunque non troveremo.  Oggi non scrivo per dire qualcosa di preciso, scrivo piuttosto non sapendo cosa dire o come argomentare il mio silenzio.  Il primo pensiero va al silenzio di chi ieri sera si è stato inghiottito dalla morte.  Al teatro, allo stadio, al ristorante, mentre stava consumando una porzione  normale di felicità, mentre stava ascoltando della musica, mentre stava litigando col marito oppure mentre stava dicendo una frase su quanto fosse bella Parigi. A loro, vittime di una bellezza interrotta, va un pensiero senza tempo immenso quanto la grandezza delle domande che si devono essere posti pochi secondi prima della fine.

Il secondo pensiero va all’ Occidente, (altro…)

MR. NOBODY

Mr.Nobody è uno di quei film che colpisce, ipnotizza e confonde ma allo stesso tempo affascina ed emoziona, vuoi per l’abilità registica di Van Dormael vuoi per le numerose osservazioni, le numerose interpretazioni e significati che ogni spettatore gli può attribuire. È uno di quei film che ci piace definire “a libera interpretazione”, si perché abbiamo di fronte a noi un’opera completa, ricca di idee e riflessioni sulla vita, talmente impregnata di significato che risulta al quanto difficile trarre un’unica finale conclusione che esaudirebbe tutti i nostri dubbi o perplessità. Se vogliamo, l’aggettivo “film psicologico” potrebbe suonare molto bene ma non riuscirebbe in ogni caso a circoscrivere l’essenza di un film che va oltre la mera visione psicologica. Parliamo della vita e dell’essere umano che cerca disperatamente un senso a tutto quello che fa e a ogni cosa che vive. Nemo non è un eroe né vuole esserlo. È uno come noi, un bambino, un ragazzo o un uomo che vive cercando il suo posto nel mondo condizionato in tutto e per tutto dalle scelte che lungo il suo cammino è costretto ad affrontare. È un film sulle scelte, su come ognuno di noi venga condizionato da quello che fa e da quello che decide in un dato momento. Anche i piccoli gesti o le piccole decisioni di tutti i giorni possono influire e cambiare per sempre il nostro futuro senza che ce ne possiamo rendere conto. Nemo rappresenta l’essere umano, è l’incarnazione di ciò che noi siamo con tutti i nostri limiti e le nostre gioie. Vive nel presente, nel passato e nel futuro. Nemo è ovunque e la sua vita non è altro che un susseguirsi di conseguenze, belle o brutte, avveratesi a seguito delle scelte che ha compiuto. L’elemento cardine della narrazione è costituito dal divorzio dei suoi genitori e dalla scena del treno in cui il piccolo Nemo si trova costretto a decidere se seguire il padre o la madre. Quello a cui assistiamo in seguito non esiste, non è reale ma è solo la rappresentazione degli eventi futuri della vita del bambino e cioè quello che sarebbe potuto succedere se avesse deciso di seguire un percorso o un altro. Il destino diventa così parte essenziale della storia ed entra in gioco nel momento in cui ci fermiamo a riflettere di fronte a quello che dobbiamo e vogliamo fare.

La vita segue il percorso di un disegno prestabilito o è frutto di una serie di casualità alle quali possiamo sottrarci in qualsiasi momento e possiamo decidere di modificare a nostro piacimento? A questa eterna domanda il regista ci offre la sua interpretazione, il punto di vista di un uomo fantasioso che ha cercato delle risposte attraverso l’utilizzo di immagini e rappresentazioni suggestive. Niente è prestabilito e niente è deciso. Siamo noi uomini che con le nostre scelte determiniamo e modifichiamo il nostro futuro. Nella vita tutto è possibile e possiamo sottrarci in ogni momento alla sorte di ciò che le conseguenze delle nostre azioni determinerebbero su di noi. Esistono solamente due cose nella vita alle quali ci è impossibile sottrarci: la morte e l’amore. Il tema della morte percorre tutto il film e assistiamo in più riprese alla morte del protagonista. Questo perché essa rappresenta l’unica certezza sicura che abbiamo, sappiamo che prima o poi, in un modo o nell’altro, siamo destinati a perire. Nemo muore sempre non riuscendo mai a scampare al suo destino. L’amore, contrariamente alla morte, non è una certezza della quale siamo consci e sicuri ma è una forza misteriosa, istintiva che regola e guida le nostre azioni e dalla quale ci troviamo a dipendere finendo per esserne involontariamente investiti. La morte è qualcosa di astratto, non possiamo toccarla, non è palpabile e assistiamo solo alle sue estreme conseguenze. L’amore, pur essendo un sentimento ed essendo puramente astratto, diventa concreto e si materializza nella persona che “decidiamo” di amare. L’amore quindi si vede, lo sentiamo, lo percepiamo ed è l’unica forza nell’universo in grado di annientarci o renderci felici. Il personaggio di Diane Kruger è la personificazione del più nobile dei sentimenti, è sempre presente, appare a Nemo nelle situazioni più disparate e impensabili e costituisce qualcosa che inspiegabilmente accompagnerà sempre il protagonista (e ogni uomo) per tutta la vita. Ne scaturisce una contrapposizione netta e distinta tra le due forze in questione. Da un lato la morte, concepita come qualcosa di terreno e in questo caso razionale, una forza “spiegabile” e conseguenza estrema di un processo vitale che giunge alla conclusione. Dall’altro lato l’amore, una forza misteriosa e irrazionale che l’uomo non si riesce a spiegare e che è sinonimo di vita stessa; dall’atto d’amore nasce la vita.

