L'UNIversiTÀ

Alberto Nisi

Bergamasco di nascita ma non di tradizioni, troppo incline al cambiamento e alla curiosità per le cose nuove. Studio lingue e ho scelto Bologna per il suo enorme potenziale, il suo fascino e le sue possibilità. Sono un assiduo lettore ma vivo per la musica e per il cinema, che sono le mie vere “malattie”. Sogno di scrivere, di suonare in pubblico o di entrare nell'entourage di un film, ma c'è ancora molta strada da fare.

Veloce come il vento

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Cosa sta succedendo al cinema italiano? Domanda difficile ed impegnativa che coglie alla sprovvista lo spettatore più attento, mentre stranito si chiede se sia ancora possibile girare film decenti nel Bel Paese. Interrogativo lecito che ha cominciato a circolare tra le folle dopo l’uscita di Lo chiamavano Jeeg Robot, esordio al fulmicotone del bravissimo Gabriele Mainetti e vincitore di sette statuette del David di Donatello. Ora una risposta certa sembra sempre più vicina. Veloce come il vento è una rivelazione sorprendente, un film splendido e commovente intriso di adrenalina e una giusta dose di ironia tipicamente romagnoleggiante.
La storia è incentrata sulle vicende di Giulia – l’esordiente e brillante Matilda de Angelis – giovane promessa delle corse a quattro ruote e del turbolento rapporto con suo fratello maggiore Loris – uno straordinario Stefano Accorsi – ex campione delle corse, ma ormai tossicodipendente. Vibrante di passione per la velocità estrema e affranta nel profondo a causa della disastrosa condizione famigliare, Giulia dovrà vincere una sfida più grande di lei in cui la posta in gioco non sarà solo l’onore e la gloria della vittoria. Il giovane Matteo Rovere dirige un film avvincente ed emozionante in cui l’azione frenetica delle rombanti gare automobilistiche si amalgama perfettamente con scene più rilassate, che ritraggono la quotidianità non sempre felice della famiglia De Martino. Rovere delinea con grazia il rapporto amore-odio tra i due fratelli, spesso in lite tra loro ma nel profondo ancora legati da un amore fraterno che nel corso del film li condurrà ad una riappacificazione definitiva. Giulia, malgrado la giovane età, porta avanti la famiglia tra pesanti sacrifici e profonde incomprensioni, mentre Loris, rovinato dalla tossicodipendenza e dalla depressione, è una persona ingestibile che procurerà grossi problemi alla stabilità della famiglia. Distrutto nel corpo ma ancora lucido nell’anima, Loris conserva dentro di sé lo spirito e lo straordinario talento del pilota che fu, un brillante campione detto “il ballerino”, che si rivelerà fondamentale per la risoluzione degli eventi.
Un film che pone l’accento sull’importanza del sacrificio e dell’impegno, armi necessarie per l’ottenimento di qualcosa, ma anche su quello del riscatto e, se pur in maniera ridotta, della redenzione. Argomenti nobili trattati da Rovere in maniera decorosa e che ricordano in parte le atmosfere che contraddistinsero la saga cinematografica di Rocky, le condizioni sociali del portagonista e la scalata verso il successo. Un film che sa anche divertire e strappare molte risate grazie alla tipicità equilibrata ed intelligente della cadenza romagnola, marchio di fabbrica di molti personaggi, permettendo allo spettatore di immergersi maggiormente nella storia narrata.
Veloce come il vento è un’opera decisamente riuscita che, nonostante la troppa prevedibilità in certi passaggi, riesce a trasmettere così tanta energia e passione da tenere il fiato sospeso dall’inizio alla fine. Film come questi potrebbero essere la giusta risposta alla macelleria culturale che il cinema italiano propone da ormai trent’anni, un cinema profondamente afflitto da una crisi di idee e innovazioni ma che, puntando su giovani talenti volenterosi come Rovere e Mainetti, sarebbe in grado di superare. Forse il cinema italiano sta riacquistando una coscienza propria, manifestando i primi segnali di un profondo e radicale miglioramento che vogliamo vedere.

