L'UNIversiTÀ

Alessandra Arini

Vengo da Trapani, vivo a Bologna, ma vorrei stare a Roma. Studio giurisprudenza, sogno di trasferirmi alla facoltà di Lettere, ma il mio vero desiderio è essere una studentessa di Filosofia. Improvvisatrice professionale di articoli di tuttologia, ma anche appassionata stravagante di poesia e di altri dilemmi. Insomma, una contraddizione vivente che spera di dilettarvi con i suoi pensieri sul mondo e sul corso delle cose.

Il dubbio esistenziale dell’ultimo anno di Giurisprudenza.

L’ultimo anno di università è  un tragico spartiacque tra il mondo vero e la fine degli alibi di cui possiamo servirci per non entrarci. L’ultimo anno di università di giurisprudenza è uno spartiacque ancora più tragico tra la fine delle illusioni sulla giustizia e quelle più profonde che avevamo su noi stessi. Siamo arrivati qui per svariati motivi e ora vorremo rimanerci per sempre. Ma non perché fuori sia meglio, e non perché abbiamo capito veramente quale sia il mestiere dell’avvocato e quale la verità da difendere. Ma perché fuori non avremo maschere, mentre qui tutti ne abbiamo una. Sì, siamo noi stessi, ma con mille riserve e protezioni. Abbiamo rimandato sempre a un altro giorno la decisione su cosa rispondere a chi ci avrebbe domandato “e dopo cosa vuoi fare?”. Ci siamo tenuti stretta la scusa che comunque il settore è in crisi  e si lavora con quello che si trova. Ma la verità è che sì, il settore è in crisi, ma comunque non più di noi, che quello che vogliamo fare non lo sappiamo ancora. E ci piace l’dea del tribunale, dello studio legale, ma rimangono idee aggrappate al loro limite: l’astrattezza, l’assoluta invisibilità. Siamo cambiati molto dal primo giorno di università. Eravamo meno fragili di adesso. Adesso siamo o troppo euforici o troppo perplessi. E quando siamo spensierati subito ritorna come una canzone malinconica il pensiero che fra poco sarà tutto finito o tutto per la prima volta iniziato. Sappiamo di un po’ tutto e di molte cose niente, e di quello che abbiamo studiato ricordiamo i concetti chiave, gli schemi generali. Ma basterà per essere migliori di come siamo entrati? e quella storia che gli “studi forgiano” per quanti sarà valsa? A tratti ci sentiamo quasi più deteriorati, ed è come se l’eccesso di nozionismo che abbiamo interiorizzato ci avesse reso  più distaccati da alcune nostre originarie essenze. Si badi bene che questo discorso, così come queste righe non hanno la pretesa di valere per tutti. Quelli col fuoco sacro del diritto esistono, sono in mezzo a noi. O anche, più semplicemente, gli appassionati che, per caso o per volere, hanno fatto di una curiosità la loro strada e della legge e dei suoi sviluppi la loro futura vita. Ma parlo a noi, gente distratta, incerta, gente che ha seguito un’ispirazione non chiara e che ora però si ritrova a dover affrontare con la stessa chiarezza apparente un percorso non scontato.  C’è chi diventerà comunque un avvocato, anche se adesso ancora non lo ha in mente e lo disprezza pure. C’è chi dopo la laurea farà quel classico viaggio che gli cambierà la vita, quello dove avverrà un incontro importante  o dove soltanto scoprirà di essere una persona totalmente diversa da come si era immaginata. C’è chi tornerà giù, al paese. E invece lì scoprirà che non è cambiato niente, che tutto tace e che i rumori non ci sono, così come non ci sono le occasioni e, lentamente, si riabituerà a quella sordità, a quell’ assenza di rivoluzione. Si chiederà aiuto alla famiglia e ci si inventerà qualcosa, realizzando di non essere cresciuti e di essere addirittura regrediti rispetto agli anni in cui si era andati via di casa. Perché quantomeno allora l’incoscienza aumentava la maturità e il coraggio. C’è chi invece si metterà a fare qualcosa di assurdo, tipo il pittore o l’artista. Perché questi anni di commi a memoria e di leggi derogate da altre leggi  hanno avuto la forza di liberare dentro di noi e di rendere necessaria un’altra porta, quella della creazione, della fantasia. E si, saremo tutti cosi, pezzi diversi di uno stesso percorso, sparsi nel mondo ma partiti da quel mondo che abbiamo per pochi anni condiviso insieme. E c’era sembrato tutto, c’era sembrato che nulla lo potesse dividere o spezzare. Ci siamo fatti scudo con i nostri respiri e con le nostre cene insieme, con i nostri discorsi in biblioteca mentre cercavamo di studiare ma era più forte la fame che avevamo dentro di conoscere chi ci era seduto accanto. Speravamo di poter rimanere intrappolati in questa rete senza fili di incontri che ogni giorno ci cambiano la vita, e, invece, l’ultimo anno serve anche per capire chi ci è rimasto intorno. Abbiamo scambiato parole con tutti e alcune le abbiamo credute perfino importanti, ma pochi volti ad oggi sono rimasti ad aspettarci. E guardandosi indietro gli altri possono essere un ricordo superficiale o fondamentale. Nel mondo  del lavoro avremo ancora tempo per sviluppare incontri? O saremo numeri che dovranno continuamente dimostrare di avere qualcosa di più adeguato e di più giusto degli altri? Le risposte sono scontate, così come i miei dubbi. È naturale che cambierà il modo di approcciarci alla realtà e quindi anche il nostro modo di essere valutati per questo, ma sta davvero finendo il tempo in cui possiamo sentirci liberi di stimare qualcuno senza sentire anche il bisogno di superarlo. Probabilmente si, probabilmente no. Forse è solo un’esagerazione fuori luogo portata  avanti dalla malinconia. Ma è soprattutto questo l’ultimo anno di università: malinconia. Che non è tristezza, perché siamo comunque felici di metterci alla prova fuori. Ma non è nemmeno allegria, perché sappiamo che con questo capitolo si dirà addio anche alla leggerezza, che è quel velo di colore che ci ha fatto volare finora sopra tante cose, come i nostri limiti. Ecco, a voi allora, che vi sentite certe volte stringere da questo vuoto esistenziale per la fine dell’università, sappiate che siete in buona compagnia. Perché, diversi o profondamente simili che siamo, abbiamo tutti addosso L’Ateneo-di-Bologna-torna-a-lottare-contro-le-lauree-“fracassone”questa sensazione di imminenza e di conflitto tra sentimenti che ci tormenta. Di cui il bello però è che ci sta facendo vivere giorno per giorno questo ultimo anno, senza tralasciare nessuna emozione o intuizione. La legge ci ha aiutato fino a un certo punto e continuerà a farlo sempre con i suoi limiti. Sappiamo e sapremo che ci sono delle regole, delle prassi e delle procedure senza le quali le cose non accadrebbero. Ed è forse la legge stessa ad essere la scienza, tra tutte, più simile alla vita in maniera complessiva: per ogni cosa che vorremo fare ci sarà sempre un permesso da chiedere e per ogni cosa che non faremo o che non vorremo fare ci sarà sempre uno che ci chiederà conto della nostra omissione. E non sarà sempre giusta, questa legge. E quando non sarà giusta non potremo comunque essere noi a dire che è sbagliata.