Van Dormael racconta attraverso immagini suggestive e quasi surreali il processo della vita dalla nascita alla morte, un processo esente da spiegazioni razionali ma che dipende in tutto e per tutto dalle azioni che commettiamo quotidianamente.

Definirei questa pellicola come surreale, onirica e assolutamente visionaria. Il regista sembra essere consapevole dei mezzi visivi a sua disposizione e sa abilmente sfruttare ogni contenuto per conferire all’opera quel tocco magico e incantato. È un film fatto prevalentemente di immagini dove le inquadrature contano forse ancora di più dei vari dialoghi e dove la fotografia riesce a dare l’idea di trovarci all’interno di un mondo irreale popolato dagli avvenimenti di alcuni dei futuri possibili della vita del protagonista. Interessante è soprattutto la scelta di non dividere la narrazione a episodi, raccontando cioè vita per vita le scelte di Nemo, ma di spezzare e mischiare i singoli accadimenti in modo da creare un intreccio, una sorta di vita nelle vite in cui da una singola scelta possono scaturire infinite situazione e conseguenze che nel corso del tempo arrivano a intrecciarsi tra di loro. Un plauso va sicuramente al montaggio alternato e articolato che mischia in modo apparentemente caotico i frammenti della vita di Nemo generando non poca confusione nello spettatore. Un film completo sotto ogni punto di vista, dai nobili contenuti alla sceneggiatura e dalla strabiliante tecnica registica fino alla scelta geniale e azzeccata di giocare tutto sulla potenza visiva delle immagini e degli sguardi degli attori. Un’opera strabiliante e struggente che ci regala una lunga e profonda riflessione sul senso della vita e su come sia in realtà l’uomo il vero artefice di tutto quello che gli accade.

ALBERTO NISIdownload

ROBOT 08: Riconfermarsi è la cosa più difficile, tutte le volte che realizzi un qualcosa poi pensi, “ la volta dopo ? ”

Riconfermarsi è la cosa più difficile, tutte le volte che realizzi un qualcosa poi pensi, “ la volta dopo ? ”. Questo quesito gli organizzatori del Robot festival se lo saranno sicuramente posti. L’anno scorso sono entrati di diritto nel panorama dei festival internazionali con una 1442552696_12032064_1093213094029889_1902239121734553063_nedizione travolgente, visionaria, elegante; finita con mille persone alle 6 del mattino che provavano a toccare il cielo trascinate dal profeta dell’elettronica Sascha Ring (Apparat). Quest’anno è l’anno della riconferma e come diceva il buon Dave Barry che come da copione americano sintetizza la questione, “Non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti costruirono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”.

I cambiamenti ci sono, meno elettronica, più apertura musicale per palazzo re Enzo. Quest’anno molto variopinto a tratti jazz (vedi i notevoli prefuse 73), a tratti etnico ( il sorprendente clap clap italiano, ma residente a Londra nel pieno del boom con l’uscita del suo album) o i tribali Nozinja, che dicano facciano balle anche i morti. Ovviamente il Robot non si dimentica della sua origine, dal Texas arriva Rabit, strano, possiamo dire, che si parta dalla musica industriale, drone, ma a va a tingersi

di hip hop, la spiegazione è semplice:  è pur sempre americano. Il Robot non si dimentica nemmeno della sua dedizione e ricerca nella arti visive: anche quest’anno  la sala degli atti sarà un mondo di scoperte, da Bora Bora all’epicità romantica e profonda di Morkebla.