La mafia uccide solo d’estate

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Primo appuntamento con il ciclo “Alla luce del sole”, cineforum organizzato dalla Sinistra Universitaria sul delicato tema delle mafie in Italia. La rassegna si apre con il film La mafia uccide solo d’estate, sorprendente rivelazione del conduttore televisivo Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto. La proiezione è stata introdotta dal prof. Davide Bertaccini, docente di Diritto Penitenziario presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Alma Mater.
Dopo decenni di mancanze, Pif riesuma il cinema di denuncia e di impegno sociale degli anni addietro, analizzando, attraverso un’ottica più ingenua e moderata, l’annosa questione che tiene vincolata l’Italia, ed in particolare la Sicilia, ad uno dei suoi maggiori problemi. Pif racconta la Mafia in maniera pacata e ironica, adottando un registro che si discosta pesantemente dal classico filone da film di denuncia per virare su uno stile più improntato alla commedia. Stile che, come ha giustamente affermato il prof. Bertaccini, ricorda molto La vita è bella di Roberto Benigni, pellicola memorabile che riuscì nell’intento di parlare dei campi di concentramento nazisti in maniera più leggera.
Cos’è la mafia? Diliberto risponde a tale domanda narrando in prima persona la storia della vita di Arturo – suo alter ego – un bambino palermitano figlio di una modesta famiglia che si innamora inaspettatamente di Flora, sua compagna di classe. La quotidianità di Arturo è ripetutamente scossa da violenze e ingiustizie che ogni giorno si riversano sulla città e i suoi cittadini. Con occhio vigile e attento Pif racconta la sua vita, i suoi amori proibiti, la passione per il giornalismo e la realtà difficile e ostile di vivere in un paese affetto da un male (in)curabile. Una trama semplice e convenzionale infarcita di alcuni personaggi fin troppo squadrati e poco originali, il padre di Arturo e l’amico giornalista, e da alcune situazione per le quali è possibile prevedere la sorte, la scalogna del protagonista, ma che di certo non vira alla spettacolarizzazione dei suoi contenuti, bensì alla riflessione. Armato di sorrisi e momenti di ilarità Pif tenta di sconfiggere le paure e l’indifferenza che affliggono il suo Paese, offrendo una visione rosea e positiva della vita piuttosto che una rappresentazione schietta e demoralizzante della realtà.
Non un grande attore ma sicuramente un grande narratore capace di addentrarsi nei meandri del tema della mafia – che conosce molto bene – riuscendo sapientemente a farne emergere i contenuti più importanti, nonostante nel film costituiscano la sotto trama scenica, che accompagna la storia d’amore di Arturo e Flora.
Nella bellissima e struggente scena finale Diliberto esprime tutta la sua speranza trasmettendo alle generazioni future, il figlio, la necessità di mantenere vivo il ricordo di quelle grandi persone che hanno dato la vita affinché l’Italia lottasse contro l’oppressione del sistema mafioso. Arturo non tiene celata al figlio la verità, ma gliene parla con consapevolezza e buon senso così da prepararlo perché la riconosca assieme alle giuste cause per le quali nella vita vale la pena lottare.
Un film speranzoso ed estremamente positivo che insegna a rincorrere i propri sogni e a fronteggiare qualsiasi problema con amorevoli sorrisi e buon umore, le uniche armi in grado di contrastare anche il peggiore dei mali, complimenti Pif.

Batman V Suerman: Dawn Of Justice

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Un’impresa quasi impossibile, sovrumana direbbero, quella di ricreare sul grande schermo lo scontro epico tra i due supereroi (probabilmente)più famosi ed amati della storia dei fumetti, Batman e Superman. Laddove uno è un “semplice” essere umano senza particolari poteri, ma dotato di una forza fisica fuori dal comune e di una quantità di mezzi e denaro assai spropositati, l’altro è un alieno proveniente da un mondo lontano, un essere perfetto dall’apparente indistruttibilità.
Il regista Zack Snyder, armato di ambizione ed eccessiva spavalderia, si getta a capofitto in un progetto disastroso e confusionario che ricalca in parte gli eccessi e gli errori del suo precedente Man Of Steel.
Bruce Wayne e Clark Kent, due facce della stessa medaglia, il buio e la luce o la notte e il giorno, sono l’ambivalenza perfetta che riassume l’essenza di questi due personaggi, così simili ma estremamente diversi.
Entrambi votati alla stessa causa: assicurare la giustizia in un mondo violento e criminale.
Entrambi, però, sono altrettanto differenti nel modo di agire, nei mezzi a disposizione e nella concezione di ciò che sia giusto o sbagliato. Due persone buone e altruiste che in un mondo come quello in cui vivono – che ricalca quello attuale – finiscono per gettare scompiglio tra le folle, arrivando a figurare essi stessi come i veri responsabili dei crimini che cercano di sradicare. A ciò si aggiunge la visione del superuomo elevato a figura divina, il messia arrivato sulla Terra per proteggerla dai suoi peccati. Un Superman non preparato a svolgere il ruolo di estremo salvatore dell’umanità che vede il suo potere come un peso ingombrante. Sul lato oscuro del mondo vige, invece, la figura dell’uomo pipistrello, il (super)eroe che fa giustizia da sé, mettendo in discussione il ruolo stesso che quest’ultima ha nella società contemporanea.
Presupposti interessanti che stanno alla base del film, ma che Snyder e compagni mettono in scena con risultati alquanto discutibili.
Batman V Superman: Dawn Of Justice – e lo si evince già dalla V del titolo rimaneggiata poco prima dell’uscita nelle sale – è un film tronfio e confusionario in cui la regia caotica del vanitoso Snyder si amalgama in malo modo a una scrittura desolante, condita da dialoghi al limite del ridicolo e svolgimenti narrativi privi di qualsiasi motivazione logica. Il regista di Man Of Steel strizza l’occhio ai Batman di Christopher Nolan, qui in veste di produttore esecutivo, non riuscendo però a conferire la giusta dose di credibilità alla storia.
Ma se la trilogia de Il Cavaliere Oscuro ben si inseriva in un contesto più terreno e umano, aiutata dal realismo di fondo di un supereroe che di supereroistico ha solo i soldi, il film di Snyder pecca nella presunzione di voler emulare a tutti i costi una poetica registica che proprio non gli appartiene. Ciò che ne consegue è una completa indisponibilità da parte di chi osserva nel riuscire a prendere sul serio l’interminabile illogicità dell’opera che finisce per diventare una mera ridicolarizzazione dei due supereroi.
Nella prima parte del film, lunga e decisamente noiosa, si sviscerano in maniera dozzinale le psicologie dei personaggi con tanto di intermezzi onirici e visioni allucinate nelle quali si fatica a capire quali siano i reali intenti del regista.
Una trama pressoché sconclusionata, infarcita di buchi logici in cui personaggi piatti e privi di utilità vengono piazzati a casaccio recitando le parti peggiori dei deliri di Chris Terrio e David Goyer, sceneggiatori della pellicola.
La seconda parte, più dedita all’azione, è la prova di come la perseveranza di Snyder verso i propri errori sia quanto di più fastidioso e patetico ci possa essere. Chi sperava che avrebbe aggiustato i problemi del film precedente si sbaglia di grosso: la sequenza del combattimento finale è la dimostrazione che questo film è un vero disastro. Di certo non bastano le splendide musiche di Hans Zimmer, né la riuscita interpretazione di Ben Affleck (ottimo come Bruce Wayne, ma discutibile come Batman) a salvare questa pellicola dal baratro.
Un prodotto degno dei peggiori film sfornati dalla Asylum che offre spunti interessanti solo se visto sotto l’ottica della comicità o della semplice trashata – che potenzialmente è – capace di strappare abbondanti risate a chi osserva, incredulo questo scempio.