Alessandra Arini.

Libertà di “costume”

Una polemica inutile quanto i bikini di certe donne praticamente nude. E si badi che in questa fraseimages non c’è un giudizio sessista, né una valutazione di superficialità sulle donne stesse. Ognuno si veste e si sveste a suo uso e piacere. Ma tutto poi può diventare metro di paragone o di raffronto quando in ballo c’è una polemica pseudoculturale come questa. La questione sottesa riguarda l’eventuale divieto del burkini nelle spiagge, in alcune della Costa Azzurra è già stato vietato per motivi di sicurezza. Fin qui, nulla da obiettare, data la delicatezza della situazione internazionale. Ma questo ha fatto da pretesto per una riflessione generale sull’ oggetto e sulle sue declinazioni. La riflessione, si sa, è sempre da incoraggiare. Sono i risvolti sterili o ipocriti che  vanno, a mio avviso,  rimarginati. Davvero l’uso del burkini offende l’immagine della donna? No. Che dietro l’uso del burkini ci sia una storia culturale musulmana di soggezione e di oscurantismo del corpo della donna è vero. Una storia di cui il burkini non è lo specchio, ma un riflesso postumo. Però questa è una storia culturale, non religiosa. E come sappiamo ogni cultura ha bisogno dei suoi tempi, per evolversi, per cambiare. D’altra parte, nonostante probabilmente in prima persona non ne abbiamo memoria, fino agli anni ’60 le donne italiane andavano al mare quasi completamente vestite. Per pudore. E anche per un’impostazione maschilista retrograda e possessiva. Quindi, ammesso e concesso che sicuramente la maggiorparte di noi si augura un cambiamento di rotta in questo senso anche da parte delle popolazioni musulmane, di certo la soluzione non mi pare quella di strappargli il burkini a forza. Perché poi da evoluti e democratici che siamo, finiremmo per rivestire la parte degli ottusi attaccati allo stereotipo del costume a due pezzi come unico veicolo per transitare dalla parte giusta della storia. Il burkini è esteticamente poco gradevole in spiaggia? No, non credo. O quantomeno credo che possano essere esteticamente sgradevoli ben altre cose rispetto allo stesso. Anche l’ostentazione eccessiva del corpo potrebbe essere , ad avviso di altri, frutto di una logica ammalata e convenzionale nonché espressione stessa di cattivo gusto. Ma sappiamo, a nostre spese, quanto anche questa libertà di costume ce la dobbiamo difendere perbene perché è giusto che ognuno possa esprimere se stesso. E che lo possa fare anche scegliendo il corpo come mezzo di linguaggio per la sua comunicazione interiore e sociale. In ultimo luogo, due parole su questo femminismo nazista che sta venendo a galla in questi giorni a seguito di questa polemica. Calmatevi. Non potrete salvare tutte le donne del mondo perché ognuna ha una sua idea di salvezza. Così come ognuna ha una sua idea di bene e di valore. Essere femministe non può voler dire imporre il proprio modello di libertà all’altra, perché nel momento stesso dell’imposizione lo scopo ha già perso il suo senso di libertà. Integrarsi vuol dire anche rispettare i tempi di incontro di chi abbiamo davanti. Anch’ io penso che ogni donna debba vivere alla luce del sole completamente, perché scoprendosi può mettersi in gioco nella sua identità. Ma penso anche che bisogni avere in questa sfida come principale alleato l’intelligenza. E togliere quel burkini a forza sarebbe commettere uno stupro di massa su una cultura che ha completamente altre fondamenta.