Ovviamente Palazzo re Enzo è più adatto ad un pubblico di feticisti dell’elettronica, musica molto difficile che si presta a facili rifiuti come ogni canzone che cerca uno spazio specifico nel panorama musicale, quindi il boom molti (io no) se lo aspettano dalle due serate in zona fiera. Come ho già scritto, replicare l’anno scorso è molto difficile, alcune miei coetanei dicono sia impossibile. Può essere vero ma, scusate, guardate qua sabato sera, il Main stage sarà così: Holly Herndon – Siriusmodeselektor – Daphni b2b Floating Points – Tiga – Trentmoller. La sala Redbull invece così: Panoram – Dam Funk

– Nathan Fake – John Talabot – Clark – Martinez Brothers – Lory D.  Ci sono tutte le possibilità perché sabato sia memorabile e imprescindibile (la vera sera obbligatoria). Non ci resta che fare gli auguri agli organizzatori del Robot che anche quest’anno hanno creato i presupposti per un qualcosa di magnifico e che sono convinto non deluderanno le aspettative, vi salutiamo con una massima che in questo festival è il punto di partenza, “La logica vi porterà da A a B.

L’immaginazione vi porterà dappertutto”

Filippo Popoli.

L’antimafia non è finita dopo Falcone e Borsellino. Intervista a Pino Maniaci

Minchia. Ecco con quale parola sono accolto nella piccola Partinico, essa viene pronunciata da un signore magrolino e abbastanza ricurvo, il  cui viso corrucciato sembra farsi scudo dietro un grosso paio di baffi grigi, è seduto ad un tavolino dello storico bar Alessi e senza neanche esprimere un’ordinazione viene servito dal paffuto proprietario del bar, ingurgitato il proprio caffè amaro mi guarda fisso e mi chiede <<ma Bologna è in Emilia o in Romagna? No perché  devi stare attento, purtroppo Garibaldi si è scordato di fare gli italiani, quindi esistono ancora gli emiliani e i romagnoli. Comunque sia gli emiliani che i romagnoli devono capire che ora sono più cazzi loro che nostri. Pensa che in Emilia-Romagna ci sono associazioni come la Pio La Torre, lo zuccherificio, c’è Gaetano Alessi, che hanno fatto insieme le mappe delle mafie in E.R dividendo il territorio tra le famiglie della Mafia e della ‘ndragheta con nomi cognomi e indirizzo. Quindi incomincia ad esserci strutturazione.>> tali parole vengono interrotte dall’arrivo di una volante della polizia, i poliziotti sono venuti a salutare il signore, ma non è un saluto tra vecchi amici al bar, è il saluto tra la scorta e il proprio protetto, si perché quel signore baffuto è Pino Maniaci.

Inserito tra i 100 eroi del giornalismo da Reporters Sans Frontières (unico italiano insieme a Lirio Abbate) Pino sembra affrontare tutti gli atti intimidatori con leggerezza e passione per il proprio lavoro. Conoscendolo non penseresti mai che a quest’uomo hanno impiccato i cani, bruciato due macchine, fatto arrivare minacce di morte, non penseresti mai che i suoi occhi sono diventati neri molto spesso a causa dei pugni e degli schiaffi ricevuti. Pino conserva una freschezza simile a quella di Peppino Impastato, ammazzato a soli 19 km di distanza nella vicina Cinisi.

Il paragone con l’eroe dei 100 passi non è fuori luogo, anche Pino negli anni ha dovuto lottare contro il pesante clima che si era formato attorno a lui e alla sua emittente, anche lui ha denunciato e sbeffeggiato i mafiosi durante il lunghissimo tg quotidiano, famosi gli auguri che ogni anno Maniaci riservava a Bernardo Provenzano in occasione del compleanno dell’allora latitante “ auguri pezzo di merda, fai una cosa giusta nella tua inutile vita e consegnati”. Parole che potrebbero sembrare scontate in qualsiasi parte d’Italia ma non  a pochi km da Corleone, quando i familiari e i compagni di Provenzano li puoi incontrare in piazza o al bar.  L’impegno è stato costante e riconosciuto da tantissime personalità del giornalismo, su di lui ha scritto Saviano, la televisione francese ha girato un documentario, il palermitano PIF ha registrato una puntata della sua serie “il testimone” e ha condotto una puntata del telegiornale.