The Danish Girl

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Copenhagen, 1926. Einar (Eddie Redmayne) e Gerda (Alicia Vikander) sono una giovane coppia di pittori che si guadagna da vivere esponendo i propri dipinti nelle vicinanze. Un giorno Gerda, in assenza della sua modella prediletta, chiede al marito di indossare abiti femminili per portare a termine un quadro iniziato tempo prima. Il dipinto ha tanto successo da convincere la stessa Gerda a realizzarne altri aventi come soggetto il marito vestito da donna.
Einar capirà di trovarsi più a suo agio in quelle vesti che non nei panni dell’uomo nella vita di tutti i giorni. Sostenuto e aiutato dalla moglie, si sottoporrà a dei rischiosissimi interventi chirurgici di riassegnazione sessuale per diventare definitivamente una donna, Lili.
Le mie basse aspettative circa l’operato di Tom Hooper sono state piacevolmente smentite, The Danish Girl stupisce.
Reduce in questi giorni dalla visioni di recenti biopic realizzati con lo stampino, mi sono trovato in quest’occasione di fronte ad un’opera matura e profonda che traspare di amara bellezza. Il viaggio interiore di Einar alla ricerca di Lili viene delineato impeccabilmente sia dalla bravura del regista che da quella di Eddie Redmayne, calato in un ruolo forse ancor più complicato del precedente ne La Teoria Del Tutto. Invece, si tratta di un film che rende giustizia a uno degli aspetti più delicati e personali della vita umana, il cambio di sesso. A brillare non è tanto Redmayne quanto la straordinaria Alicia Vikander. Gerda è una donna risoluta ed estremamente paziente, “asseconda” il marito nelle sue scelte, rincorrendo, forse, all’ultima speranza di poterlo riavere con sé. È lei il motore, la vera “eroina” del film che permette a Einar di attraversa il suo tumultuoso cammino. Un film al femminile, forse senza volerlo. Non parla di donne ma del sentirsi donna.
Einar e Gerda sono al centro della storia, quello che si svolge al di fuori del guscio familiare è irrilevante. Per il primo è il conflitto interiore, la ricerca del suo vero Io, per la seconda è la brutale sofferenza di trovarsi di fronte a una triste realtà. Gerda è ancora innamorata di Einar, nemmeno nel corpo di una donna vorrebbe rinunciare a lui. È toccante.
Lo scetticismo non sempre rispecchia la realtà dei fatti. Sono sincero, in questo caso non me l’aspettavo. Bastava poco per sfamarsi della solita retorica dell’uomo malato e problematico che ottiene un riscatto per le ingiurie subite. Tom Hooper è un abile giostraio, pone l’accento sul trauma della coppia senza soffermarsi troppo su eventuali moralismi riguardanti la personalità di Einar/Lili. La narrazione segue gradualmente il percorso dell’uomo definendo nel dettaglio le tappe del suo cambiamento fino alla morte prematura avvenuta a causa di complicazioni fisiche.
Un’opera ben fatta che oltre a raccontare una tenera storia d’amore vuole essere la testimonianza di come moltissime persone abbiano sempre sofferto la non-appartenenza ad un corpo e ad una mente che non fosse la loro. Temi delicati trattati decorosamente in un film lineare ed emozionante. L’interpretazione di Alicia Vikander fa il resto, l’Oscar subito. Molto bello.