Alessandra Arini

Chissà se a Peppino sarà mancato l’amore

Non sono solita commemorare gli anniversari  dei morti per mafia. O meglio lo faccio sì, ma nel mio intimo. Non apro mai la porta a pensieri pubblici perché non mi riesce. Ma c’è un giorno dell’anno,image, dove mi devo fermare per fare entrare un’occasione naturale di memoria.  La colpa non è del giorno, né di me stessa, la colpa è di Peppino Impastato.  Perché la morte non sta bene addosso a nessuno, ma men che meno doveva stare  bene addosso a Peppino. E mi sale una rabbia come se fosse stato un mio fratello, un mio cugino stretto, come se fosse stata una persona che amavo a tal punto da non poter sopportare il peso di un male che è stato fatto anche a me.  Sarà che gli altri signori della legge, gli altri eroi della giustizia, noi ce li ricordiamo adulti, quasi vaccinati contro il dolore. Peppino invece aveva la mia età. E aveva tutte le stesse declinazioni della vita che si custodiscono quando si hanno vent ’anni.  Ascoltava i Beatles, sognava di innamorarsi veramente, leggeva Pasolini, gli piaceva la fotografia, faceva radio. Certe volte mentre camminava si doveva fermare per guardare più a lungo un posto. Per sognare come cambiarlo. Gli piaceva fare casino nei centri sociali, gli piacevano le giornate di sole a Cinisi e il rumore del mare. Come tutti i diversi, come tutti quelli che hanno una sensibilità in più nel voler trasformare le sovrastrutture del mondo, ha dovuto lottare anche contro gli scherzi della sua fragilità. Perché voler cambiare le cose vuol dire sempre misurarsi con la rinuncia di adagiarsi a quello che di sicuro già  c’è.  Chissà se gli sarà mancato l’amore di una donna quando tutti avevano paura di avvicinarsi perché la sua vicinanza era già pericolo, chissà se gli sarà mancato l’abbraccio stretto di suo padre negli anni in cui furono lontani per divergenze troppo grandi e troppo profonde di pensiero. Chissà quante volte seduto sulla sua seicento azzurra, con la radio accesa sotto, si sarà fumato una sigaretta e si sarà chiesto se ne valesse veramente la pena. Il prezzo per cambiare l’umanità è quello di allontanarsi dall’ umanità? Il prezzo per essere un eroe, qual è? Quello di spegnere la propria vita per accendere quella degli altri? Quello di essere ricordati per sempre sì ,ma mentre non ci siamo più, mentre non la possiamo  respirare né sentire questa memoria di onnipotenza sulla nostra carne?

No, Peppino queste cose non se le sarà chieste. Perché questi sono i miei pensieri, e come tali sono fragili, inferiori. Perché non sono un eroe e non avrei mai avuto il coraggio di andarmene via di casa e di rinchiudermi in un garage a sopravvivere con i soli guadagni della mia lotta. Perché non sono un eroe e non ce l’avrei fatta a continuare a gridare che la Mafia è una montagna di merda in un paese dove stavano già pianificando il mio omicidio. Queste domande Peppino non se le sarà fatte perché aveva  solo le risposte. La sua idea di bene, la forza del vento che spazzava via forte la paura in Sicilia, la certezza che vent’ anni sono pochi per vivere tutto quello che c’è da vivere nella vita, ma bastano per rendere immortale un attimo, un gesto, una passione.

A Peppino devo la mia riconoscenza, tutte le mie parole. Anche la più piccola cosa che diventerò avrà dentro di sé una parte piccola del suo coraggio. Ogni volta che passo da Cinisi mi sembra di sentirla la musica che suona dai balconi di Radio Aut, e mi sembra di intravederlo, magro, coi capelli neri,  fra gli alberi di limoni che costeggiano le strade del paese. Vorrei andare lì, abbracciarlo, fargli sentire la vicinanza di un tempo che non lo ha dimenticato. Poi sfugge. È stata solo un’impressione. Ma io ci credo che è ancora li e ci guarda e continua a prendere in giro la nostra paura.