Passato il momento dei saluti con i poliziotti, Pino viene raggiunto da altri tre ragazzi, Marco di Modena e Luca e Michele, due ragazzi appena arrivati da Ravenna. I tre ragazzi come altri centinaia in questi anni hanno deciso di passare una settimana di stage presso Telejato, a portarli al bar è un furgoncino con lo stemma della piccola televisione guidato da Letizia, la figlia di Pino, una ragazza con un talento naturale per il giornalismo ( nel 2005 ha vinto il premio Maria Grazia Cutuli). Letizia è in compagnia della madre e moglie di Pino, anche essa ormai entrata in simbiosi con i ritmi della televisione partinicese.

A questo punto si consuma un piccolo show dal sapore siculo, Pino incomincia ad essere meta di pellegrinaggio da parte di tutti i vecchietti, ognuno di loro ha qualcosa di cui lamentarsi, lamentele che Pino asseconda con battute e prendendo appunti, mi guarda e mi dice << questo è fare giornalismo! Io l’ho detto allo scorso festival (del giornalismo), voi state celebrando un funerale.>> chiedo il perché di tale affermazione e lui mi dice << puoi parlare di giornalismo quando Mentana è vicino al PD, Santoro era di rifondazione Comunista, Vespa si accoda al potente di turno e Travaglio ormai dopo l’uscita di scena di Berlusconi è disoccupato?. Oggi si attacca Renzi per fare audience domani si attaccherà il movimento 5 stelle per lo stesso motivo.>>

Anche questa volta siamo interrotti, bisogna mettersi al lavoro, saliamo velocemente sul furgoncino con gli altri ragazzi e dopo 5 minuti ci ritroviamo davanti la distilleria Bertolino. Questa, come viene scherzosamente chiamata da Letizia, è la seconda casa della famiglia Maniaci. Pino ha infatti condotto numerose battaglie contro essa, il perché è lampante, oltre al malsano odore di cui è pregna l’intera città, si notano subito un’altra stortura, vinacce e scarti della produzione del vino ammassati in enormi montagne non coperte (come invece è previsto per legge).

<< è la nostra piccola Ilva, pensa che io sono stato denunciato centinaia di volte dagli avvocati della signora Bertolino, all’ennesima denuncia sono venuto qui davanti e mi sono spogliato di tutto, persino le mutande! Mi ha chiesto i danni economici e allora io ho voluto dare qualsiasi mio avere.>> mi dice Pino aspettando che Letizia si posizioni con la propria telecamera, i minuti che seguono sono a metà tra l’esilarante e il drammatico. Pino manda accuse a tutti, amministrazione comunale troppo accondiscendente nei confronti della multinazionale, agenzie che non controllano, forze dell’ordine che non agiscono, ci spostiamo quindi nella parte posteriore della distilleria (la più grande d’Europa), la puzza diventa ora penetrante, dobbiamo utilizzare dei fazzoletti per non respirare il tanfo che risale le alte ciminiere della fabbrica, li mi viene dato il compito di filmare gli scarti della lavorazione, anch’essi ammassati in cataste prive di copertura, il cui scolo rappresenta un’altra grande minaccia.

È l’ora di andare in redazione, ma solamente dopo essere passati a controllare se c’è qualche commissione riunita in municipio, poiché il municipio è deserto ci avviamo verso la casa adibita a redazione, nel tragitto scambio due parole con i ragazzi che stanno svolgendo il proprio stage << abbiamo conosciuto Pino tramite articoli e manifestazioni in cui era presente, ci siamo subito innamorati del suo modo di vivere e di pensare, e dopo aver mandato un’email in redazione abbiamo concordato un periodo di stage, ci danno vitto e alloggio e la possibilità di lavorare sul campo con lui.>> e infatti appena arrivati nella minuscola redazione (due camere, una adibita alla diretta, l’altra al montaggio il tutto sotto le gigantografie di Falcone e Borsellino e dei numerosi premi che la televisione ha ricevuto) i ragazzi si mettono all’opera, registrano servizi, montano i titoli e stampano i numerosi comunicati stampa che arrivano. Dopo poco arriva Pino, mi prende sottobraccio e mi porta nella stanza dove di solito riposa.