La vendetta nelle mani di Dio

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Esplorare la Natura, viaggiare per ore tra lande desolate, territori ostili ed inospitali, popolati dalla ferocia istintiva della bestia, della Terra che (ci) si rivolta contro. Revenant è un (“il”) film sulla Natura, indaga nella sua stessa “natura” di essere vivente incontrollabile e dotato di una sconfinata bellezza, estremi paesaggi dove l’occhio si perde all’orizzonte in quell’incanto di colori vergini e puri.
La Natura è forte e non esisterà uomo o creatura in grado di tenerle testa, di esserne all’altezza, di competere con l’indifferenza e la brutalità di disastrose rivoluzioni ecologiconaturalistiche.
Iñárritu è un regista capace, che sa come comunicare con il suo pubblico, offre uno spettacolo visivamente ineccepibile dove il suo virtuosismo e l’occhio del collaboratore Emmanuel Lubezki si fondono in una amalgama perfetta di colori e sensazioni, progetto di ardua fattura realizzato da una crew di professionisti appassionati al loro mestiere, quello di creare/costruire struggenti emozioni. A far brillare ulteriormente il progetto è la presenza di Leonardo di Caprio, super eroe-attore disposto ad esporre il suo fisico alle condizioni più disparate per adempiere ad un compito importante: l’ottenimento di qualcosa che trascende il semplice svolgimento di un lavoro e varca le soglie dell’impagabile compiacimento dell’aver dato ascolto al proprio cuore.
Straordinaria interpretazione affaticata da quel corpo martoriato, zampillante di sangue rossissimo, ammutolita da quel diabolico quanto tenero orso che impara la ferocia dalla Natura stessa che lo ha concepito per riversarla sull’inerme corpo di Hugh Glass. Di Caprio è muto ma parla aiutato dai suoi bellissimi occhi azzurri, il corpo ferito e martoriato implora più di ogni parola, comunicazione retta su sguardi persi e doloranti che racchiudono il più grande dolore che una creatura possa mai provare. Privo di tatto, immune a sofferenza fisica, un corpo ridotto a brandelli di carne ambulante che vagano tra lande gelide in cerca di vendetta. Non esiste male peggiore che la perdita del proprio figlio, allontanamento precoce che rafforza ed irrobustisce il corpo di Di Caprio/Glass rendendolo (quasi) immune al dolore fisico. Un essere già morto, ormai redivivo, alimentato da sete di vendetta verso un’anima maligna e vivente, causa scatenante di tanta volontà e resistenza, immortalata dall’ex uomo con la maschera di Christopher Nolan. Autentica “bestia da cinema” ascritta a tal dimensione iñárrituana che si converte in una delle più convincenti interpretazioni di Tom Hardy. Miracolosa la penna del messicano, personaggio avvincente, scritto in modo impeccabile, facendone brillare l’istrionica favella: contrapposizione netta di mugolii e versi straziati di un Di Caprio che non firma la sua miglior performance.
Film dallo scheletro sottile rivestito da cotanto virtuosismo che impedisce al gelo di permearne la tenue trama. Banale sì, ma mai banalotto, mantiene i confini narrativi e stilistici con eleganza senza sfociare in irritanti classicherie da revenge-movie ignoranti e muscolosi. Impronta western riscontrata in situazioni collocate agli albori del genere; avventura permeata da continui rimandi all’immaginario, costellazioni di pensieri scavati in profondità nella mente umana e collegabili allo Hugh Glass dei tempi passati, cuore affranto da traumi incessanti, influenzanti il tragico futuro ancor prima di aver tracciato un solco nel presente che egli vive. Dimensione onirica che ruba dal modello malickiano l’osservazione e la meditazione del particolare, dove a parlare sono le immagini mute di uno spettacolo tutto al naturale. Dimensione contemplativa sull’essere interiore, valori ascrivibili alla propria indole di barbaro e/o civile, ambivalenza perfetta di società improntante a violenza e crudeltà. Viaggio esplorativo dell’appartenenza, identità e giustizia relegate nelle mani del Dio giusto, unico detentore della punizione e del castigo. Iñárritu dei silenzi, contempla l’incontemplabile, osserva l’inosservabile, panorama in cui è libero di osare e di strafare, speranzoso di imporre la sua come una visione autoriale a tutto tondo. Opera che pecca nella smisurata voglia/bisogno di abbagliarci, mostrando un sempre più martoriato Hugh Glass procedere a stenti, la cui contemplazione innescherebbe stupore immediato con quel Di Caprio che, a conti fatti, “è stato proprio bravo, si merita l’Oscar”. Troppo che stroppia che si intoppa e si storpia, il film dei silenzi e delle esagerazioni. Film (anche) dell’ingiustizia e dell’ingenuità, imperdonabile anomalia di un sistema pretenzioso; sacrificare il sacrificabile, togliere pezzi da un puzzle intricato semplificandone l’esito.
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Penso a quel Capitano, Domnhall Gleeson, silurato con troppa faciloneria da un Iñárritu impaziente di immortalare lo scontro tra titani. Prevedibilità di una morte indegna telefonata a distanza abissale.
Penso alla vendetta, elemento focale di un film silenzioso, contemplativo e poco attento al minimo indispensabile, ma pronto e vigile nell’esasperazione del massimo pensabile. Nocciolo della questione rappresentato dal poco percettibile legame di sangue padre-figlio, riduttivamente espanso in un arco di tempo favorevole all’espansione.
Penso a Revenant, al viaggio percorso e al freddo avvertito, immedesimazione perfetta di un’opera imperfetta. L’emozione c’è, se ne avverte il rumore. L’emozione pervade lo schermo, la sala e la gente inorridita che domanda perplessa come Glass vivesse senza l’antitetanica. L’emozione di fronte ai quadri di Lubezki, ai piani sequenza di Iñárritu, al misticismo sconvolgente e rassicurante.
In sala sta nevicano, è arrivata anche qui, forse è solo l’impressione di trovarsi altrove.