Chissà se a Peppino sarà mancato l’amore

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Non sono solita commemorare gli anniversari dei morti per mafia. O meglio lo faccio sì, ma nel mio intimo. Non apro mai la porta a pensieri pubblici perché non mi riesce. Ma c’è un giorno dell’anno, il 9 Maggio, dove mi devo fermare per fare entrare un’occasione naturale di memoria. La colpa non è del giorno, né di me stessa, la colpa è di Peppino Impastato. Perché la morte non sta bene addosso a nessuno, ma men che meno doveva stare bene addosso a Peppino. E mi sale una rabbia come se fosse stato un mio fratello, un mio cugino stretto, come se fosse stata una persona che amavo a tal punto da non poter sopportare il peso di un male che è stato fatto anche a me. Sarà che gli altri signori della legge, gli altri eroi della giustizia, noi ce li ricordiamo adulti, quasi vaccinati contro il dolore. Peppino invece aveva la mia età. E aveva tutte le stesse declinazioni della vita che si custodiscono quando si hanno vent’anni. Ascoltava i Beatles, sognava di innamorarsi veramente, leggeva Pasolini, gli piaceva la fotografia, faceva radio. Certe volte mentre camminava si doveva fermare per guardare più a lungo un posto. Per sognare come cambiarlo. Gli piaceva fare casino nei centri sociali, gli piacevano le giornate di sole a Cinisi e il rumore del mare. Come tutti i diversi, come tutti quelli che hanno una sensibilità in più nel voler trasformare le sovrastrutture del mondo, ha dovuto lottare anche contro gli scherzi della sua fragilità. Perché voler cambiare le cose vuol dire sempre misurarsi con la rinuncia di adagiarsi a quello che di sicuro già c’è. Chissà se gli sarà mancato l’amore di una donna quando tutti avevano paura di avvicinarsi perché la sua vicinanza era già pericolo, chissà se gli sarà mancato l’abbraccio stretto di suo padre negli anni in cui furono lontani per divergenze troppo grandi e troppo profonde di pensiero. Chissà quante volte, seduto sulla sua seicento azzurra, con la radio accesa sotto, si sarà fumato una sigaretta e si sarà chiesto se ne valeva veramente la pena. Il prezzo per cambiare l’umanità è quello di allontanarsi dall’umanità? Il prezzo per essere un eroe, qual è? Quello di spegnere la propria vita per accendere quella degli altri? Quello di essere ricordati per sempre sì, ma mentre non ci siamo più, mentre non la possiamo respirare né sentire questa memoria di onnipotenza sulla nostra carne?
No, Peppino queste cose non se le sarà chieste. Perché questi sono i miei pensieri, e come tali sono fragili, inferiori. Perché non sono un eroe e non avrei mai avuto il coraggio di andarmene via di casa e di rinchiudermi in un garage a sopravvivere con i soli guadagni della mia lotta. Perché non sono un eroe e non ce l’avrei fatta a continuare a gridare che la Mafia è una montagna di merda in un paese dove stavano già pianificando il mio omicidio. Queste domande Peppino non se le sarà fatte perché aveva solo le risposte. La sua idea di bene, la forza del vento che spazzava via forte la paura in Sicilia, la certezza che vent’anni sono pochi per vivere tutto quello che c’è da vivere nella vita, ma bastano per rendere immortale un attimo, un gesto, una passione.
A Peppino devo la mia riconoscenza, tutte le mie parole. Anche la più piccola cosa che diventerò avrà dentro di sé una parte piccola del suo coraggio. Ogni volta che passo da Cinisi mi sembra di sentirla la musica che suona dai balconi di Radio Aut, e mi sembra di intravederlo, magro, coi capelli neri, fra gli alberi di limoni che costeggiano le strade del paese. Vorrei andare lì abbracciarlo, fargli sentire la vicinanza di un tempo che non lo ha dimenticato. Poi sfugge. È stata solo un’impressione. Ma io ci credo che è ancora lì e ci guarda e continua a prendere in giro la nostra paura.

Che giorno è il giorno dopo dei siciliani onesti?

Che giorno è il giorno dopo dei siciliani onesti? Il giorno dopo è sempre il figlio del giorno prima e non si può cancellare in una sola buona dozzina di ore il sapore amaro di quest’altra speranza che  muore. Ma ho sentito frasi troppo gravi per dargli il mio lasciapassare ad esistere: “è finita”, “non bisogna credere più a niente”. Svegliamoci. L’unico modo per consentire a Pino Maniaci di essere ancora un eroe è dargli ancora il potere di farci crollare tutto come se lui fosse il rappresentante di quel tutto. Pino Maniaci, a quanto pare, non era l’uomo modello dell’antimafia. Ma l’antimafia non è un solo uomo. L’antimafia è il giornalista che fa il suo dovere, ma è anche l’insegnante che educa al rispetto di una norma di legalità, è un consigliere che vigila sul territorio, ma è anche un ragazzo che non accetta la raccomandazione per quel concorso pubblico. È vero, siamo stanchi. Siamo stanchi di sentirci presi in giro dai galantuomini della legalità che  sono intrisi fino al collo di compromessi e mazzette e si sono permessi di venirci a fare la morale per anni. Ma che vogliamo fare? Vogliamo buttare via  quello che siamo diventati anche grazie a questi  esempi? L’inceppo del sistema sta qui: Pino Maniaci sarà anche un falso, ma l’impegno con cui noi lo abbiamo seguito era vero. Noi e la nostra crescita morale rimangono vere a prescindere dai personaggi che possono avere costellato ed alimentato il percorso. E questo ce lo dobbiamo ricordare perché altrimenti ci sentiremo  derubati della nostra storia.  Aver creduto in un giornalista che si professava libero da qualsiasi mafia ci ha fatto crescere come uomini liberi. Ci ha fatto praticare una scelta tra il bene ed il male, tra chi volevamo sentire e chi volevamo mettere a tacere. E questo dato rimane come tassello della nostra identità ideologica. Che lui poi si sia rivelato un sempliciotto che non possedesse un’idea vera della giustizia, questo è un fatto che lo debilita nella sua individualità di uomo e di professionista. Ma non ci può ledere. Ci può deludere.

Non voglio entrare nel merito della vicenda giudiziaria perché sono in corso indagini accurate ed è inutile professare condanne prima del tempo. Ma ciò che emerge dalle intercettazioni è così lampante che sarebbe anche un po’ ipocrita non formulare quantomeno giudizi personali.  A Pino Maniaci voglio solo dire che per essere eroi ci vuole una certa stoffa. Cioè si può giocare a fare tanti mestieri, però per quello dell’eroe o ci nasci o ci muori. Ed inventarsi paladini della giustizia senza avere chiaro il concetto di giustizia corrisponde a giocare a fare il medico senza avere chiaro il concetto di salute o di malattia. E ci si può ammalare facilmente quando non si hanno chiari i concetti e soprattutto quando si cerca di confonderli agli altri.

Detto questo, gli rendiamo merito per il valore aggiunto al territorio con alcune delle sue importanti inchieste. Anche se non sappiamo a quale prezzo di dignità gli siano costate.  Ma diciamo che oggi non siamo proprio in vena di ringraziamenti, quindi non ci dilungheremo nell’ elenco.  L’elenco degli altri eroi invece, quelli veri,resizeè lungo. E oggi rileggeremo con piacere solo quello.

