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Quando si guarda un film al cinema generalmente non ci si scorda mai della visione collettiva che se ne sta avendo, ci si immedesima sì, ci si interroga da dentro. Ma c’è un tutto, c’è un cinema che ti ricorda che non sei solo. Che più persone stanno guardando la vita che si manifesta in quella pellicola. Hailstone’s dance inverte le proporzioni di questa collettività e ti fa sentire una cosa sola con la solitudine della storia che racconta.
Siamo in Iran e Lei non la vedremo mai negli occhi. Ha un vestito bianco con lo strascico di cotone che sbatte sull’asfalto nero della strada dove cammina. La meta non la conosciamo, ma piano piano assume le forme del finale di questo racconto. Ci sono giostre, marciapiedi, ci sono prati verdissimi e poi palazzi alti quanto i tetti di una metropoli, ci sono luoghi da piccoli, e luoghi da grandi. Ci sono voci di bambini sul sottofondo dei rumori, e poi il suono chiaro di un pianto inghiottito all’ultimo momento. Ci sono contrari, ci sono opposti degli opposti. Ci sono immagini di un’ infanzia iniziata per bene, e immagini della stessa infanzia rubata poco dopo.
Hailstone’s dance è il tragitto verbale di una ragazza che racconta lo stupro domestico subito dal padre. La voglia profonda di augurare la morte a chi le ha fatto del male, e la sincerità morale, però, nel non riuscire ad essere allo stesso basso livello di chi le ha procurato la morte interiore.
Ogni giorno sembra che il ricordo debba diminuire e che debba fare meno impressione sentire quella sporcizia nella propria vita. Ma ogni giorno è grande la delusione di non potersi emancipare dal dolore. Il futuro non è futuro perché è nascosto dalle ombre, ma lei continua a camminare, sulla strada, sul marciapiede. Non sa quando avrà la sensazione fisica di andare oltre, e di non tornare indietro, ma cammina. Ascolta con insistenza il ritmo di una vita che, se comunque non è ancora “futuro”, è già “divenire”.
Il regista, Seyed Ali Jenaban, è presente in sala. Dice qualche parola commosso, poi lascia parlare il cortometraggio. La sua più grande emozione è vedere Bologna seduta in platea davanti a lui. È una città che non è la sua, ma è una città che gli ha dato la possibilità stasera di ascoltare il suo talento.

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Alessandra Arini

Alessandra Arini

Vengo da Trapani, vivo a Bologna, ma vorrei stare a Roma. Studio giurisprudenza, sogno di trasferirmi alla facoltà di Lettere, ma il mio vero desiderio è essere una studentessa di Filosofia. Improvvisatrice professionale di articoli di tuttologia, ma anche appassionata stravagante di poesia e di altri dilemmi. Insomma, una contraddizione vivente che spera di dilettarvi con i suoi pensieri sul mondo e sul corso delle cose.

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