Visioni francesi: storie di vita ordinaria

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Visioni Italiane si propone di esplorare l’eterno e immancabile connubio tra amore e odio attraverso l’esperienza di cinque cortometraggi di produzione francese di notevole impatto. Si parla della vita umana, il duro e arduo compito di stare al mondo, di affrontare le astrusità giornaliere ed esistere in un sistema a noi spesso ostile e contrario. Ma si parla molto anche della morte, concezione oscura e misteriosa, l’estremo passo verso una dimensione sconosciuta e totalmente inesplorata.
Il viaggio si apre con E.T.E.R.N.I.T(2015) di Giovanni Aloi, storia di Alì, un operaio tunisino alle prese con la difficile condizione dell’essere un immigrato in una terra straniera. L’amore c’è, è sentito e sofferto. Amore verso la propria terra e verso quella famiglia che tempo prima è stato costretto ad abbandonare. Rappresentazione schietta e sincera di un capitolo delicato della nostra società. Tristezza e grigiore dipingono la drammatica quotidianità di migliaia di immigrati nordafricani residenti in Italia. Ma alla fine del suo viaggio Alì potrà finalmente riabbracciare le persone che ama.
La famiglia e l’amore, elementi dominanti del seguente Bal De Famille (2015) di Stella di Tocco. Storia di un dramma famigliare vissuto attraverso gli occhi della giovane Julie, la quale non si rassegna ai soprusi subiti dalla madre. L’odio viscerale, manifestato nei confronti di quel padre austero e maschilista, colpevole diretto dei dispiaceri della consorte, e l’amore forse represso e forse schiacciato dal peso dell’incomprensione e del silenzio. Julie osserva, Julie scruta attentamente e in un ultimo disperato gesto sfoga violentemente la sua frustrazione di figlia passiva e afflitta.
La morte arriva inaspettata nello splendido L’Etourdissement (2015) di Gérard Pautonnier.
Dopo la morte di un collega, Eddy è incaricato di comunicare la tragica notizia alla moglie del defunto. La morte si converte in un’esperienza buffa e divertente coadiuvata da un saggio uso di gag condite con uno humor tipicamente francese. Basta solo uno scambio di sguardi, l’osservazione di un piccolo grande dettaglio per comunicare la devastante perdita del proprio amore, la persona che fino a quel momento aveva dato un senso alla vita della neo vedova Coppi.
Morte e odio, amore e incomprensione vengono racchiusi nelle mura domestiche del quarto cortometraggio, Maman(s) (2015) di Maïmouna Doucouré. Storia di adulteri, sofferenze e, ancora una volta, di drammi famigliari. Viviamo attraverso gli occhi della piccola Aida il suo dolore nei confronti della poligamia del padre, non accettata e mal vista. L’odio si trasforma in desiderio di morte, l’uccisione del frutto del peccato, il suo piccolo fratellastro, creatura innocente che da poco è venuto al mondo, ha conosciuto la vita. La morte si trasforma in vergogna, umiliazione e rigetto. La piccola Aida dovrà imparare a convivere e a comprendere gli errori del genitore.
Per ultimo, un viaggio tra le strade della nostra Bologna percorrendo vita, morte e miracoli di una delle personalità più illustri e controverse del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini. Realizzato da una giovane ragazza francese, A Quoi Sert La Lumière (2015) di Cécile Lapergue è un atto d’amore verso la città rossa, una manifestazione di ammirazione e adorazione nei confronti di un genio del pensiero e della settima arte. Pasolini vive, nei ricordi della gente, nelle fotografie sbiadite ritraenti il suo volto scavato e nelle sue bellissime opere, le quali rimarranno immortali e splendenti per l’eternità. Vivere nei cuori e nei ricordi di chi resta non significa morire.