 

Alicante (Sabato&Poesia)

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Alicante
Un’arancia sul tavolo
il tuo vestito sul tappeto
e sul mio letto tu
dolce presente del presente
Frescura della notte
calore della mia vita.

(Jacques Prèvert)

Spiegare una poesia è sempre commettere un delitto crudelissimo. È come scucire tutto d’un tratto un vestito per capire da dove comincino le rifiniture e di che colore sia la stoffa interna. Ci sono cose che si possono smembrare per guardarle meglio e altre che sarebbe più opportuno forse lasciarle così come sono, intatte. Perché anche le poesie così come i nostri stati d’animo se analizzati rischiano di morire. Capire il perché di una strofa talvolta equivale all’inutilità di capire un nostro atteggiamento. Esiste, è. Senza un significato forzato, senza una parafrasi di sottofondo.
La poesia che ho scelto, infatti, non la spiegheremo. Sarebbe senz’altro sciocco tanto è chiara. Ma la leggeremo cercando di dare un volume più intenso alle parole che ha dentro. Fino alla dimensione scolastica, ero prettamente convinta che la poesia fosse orpello retorico, fosse rima contro rima, fosse una canzonetta ben fatta che cercasse l’approvazione del suo pubblico. Uscita fuori dal dovere di leggerle, ed entrata dentro il piacere di leggerle per volere, ho capito che la poesia era tutt’altro che questo. È, anzi, nella maggior parte dei casi, il tentativo di una persona come noi di fotografare un momento che gli ha donato la sensazione di una sensibilità estrema. Come se il poeta, mentre vive, mentre cucina, mentre ama, si dovesse fermare un attimo per mettere insieme i pezzi di quello che gli è successo.
Siamo ad Alicante, in Spagna. Che è una città di mare. Il poeta ha probabilmente finito di consumare un momento di passione con la donna di cui velatamente ci parla e si mette a descrivere con la semplicità tipica di chi ha nella testa emozioni più forti, e non può badare al resto, l’ambiente circostante.
Sul tavolo c’è un’arancia. Ancora intera o sbucciata o mangiata per metà? Non lo sappiamo. Ma l’arancia ci dà il primo colore presente nella stanza: l’arancione. Gli occhi del poeta cadono ora in basso e sul tappetto c’è il vestito di lei. Il fatto che sia sul tappeto ci dà l’idea della fretta con cui devono essere entrati nella stanza. “nel mio letto tu”. Tu è il nome più bello con cui ci possiamo sentire chiamati da un altro. Perché indica scelta, appartenenza. Sei tu in mezzo agli altri. È un pronome che definisce l’idea del rapporto esclusivo. Il poeta sceglie di chiamare così questa donna. Che ora dorme nel suo letto. Mio e tuo. Lei che è sua dorme in un letto che gli appartiene come lui appartiene a quella donna in quel momento.
Dolce presente del presente. Presente, come sappiamo, non vuole dire solo ora, adesso. Ma presente in italiano vuol dire anche dono. Quindi in un solo verso il poeta riesce a fare due dediche con due significati diversi ma con parole uguali. Può voler dire: donna che rappresenti l’attualità piena di questo momento presente. Ma può voler dire anche: donna che sei il dono di questo tempo che sto vivendo.
Frescura della notte, calore della mia vita. Anche a noi sembra di sentirlo il caldo che quella notte deve esserci ad Alicante. Le persiane completamente aperte e le tende bianche che non si muovono perché non c’è un alito di vento. Eppure quella donna è il fresco, perché è il modo di non pensare a quel caldo. Ed è anche però il forte calore della vita, che invece è fredda . Perché non è sempre estate ad Alicante, ma soprattutto non è sempre estate nella nostra esistenza. E nell’inverno, nelle cadute, nelle sere di prova, quella donna è comunque il riparo, la protezione, è l’idea di un amore che copre tutte le cose.
Ecco, non abbiamo appreso nulla di più rispetto alla lettura inziale, ma abbiamo sicuramente vissuto con altri occhi l’esperienza che in certi momenti ci è venuto naturale fare nostra. Le poesie non parlano quasi mai di cose estranee al nostro vissuto, ma quasi sempre nel raccontarcele ci danno intuizioni nuove per comprendere quelle che erano accadute anche a noi stessi. Non leggetele con snobismo, né col pregiudizio di non poterle mai comprenderle fino in fondo. Leggetele come foste voi i destinatari delle cose che dicono, e come foste voi gli scrittori che hanno bisogno di destinarle a qualcuno.

I libri che non ci hanno ancora cambiato la vita

Arini mentre scrive: il suo sesto libro?
Arini mentre scrive: il suo sesto libro?