<< di solito parliamo di Mafia, ma l’antimafia come sta messa?>>  chiedo io pensando di fare una domanda scontata, alla quale la risposta è già nota, Pino invece alza gli occhi, si accende una sigaretta (credo la trentesima di quel giorno) e con uno sguardo che ho imparato a conoscere, quello che hanno tutti i siciliani quando stanno per parlare di qualcosa di pesante, di forte, mi osserva e poi comincia << stiamo portando avanti un’inchiesta molto delicata, in cui siamo rimasti soli. Parliamo della legge Rognoni-LaTorre, sui beni sequestrati e poi confiscati, questa è stata fatta trenta anni fa in emergenza, ma deve subire delle modifiche immediate, forse anche a seguito della nostra inchiesta il governo si sta muovendo. Ovviamente dobbiamo vedere a favore di chi andrà, sperando che non vada come al solito a favore di holding dell’antimafia: una fra tutte Libera.>> dopo queste frasi sento in cuore che Pino sta toccando un tasto delicatissimo e spinoso, lui forse allarmato dalla mia espressione puntualizza << Attenzione io non ho attriti con nessuno, ma come sai benissimo il mio mestiere è quello del giornalista, io pongo domande, faccio inchieste. Libera è un’associazione a livello nazionale che lancia messaggi bellissimi, positivi, che mi piacciono. E per questo vorrei risposte alle mie domande, come si spiega che i ragazzi che vengono a lavorare sui terreni confiscati debbano pagare 150 euro a settimana e poi ad esempio la pasta di Libera costi il quadruplo di quella Barilla? Non sarebbe un bellissimo messaggio fare costare la pasta molto meno della Barilla in modo da farla entrare nelle case delle famiglie più povere, non sarebbe un messaggio devastante? “ ( ribadiamo il virgolettato di queste affermazioni, non abbiamo voluto tagliare nulla, proprio per lasciare spazio alle parole di Pino. Ma si tratta è chiaro, di una considerazione personale. Davanti alla quale ci apriamo alla possibilità di repliche e contestazioni)

<< ovviamente il problema non è Libera, il problema è la nostra italietta. E ora non lo viviamo solo noi siciliani, anzi ora il problema, come ti dicevo, sta più a nord che a sud. Qui hanno succhiato tutto questi pezzi di merda, però contemporaneamente, anche a seguito delle stragi degli anni 90, sono nati gli anticorpi. La Sicilia non è più terra di mafia, stiamo cambiando volto! Le forze dell’ordine e i magistrati sono preparatissimi, e che fanno loro? Si spostano al Nord, dove questi anticorpi non esistono. La politica è connivente, il giornalismo queste cose dovrebbe denunciarle.  Io sono solo uno scassaminchia, non faccio niente di particolare, pensa che non avevo neanche il tesserino da giornalista, perché ovviamente in Italia per denunciare la mafia non ci vogliono due coglioni così, ma un tesserino! Lo vedi il sistema televisivo? La spartizione del CDA Rai? Di cosa stiamo parlando?>>

Pino s’infervora, spegne e accende una nuova sigaretta << siamo soggetti alla telecrazia, guardiamo le minchiate che sparano in tv. Scanzi, Vespa, Travaglio. Programmi demenziali, impornazione, distruzione delle menti. In tutto questo la mafia ci sguazza. Telejato, vuole essere un modello. Abbiamo aperto telejunior un canale totalmente gestito dai ragazzi che vengono a fare gli stage. Gli diamo una telecamera, un microfono e pedate nel culo.

Tutto seguendo due soli motti “io pagherei affinchè tu possa esprimere il tuo pensiero e le tue opinioni anche se io non li condivido” di Voltaire e il concetto etico del giornalismo di Pippo Fava “ una buona informazione incide e corregge, diventa determinante per un territorio,diventa un punto di riferimento e la voce di chi non ha voce” questa è Telejato. Noi facciamo solo quello che dovrebbero fare tutti i giornalisti, niente di speciale.>>

Colpito da queste parole faccio una domanda banale ma  che sento fondamentale <<c’è speranza?>> ma nello stesso momento bussano alla porta, sta iniziando la diretta, Pino si catapulta in studio ma prima mi indica i ragazzi al lavoro e mi grida <<non li vedi sti picciotti? Minchia!>>

Gabriele Maria MorroneManiaci-Pino

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