Il Ponte delle Spie

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Steven Spielberg e Tom Hanks, due nomi che a Hollywood fanno letteralmente impazzire solo a sentirli pronunciare. Due icone del cinema, due tra le figure più importanti dello spettacolo degli ultimi tempi che, a distanza di ben undici anni da The Terminal, tornano in stato di grazia in questo faticoso e ammaliante progetto storico.
Per la prima volta nella sua lunghissima carriera Steven Spielberg affronta il tema della Guerra Fredda traendo ispirazione da un fatto realmente accaduto durante uno dei momenti più delicati della storia del secolo scorso, l’edificazione del Muro di Berlino nel 1961. Ad aiutarlo nella sua impresa storica ci pensano i fratelli Coen, che con fare arguto e mano esperta firmano una sceneggiatura solida ed intelligente, condita da una giusta dose di ironia e (a tratti) leggerezza.
La trama del film ruota attorno alle vicende dell’avvocato James Donovan (Tom Hanks) incaricato di difendere la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance), in un momento in cui le due superpotenze erano in procinto di annientarsi l’un l’altra. Donovan, armato di lealtà e spiccato buon senso, si impegna anima e corpo per salvare il suo assistito finendo per essere coinvolto in una losca trattativa di scambio tra lo stesso Abel e Francis Gary Powers, un ufficiale americano caduto vittima dei sovietici durante un attacco aereo. Il senso del dovere e il suo ferreo attaccamento alla leggi della democrazia americana saranno preclusivi all’eventuale instaurarsi di un conflitto a fuoco tra le due super potenze.
Il Ponte delle Spie è un film solido e compatto costruito su tre blocchi narrativi ben definiti e perfettamente caratterizzati. La prima parte, ambientata interamente negli Stati Uniti, ruota attorno alla cattura e al processo riguardante la sorte della spia russa, all’interno del quale si inserisce l’insolito rapporto amichevole che legherà quest’ultimo al suo avvocato difensore. Nella seconda parte si esplora il gelo e l’inospitalità della titanica Berlino est e vede i nostri protagonisti alle prese con le problematiche trattative di scambio tra i prigionieri di entrambe le fazioni. Il finale del film costituisce l’ultimo blocco narrativo, l’assoluzione da tutti i peccati e il ritorno in patria del nostro eroe, stanco ma appagato dai suoi sforzi.
A stupire è l’impressionante abilità tecnica con la quale Spielberg confeziona tale prodotto. Un film maturo e attento dotato di una regia solida e ispirata che non cede nemmeno nei momenti peggiori. Sarebbe sufficiente la sequenza iniziale della cattura di Abel, giocata astutamente sui silenzi e su un montaggio precisissimo, per comprendere la portata dell’opera e godere di una straordinaria lezione di regia da parte di uno dei più influenti cineasti del mondo. E laddove la regia fa passi da gigante, il comparto scenografico, probabilmente l’aspetto più curato di tutto il film, vince su tutti i fronti. SS si avvale dei migliori collaboratori per la fedele riproduzione di una Berlino est pressoché perfetta, curando nel dettaglio ogni particolare e sfumatura resi ancor più credibili dalla fotografia glaciale del fido compagno Janusz Kaminski. Spielberg riesce nell’impresa di raccontare il conflitto tra i due blocchi senza spingere troppo l’acceleratore sul buonismo e sulle false retoriche tipiche del suo cinema ma concentrandosi sull’ambivalenza, perfettamente bilanciata, che caratterizzava entrambi gli schieramenti. Il regista non risparmia nessuno e non ha nessun timore a puntare il dito contro le menzogne e i soprusi degli Americani né a farci empatizzare pienamente con il personaggio di Rudolf Abel, altra anima del film. Interessante soprattutto il legame tra l’avvocato e il suo assistito, basato su una reciproca ammirazione che fino alla fine si mantiene viva e costante lasciandoci forse intuire quanto la rivalità che separava i due paesi fosse sinonimo di estrema incomunicabilità e di un pregiudizio infondato, dovuti a previi e stupidi accordi politici da parte dei rispettivi governi. Donovan e Abel sono degli uomini, sono persone ancor prima di essere un avvocato o una spia e in quanto tali sono stati così forti da eliminare le barriere culturali imposte dalle loro società e a far nascere tra di loro un’armoniosa intesa.
Ma Il Ponte delle Spie è lungi dall’essere un film perfetto e lo dimostrano alcune cadute di tono in certi momenti e un finale mieloso e fin troppo irritante dove la tanto odiata vena spielberghiana viene fuori. Più che la conclusione di un blockbuster hollywoodiano sembra di trovarci di fronte a uno spot della Mulino Bianco con tanto di luce sparata a mille e una retorica vergognosa su quanto gli Stati Uniti siano un paese giusto e sicuro. Una pecca enorme che grava (non di poco) sull’economia del film ma che non impedisce a Spielberg di confezionare un prodotto notevole e di difficile fattura, compito che riesce solo ai mostri sacri come lui.