Ho sempre trovato le classifiche una cosa difficilissima. Scartare il non importante, e decidere qual è il più necessario, questo è un compito un po’ fuori dai pori della letteratura. In cui raramente esistono i primi e i secondi classificati, perché tutto è a suo modo fondamentale se leggerlo ci fa stare bene. I libri sono tutte cose preziosissime. Se qualcuno ha scritto è perché voleva dirci un segreto. Qualcuno diceva “scrivere è sempre nascondere qualcosa in modo che poi venga scoperto”. E lo credo, leggiamo o scriviamo sempre per prenderci o buttare via un segreto che non vogliamo urlare al mondo.
Da questo baule di lettere e segreti, caccio fuori però oggi solo 5 libri. Che non credo siano i più belli in assoluto, ma lo sono stati quanto meno per me e li voglio condividere.
Il giorno prima della felicità, di Erri de Luca. C’è una Napoli molto chiassosa in sottofondo. Si sente il sapore del caffè davanti al golfo del Vesuvio e ci sono lenzuola bianche stese fuori e ragazzini che giocano a pallone tutto il giorno. C’è un bambino che addentrandosi tra stradine di quartiere scopre una storia di guerra complicata e solo allora il male ci sembrerà una cosa semplice e il dolore una battaglia più conoscibile. Ma soprattutto c’è una domanda: qual è il giorno prima della felicità? Quello in cui riceviamo il bacio che aspettavamo o quello in cui aspettavamo che il giorno del bacio arrivasse? La risposta è la nostra. E l’impresa sarà trovarla.
La meccanica del cuore, di Mathias Malzieu. Questa è una specie di grande favola con delle metafore di fantasia che hanno però lo stesso grado di realtà del nostro corpo, delle nostre debolezze. La trama non ve la svelo. Perché come in ogni favola che si rispetti è bene sempre lasciare che sia l’immaginazione a comporre le scene, i suoni e gli inizi. Ma c’è una cosa che si impara poco a poco che si legge: il cuore e la meccanica hanno molto in comune. E gli incantesimi a cui diciamo tutti di non credere, perché siamo grandi, sono sempre quelli per cui speriamo che poi alla fine le cose vadano in un altro modo.
Uno, nessuno, centomila, di Luigi Pirandello. Non c’è bisogno di altre presentazioni. Tutti siamo cresciuti, più o meno consapevolmente, a suono di massime che provenivano da questo romanzo. È vero: siamo più maschera o siamo più volto? Cosa rimane di noi quando gli altri se ne vanno e rimaniamo soli nella stanza? Senza l’umanità a cui dobbiamo il dovere di comunicare, cosa saremmo nel nostro silenzio? E quando le luci si spengono, siamo nessuno o siamo qualcuno nonostante quella luce? Pirandello ci dà materiale per conversare per delle notti intere. Leggerlo è sempre fare un passo avanti dentro di noi. Comprenderlo è sempre fare un passo avanti nella paura che abbiamo di noi.
L’ultimo dono, di Sandor Marai. Una commuovente dedica che questo splendido autore fa alla moglie negli ultimi anni della sua vita. Un’esistenza che ora si prepara a scoprire cosa c’è dopo la morte, ma che non si sa misurare con la paura di lasciare sola la propria compagna. Un libro in cui si avverte la tenerezza di un uomo, prima che di uno scrittore, che non teme la sofferenza ma il dubbio di che cosa potrà essere quell’amore una volta che il sipario sarà calato. Un libro da leggere non tanto perché faccia ricredere nell’amore, ma perché mai, come in questa opera, si proietta la luce su un amore diverso. Finora avevamo letto quello dei baci dei ventenni o quello delle coppie impazzite. Qui abbiamo un amore maturo che ha superato tutte le prove dell’esistenza e che ora sia avvia alla più spiazzante.
La gioia di scrivere, di Wislawa Szymborska. Le poesie sono sottovalutate almeno quanto le raccolte di poesia, in Italia. Invece la poesia è proprio la prima scintilla, il primo vagito della creatività di un artista. Nasce con un impatto più spontaneo, e la sua ispirazione è meno costruita. Questa straordinaria poetessa polacca ci insegna che non sono sempre i laghi, i ruscelli o i quadri d’amore a suscitarle poesia. Ma che ci sono anche incroci di strade, fili d’erba, piatti, bicchieri, fogli stracciati che hanno dentro qualcosa di meraviglioso. E li descrive. E ci descrive. E troveremo la nostra esatta vita trasportata nei suoi versi. I nostri dubbi, e le carezze che dichiariamo di volere meno volte delle volte in cui le vogliamo davvero.
Poi c’è un sesto libro, quello che tutti abbiamo dentro di noi. Quello che, almeno una volta nella vita, tutti abbiamo pensato di scrivere. I protagonisti generalmente siamo noi e la storia che avremmo intenzione di trasporre è sempre molto autobiografica. Vi consiglio di farlo realmente, prima o poi. Non è detto che lo darete alle stampe, e non è detto che venderete per forza milioni di copie. Ma raccontarvi vi aiuterà a capirvi e mettere in fila gli eventi, vi farà trovare il significato che di loro vi era sfuggito. Il vostro libro sarà importante proprio come tutti gli altri che avrete letto.
Perché siamo sempre la somma e il resoconto delle storie degli altri unite alla nostra.

Ho votato No. Ma non mi sento un mostro per questo.

A nostre spese  abbiamo imparato che ogni discussione post elettorale che si rispetti  oramai si giochi sulle piattaforme dei social network . Abbiamo anche imparato di  come più che una discussione si tratti di serie di monologhi moralizzatori che di regola vengono lanciati al cittadino che non ha fatto il suo dovere, al cittadino che non è degno di essere chiamato tale, al cittadino che, seguendo le indicazioni di questi appelli, dovrebbe letteralmente nascondersi  e non farsi vedere in società per almeno un paio d’anni.

A me, non piacciono le generalizzazioni ed, onestamente, non mi piacciono nemmeno quelli che vogliono fare i portatori sani di coscienza civica solo per un giorno. Perché sì, ammettiamo che dia anche  la sensazione di un certo potere raccogliere like virtuali  facendo i Che Guevara della situazione, però ogni monologo, ogni appello, ogni discorso deve avere con sé le radici del rispetto verso il discorso dell’altro.  Anche il silenzio ha la sue ragioni. Possiamo non condividerlo e possiamo ritenere quelle ragioni vane, ma la prima lezione di democrazia da cui ripartire, a mio avviso, è proprio quella di comprendere il silenzio civico nel suo significato.