THE MARTIAN di RIDLEY SCOTT

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The Martian, ovvero come salvare il malcapitato Matt Damon dalle grinfie malefiche del tanto amato ed odiato pianeta rosso, vale a dire Marte. Si tratta dell’ultima fatica del grande ed immenso Ridley Scott, regista di punta del mondo hollywoodiano degli ultimi (quasi) quarant’anni, tanto amato e tanto odiato per via dei suoi immensi e stratosferici successi, dei suoi capolavori esagerati e di quel talento sopraffino capace di regalare, anche ai più duri di cuore, spaziali e struggenti emozioni che solo i giganti come lui sono in grado di donare. Non c’è da stupirsi, quindi, se un mostro sacro come Ridley Scott sia in grado di muoversi con destrezza e audacia tra un genere e l’altro in ogni suo film, mostrando tutta la sua straordinaria abilità di maestro e indiscusso profeta del cinema. E non c’è nemmeno da stupirsi che sia proprio la fantascienza il campo in cui il regista inglese abbia avuto maggior esito; campo in cui, volente o nolente, risulta più a suo agio che altrove. Con The Martian, però, ci troviamo di fronte a un’opera diversa, un’opera gaia e spensierata, priva del cinismo e della sfiducia caratteristiche delle sue esperienze passate. Siamo lontani anni luce dall’universo claustrofobico ed inquietante creato in Alien e proseguito tre decenni più tardi con Prometheus, così come siamo completamente fuori strada se pensiamo di trovarci tra le strade dalla tetra e inospitale Los Angeles del 2019 popolata dai replicanti dell’intramontabile Blade Runner. The Martian è una ventata di aria nuova e fresca che rompe i ponti con il passato e con i canoni tipici del cinema scottiano in favore di una visione decisamente più rosea e ottimistica nei confronti della specie umana.
Non è del tutto errato voler cercare a tutti i costi parallelismi con altre pellicole di fantascienza (e non) uscite di recente e appare del tutto spontaneo il tentativo di accostare l’opera di Scott ad altre grandi opere, così da trarne quante più somiglianze e differenze possibili. A lungo si è discusso e riso abbondantemente riguardo la tragica sorte spettata a diversi dei personaggi che nel corso della sua carriera il protagonista Matt Damon ha dovuto interpetare. Hollywood è sempre più convinta a volerlo salvare, ma alla fin fine da che cosa? Di certo non bisogna possedere occhi esperti per capire che questo film riunisce al suo interno, ben shakerati tra loro, elementi comuni all’Interstellar di Christopher Nolan, al Gravity di Alfonso Cuarón e al CastAway di Robert Zemeckies. Parliamo di salvezza, di istinto di sopravvivenza e di capacità di adattamento a luoghi a noi ostili. Cosa faremmo se ci trovassimo in situazioni simili? Queste belle pellicole esplorano efficacemente la condizione dell’uomo solitario abbandonato a sé stesso che non può far altro che affidarsi alle esigue risorse che possiede. Il Matt Damon di The Martian altri non è che un dottor Mann simpatico e meno stronzo, condivide la stessa sorte di naufrago in una terra deserta e inesplorata proprio come Chuck Noland ed è mosso da quel bisogno, quell’istinto di sopravvivenza che gli permetterà di salvarsi esattamente come Ryan Stone.
Così come in altri film anche Ridley Scott si cimenta nell’esplorazione e nella scoperta di una realtà che a noi rimane ancora ostile e sconosciuta. Attraverso un faticosissimo viaggio ci conduce tra le rovine di Marte mostrandoci la sua inospitale bellezza, regalandoci dei campi lunghissimi mozzafiato e straordinarie panoramiche che riproducono alla perfezione i voluminosi crateri rocciosi e le oceaniche distese di sabbia rossa. Impossibile non rimanere impietriti di fronte a uno spettacolo del genere, bellissimo e dannoso quasi come si stessero osservando vorticose onde infrangersi sugli scogli sotto ai nostri occhi. Guardando questo film si ha un po’ come la sensazione che Marte e l’universo stesso non risultino più così irraggiungibili. La tecnica non l’ha di certo persa il nostro Ridley e a 78 anni suonati dà ancora una volta dimostrazione della sua sconfinata bravura e superiorità registica che farebbero certamente morire di invidia qualsiasi mestierante di trent’anni. E senza di lui non avremmo avuto filmoni come Gravity o come l’immenso Interstellar, perchè, diciamocelo chiaro, se Cuarón e Nolan sono quelli che sono è anche un po’ merito di Ridley Scott.