Nella votazione referendaria di ieri il silenzio era una risposta specifica. Che ci piaccia o no, il referendum abrogativo nasce proprio con il vincolo di un quorum elettorale da raggiungere. Quindi, se voglio esprimere il mio dissenso rispetto alla proposta che mi viene fatta politicamente, posso decidere di non andare a votare contribuendo al non raggiungimento del quorum e quindi al suo fallimento. Certo, c’è chi potrà  ravvisare  in questo comportamento un atteggiamento di non considerazione rispetto alle sorti del paese, ma c’è chi leggendo più lucidamente, potrebbe anche notarci  una concreta presa di posizione contro la consultazione referendaria.

Poi che, ovviamente, ieri ci siano stati milioni di italiani che non abbiano votato per pure ragioni di noia, di disinformazione, di distanza dal problema, anche questo è legittimo credere che sia accaduto. Ma ce ne sono stati molti altri che non hanno votato perché erano con consapevolezza contrari alla riuscita di questa consultazione. È sempre facile fare un grande mucchio di tutte le personalità e di tutte le vicende, perché, ammucchiando e omologando, quando si punta il dito contro non si deve fare lo sforzo di distinguere tra le ragioni dell’uno e dell’altro. Ma distinguere è sempre il primo passo per scegliere cosa conoscere.

Io ho votato, ma ho votato No.  E  non mi sento un mostro per questo. E, malauguratamente, non sono nemmeno la figlia del proprietario di un pozzo petrolifero nell’ oilplat Adriatico. Ho votato no perché questo quesito era posto malamente e non ravvisavo nella legge attuale una grave minaccia. Non ho una conoscenza ambientale così specifica, ma con i miei mezzi ho cercato di informarmi.  E posto che, da nessuna legge  attualmente vigente, è previsto l’ impianto di nuove trivelle, si sarebbe trattato esclusivamente del  decidere se continuare a mantenere in vita quelle già esistenti fino all’ esaurimento dei pozzi sottostanti.  Io ho votato affinché queste si mantenessero in vita perché credo che non si possano smantellare di colpo creando il problema della disoccupazione in circa 7.000 lavoratori e rispettive famiglie. Ho votato no perché credo che il fatto che questi impianti  si trovino a 12 miglia dalla costa garantisca comunque il rispetto di un certo  vincolo ambientale. E ho votato no perché credo, forse scioccamente, che di questo petrolio ne abbiamo ancora bisogno. Perché ritengo che l’energia rinnovabile non la potremo avere domani, ma che prima serva un piano effettivo che programmi con gradualità ed intuito in toto il rinnovamento. E se questo piano di rinnovamento ed investimento non lo abbiamo già pronto, finirebbe che comunque dovremmo compensare l’attesa andando ad importare il petrolio all ’estero.

Probabilmente una scelta ignorante, discutibile, ed arrogante la mia. Ma comunque, una scelta. Che merita lo stesso rispetto che meritano tutte le altre  risposte di questo paese.

Catalogo dei significati di una donna

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Roberta, Piazza Santo Stefano, Bologna – foto di Giovanni Andreani

Impazienti, appassionate, rancorose. Si dispiacciono per cose a cui un altro non avrebbe fatto caso e non credono affatto che il caso sia solo casuale. Dietro tutto c’è un destino, un disegno, una rete intrecciata male o un lenzuolo che gli ricorda il letto di qualcuno con cui hanno fatto l’amore.
Si sentono capite in una maniera diversa da come si capiscono dentro. E la realtà sarà sempre uno specchio meno chiaro di quanto non lo sia il loro camerino interiore. Hanno tanta fretta di andare via dalla vita degli altri quando si accorgono che non ci potrà essere niente oltre il dolore, ma muoiono ogni volta che si rendono conto di non avere piantato radici dentro di loro.
Lavorano senza guardare l’orologio, e non ci sono calendari dove siano segnate ferie per i sentimenti, per i pensieri sul significato delle cose che vivono, per le analisi minuziose e amplissime sulla fragilità delle emozioni che non hanno scelto di provare.
Hanno figli, amiche, amici, madri, padri e sono tante volte sole anche quando hanno accanto una compagnia immensa intorno, associano sempre un silenzio alle parole urlate e non si abitueranno mai alla pochezza di alcuni gesti che continueranno a stridere anche quando poi diventeranno ricordi. Parlano al telefono e scompongono spesso la voce. Hanno il desiderio di raccontare tutto, anche più di quello che è accaduto.
Hanno fiducia nel futuro perché sanno che in parte dipende quanto decideranno di crederci. E non solo perché saranno loro a fare i figli, ma perché non se la sentono di non dare una possibilità a una cosa che ancora non conoscono.

Rimpiangono la mancanza di poesia nei discorsi degli uomini, e non riescono a rinunciare a costruire una realtà parallela dove creare e far vivere personaggi che non esisteranno mai completamente se non in quel nido, in quello spazio protetto.
Aspettano con ansia il giorno in cui qualcuno consegnerà loro la chiave per capire cosa c’è dietro il senso di ogni attesa e hanno come una malattia per la ricerca della felicità. Solo il tempo guarirà questa smania in un bisogno pacifico di una serenità che è già abbastanza.
Fanno politica, quella pubblica e quella privata. E sanno che gli altri non si convincono con comizi affrettati, ma più con i fatti. Con i sacrifici per prendersi cura di loro. Sono polemiche nei confronti del potere, anche quando lo posseggono esse stesse. Hanno consapevolezza di come sia una cosa molto grande, ma sempre assai minore rispetto al potere di criticarlo.
Hanno voglia di non perdersi niente di tutto il bene e di tutto il male. C’è una goccia piccolissima di volontà anche nel dolore che gli capita. E un’altra di masochismo nell’ affezionarsi ad allegrie e a momenti che esercitano fascino proprio perché esercitano dolore.
Se qualcuno le attacca, si difendono in una maniera che non replica le mosse dell’avversario. Coltivano strategie molto più sofisticate della paura che fanno le parole che feriscono.
Conversano con più di una persona alla volta. Sanno soppesare la rabbia con l’ironia, e l’intelligenza con la leggerezza. I discorsi conservano un volume anche quando finiscono e nessuna parola è andata per sempre sprecata.
Trovano nei posti ragioni essenziali per restare, e hanno l’abitudine di confessare al proprio bisogno di rimanere anche il proprio bisogno di andare via.

Virginia, Isola, Milano - foto di Giovanni Andreani
Virginia, Isola, Milano – foto di Giovanni Andreani

Camminano, fanno la spesa, viaggiano, con la stessa profondità con cui leggono un libro. Non sono cose uguali, ma in ogni azione banale c’è sempre il senso di una ricerca che va al di là del senso apparente. Il finale del libro, il luogo dove arrivano dopo una lunga passeggiata, sono sempre più che posti, sono cose da raggiungere senza smettere di guardare e di capire il resto.
Non credo siano esseri superiori. Nemmeno inferiori. Credo siano, esistano. Come gli altri, ma diversamente da loro.

Sono siciliana e ci sono cose che mi hanno offeso di più dell’intervista di ieri sera

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Sono siciliana e, francamente, mi hanno ferito cose più gravi dell’intervista a Salvo Riina. Lui, in fondo, a sentirlo sembra veramente un “marziano” precipitato sul pianeta terra privo di una cognizione generale sul linguaggio della società, sul significato morale delle cose. Non sa dare un parere sul fenomeno mafioso, non vuole formulare un giudizio sul padre, finge di essere stato all’oscuro delle stragi di matrice criminale portate avanti dalla famiglia, cita i comandamenti della Bibbia con la stessa considerazione con cui si legge il manuale delle istruzioni di un elettrodomestico. Io, in fondo, gliela auguro veramente questa non percezione della realtà, perché, altrimenti, vivere con la lucidità del senso di colpa che ti si staglia addosso con un cognome del genere forse diventerebbe troppo insostenibile, quantomeno lo diventerebbe per chi non ha il coraggio di affrancarsi dal passato e dalle proprie radici.
Quello che però mi lascia perplessa è la totale contestazione a Vespa. Cioè il fatto che si legga unicamente questo accadimento come un modo assoluto per dare spazio al signor Riina. Ovvero, mi lascia perplessa in relazione all’opinione che si ha in toto del sistema dell’informazione. Per quanto riguarda il “momento visibilità” sappiate che gliene state dando anche voi con i link di contestazione inerenti che proponete sulle vostre pagine, e gliene sto dando anch’io, a mio modo, con questo pezzo che sto scrivendo.
Ma l’informazione, a mio modestissimo e non qualificato parere, non può e non deve essere solo la proiezione di quello che è giusto vedere. Ma contiene, nei suoi corridoi e nelle sue finestre, anche la possibilità di dare spazio all’altra faccia delle cose. Cattiva, indisponente, discutibile, ma esistente come la faccia buona, pulita, migliore. E io ho trovato formativo che gran parte dell’Italia ieri sera si sia seduta ad ascoltare con disprezzo le parole di questo signore. È stato un bene che l’intervista fosse spezzata dai filmati delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, perché ci ha fatto venire l’impeto di alzarci dalla sedia e di difenderla noi a voce la vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino davanti alle parole asciutte e ipocrite di una persona che non sapeva mostrarci segno di empatia davanti a quel dolore comune. Ieri sera abbiamo per la prima volta, di nuovo, parlato pubblicamente di mafia perché ci siamo resi conto, dal vivo, di come sia soprattutto una battaglia di mentalità contrapposte. E la vera risposta da dare non avrà mai solo le sembianze di un maxiarresto o di un maxiprocesso, ma avrà in misura maggiore la forma di un linguaggio sociale che si discosti dalla puzza del compromesso morale.
E’ stato prezioso, ieri sera, assistere alla diversità di espressioni e di replica fra il figlio di Totà Riina e il figlio di Vito Schifani, membro della scorta Falcone, assassinato nella strage del ’92. Il primo, ermetico nelle risposte e impassibile nelle proprie posizioni, l’altro, dinamico, disponibile alle parole, generoso nelle risposte e nei racconti. Siamo veramente figli degli esempi che riceviamo, ma siamo soprattutto figli dell’esempio che riusciamo ad essere per noi stessi. Siamo sì il passato, se non riusciamo ad emanciparcene, ma siamo soprattutto il futuro, siamo la quota di onestà e di coraggio che decidiamo di investire nelle nostre scelte. Siamo la rabbia per quest’intervista che contestiamo, ma siamo anche il senso di rivalsa e di nuova dignità che da questa intervista emerge. Con più determinazione, con più chiarezza. Siamo quello che vediamo, ma siamo anche e soprattutto quello a cui scegliamo di credere dopo aver visto.
Il libro probabilmente lo compreranno in tanti. E sarà un fatto privato quello che gli avrà comunicato. Ma abbiamo un libero arbitrio per questo tipo di scelte. E se non vorrò fare questo acquisto perché non nutro nessuna curiosità in merito, sarò libera di essere la mia scelta.

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