Sorge però spontaneo, dopo tutto questo eterno vociferare, domandarsi se questo The Martian sia effettivamente un film riuscito o meno. Ma è proprio qui che i primi problemi vengono inevitabilmente a galla. Mi trovo combattuto ogni volta che mi appresto a dare un giudizio critico a un film di Ridley Scott dal momento che, trattandosi di uno tra i miei registi preferiti in assoluto, soffrirei nell’ammettere che il più delle volte qualcosa è andato storto e invano cercherei di salvare il salvabile, finendo per lasciarmi condizionare dalla tipica espressione “è un film suo, allora è bello”. Purtroppo non è sempre così e anche con questa ultima fatica targata Marte ho avuto le mie difficoltà a lasciarmi andare e ad essere il più possibile imparziale. Posso dire che ce l’ho fatta e ammetto che, al termine della visione dell’estremo salvataggio di Matt Damon, sono riuscito a chiarirmi le idee e a trarre le valutazioni finali su questa pellicola. Se si prendono in considerazione alcuni aspetti il film funziona alla grande, girato ovviamente molto bene e visto sul piano del mero intrattenimento risulta a dir poco efficace. Ma se pensiamo all’opera nel complesso noteremo che molti degli aspetti che la compongono fanno spiacevolmente storcere il naso.
Salvare il salvabile. Si ma, cosa salvare? Le note positive sicuramente non mancano e un plauso va indubbiamente al lavoro svolto dagli attori e in particolare al superlativo Matt Damon che è stato capace di reggere buona parte della durata del film sulle sue solide spalle. Così come non si può non elogiare tutti gli aspetti inerenti al comparto tecnico, dalla straordinaria fotografia dai toni bollenti all’efficace montaggio alternato che per alcuni sprazzi, nello specifico i momenti che vedono la Chastain elevarsi a suprema salvatrice di uomo/mondo, richiamava il già citato Interstellar. Non vanno dimenticate le incredibili scenografie, la regia pulita e precisa e, più di tutto il resto, l’incredibile sequenza del salvataggio quasi impossibile di Mark Watney nello spazio, intrisa fino al midollo di pathos e di quella energica suspense (degna solo del miglior Hitchcok) in grado di farmi rimanere incollato e palpitante alla poltrona del cinema.
Ma se le note di merito non mancano, quelle di demerito abbondano alla stragrande finendo inevitabilmente per sminuire l’economia del film. L’opera gaia e spensierata, lontana dal cinismo tipico a cui il buon Scott ci ha sempre abituati, è (ahimè) impregnata di inutili quanto irritanti dialoghi giocosi e bizzarri mediante i quali i nostri protagonisti si divertono ad occuparsi dell’apparente disagio di Mark Watney, reduce solitario di un’avventura lontana milioni di anni luce. Si perché più che dare l’idea del malessere esistenziale, giustamente avvertito in una ipotetica situazione di questo tipo, il nostro eroe sembra stare vivendo un interminabile vacanza in un luogo desolato e solitario del nostro mondo. Niente lo scuote particolarmente, al contrario sembra affrontare gli atroci avvenimenti con serenità e spensieratezza. Il sorriso a trentadue denti non gli manca mai nemmeno quando rischia di morire soffocato o quando il suo unico sostentamento vitale, e qui verrebbe da chiedersi perché proprio la patata, quasi svanisce del tutto. Watney vive questa nuova esperienza tra ingenuità e sciocche risate e sebbene sia conscio del fatto che la sua vita potrebbe terminare da un momento all’altro la cosa sembra addirittura eccitarlo. Del tutto assente l’approfondimento psicologico del protagonista, l’analisi quanto mai necessaria di una mente in stato di shock traumatizzata da un evento dalle conseguenze disastrose. Non c’è spessore, non si avvertono la paura, il timore, l’ansia e la preoccupazione né tanto meno il malessere a cui si è soggetti vivendo in condizioni simili. Le seccature principali, come si evince, sono proprio a livello di scrittura. Ridicola, scherzosa, giocosa, imbarazzante e dai toni maledettamente troppo leggeri. E l’immenso sacrificio della ciurma per salvare la vita del loro amico marziano è trattato alla stessa stregua dei peggiori film di Michal Bay, ovvero tutti. Non è ammissibile, inoltre, mischiare tra di loro momenti di ingegnosa drammaticità a scanzonati attimi di smisurata idiozia conditi in tutto e per tutto da motivi disco anni ’70 quanto mai fuori luogo. E vedere un divertito Matt Damon muoversi a ritmo di Hot Stuff mentre bello e gasato guida il suo bolide tra le distese di Marte è qualcosa che fa letteralmente accapponare la pelle. Ma in fondo è un film che mira al puro intrattenimento e non si preoccupa di questioni da cervelloni smisurati. Sarà anche così ma la delusione c’è e non è indifferente.
Cosa è successo a Ridley Scott? Sembra che da qualche anno a questa parte non riesca più a beccarne una. Apprezzabili gli sforzi di riportare in auge miti del passato ed epiche avventure bibliche ma qui siamo lontani anni luce da considerare questo The Martian un gran film. Un prodotto riuscito in parte, ben fatto e ben girato, confezionato da un regista che, nonostante le delusioni, ha fatto la storia del cinema. Ma allora dove è finito lo Scott di Alien e di Blade Runner? Che fine ha fatto quell’immane talento di un uomo in grado di trasformare le immagini in poesia? Nonostante la sua carriera stia giungendo ormai alla fine io continuo a sperare e a sognare, ma potrebbe darsi, usando il condizionale, che la sua smisurata grandezza si stia poco a poco perdendo come lacrime nella pioggia.

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