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The Martian, ovvero come salvare il malcapitato Matt Damon dalle grinfie malefiche del tanto amato ed odiato pianeta rosso, vale a dire Marte. Si tratta dell’ultima fatica del grande ed immenso Ridley Scott, regista di punta del mondo hollywoodiano degli ultimi (quasi) quarant’anni, tanto amato e tanto odiato per via dei suoi immensi e stratosferici successi, dei suoi capolavori esagerati e di quel talento sopraffino capace di regalare, anche ai più duri di cuore, spaziali e struggenti emozioni che solo i giganti come lui sono in grado di donare. Non c’è da stupirsi, quindi, se un mostro sacro come Ridley Scott sia in grado di muoversi con destrezza e audacia tra un genere e l’altro in ogni suo film, mostrando tutta la sua straordinaria abilità di maestro e indiscusso profeta del cinema. E non c’è nemmeno da stupirsi che sia proprio la fantascienza il campo in cui il regista inglese abbia avuto maggior esito; campo in cui, volente o nolente, risulta più a suo agio che altrove. Con The Martian, però, ci troviamo di fronte a un’opera diversa, un’opera gaia e spensierata, priva del cinismo e della sfiducia caratteristiche delle sue esperienze passate. Siamo lontani anni luce dall’universo claustrofobico ed inquietante creato in Alien e proseguito tre decenni più tardi con Prometheus, così come siamo completamente fuori strada se pensiamo di trovarci tra le strade dalla tetra e inospitale Los Angeles del 2019 popolata dai replicanti dell’intramontabile Blade Runner. The Martian è una ventata di aria nuova e fresca che rompe i ponti con il passato e con i canoni tipici del cinema scottiano in favore di una visione decisamente più rosea e ottimistica nei confronti della specie umana.
Non è del tutto errato voler cercare a tutti i costi parallelismi con altre pellicole di fantascienza (e non) uscite di recente e appare del tutto spontaneo il tentativo di accostare l’opera di Scott ad altre grandi opere, così da trarne quante più somiglianze e differenze possibili. A lungo si è discusso e riso abbondantemente riguardo la tragica sorte spettata a diversi dei personaggi che nel corso della sua carriera il protagonista Matt Damon ha dovuto interpetare. Hollywood è sempre più convinta a volerlo salvare, ma alla fin fine da che cosa? Di certo non bisogna possedere occhi esperti per capire che questo film riunisce al suo interno, ben shakerati tra loro, elementi comuni all’Interstellar di Christopher Nolan, al Gravity di Alfonso Cuarón e al CastAway di Robert Zemeckies. Parliamo di salvezza, di istinto di sopravvivenza e di capacità di adattamento a luoghi a noi ostili. Cosa faremmo se ci trovassimo in situazioni simili? Queste belle pellicole esplorano efficacemente la condizione dell’uomo solitario abbandonato a sé stesso che non può far altro che affidarsi alle esigue risorse che possiede. Il Matt Damon di The Martian altri non è che un dottor Mann simpatico e meno stronzo, condivide la stessa sorte di naufrago in una terra deserta e inesplorata proprio come Chuck Noland ed è mosso da quel bisogno, quell’istinto di sopravvivenza che gli permetterà di salvarsi esattamente come Ryan Stone.
Così come in altri film anche Ridley Scott si cimenta nell’esplorazione e nella scoperta di una realtà che a noi rimane ancora ostile e sconosciuta. Attraverso un faticosissimo viaggio ci conduce tra le rovine di Marte mostrandoci la sua inospitale bellezza, regalandoci dei campi lunghissimi mozzafiato e straordinarie panoramiche che riproducono alla perfezione i voluminosi crateri rocciosi e le oceaniche distese di sabbia rossa. Impossibile non rimanere impietriti di fronte a uno spettacolo del genere, bellissimo e dannoso quasi come si stessero osservando vorticose onde infrangersi sugli scogli sotto ai nostri occhi. Guardando questo film si ha un po’ come la sensazione che Marte e l’universo stesso non risultino più così irraggiungibili. La tecnica non l’ha di certo persa il nostro Ridley e a 78 anni suonati dà ancora una volta dimostrazione della sua sconfinata bravura e superiorità registica che farebbero certamente morire di invidia qualsiasi mestierante di trent’anni. E senza di lui non avremmo avuto filmoni come Gravity o come l’immenso Interstellar, perchè, diciamocelo chiaro, se Cuarón e Nolan sono quelli che sono è anche un po’ merito di Ridley Scott.

Sorge però spontaneo, dopo tutto questo eterno vociferare, domandarsi se questo The Martian sia effettivamente un film riuscito o meno. Ma è proprio qui che i primi problemi vengono inevitabilmente a galla. Mi trovo combattuto ogni volta che mi appresto a dare un giudizio critico a un film di Ridley Scott dal momento che, trattandosi di uno tra i miei registi preferiti in assoluto, soffrirei nell’ammettere che il più delle volte qualcosa è andato storto e invano cercherei di salvare il salvabile, finendo per lasciarmi condizionare dalla tipica espressione “è un film suo, allora è bello”. Purtroppo non è sempre così e anche con questa ultima fatica targata Marte ho avuto le mie difficoltà a lasciarmi andare e ad essere il più possibile imparziale. Posso dire che ce l’ho fatta e ammetto che, al termine della visione dell’estremo salvataggio di Matt Damon, sono riuscito a chiarirmi le idee e a trarre le valutazioni finali su questa pellicola. Se si prendono in considerazione alcuni aspetti il film funziona alla grande, girato ovviamente molto bene e visto sul piano del mero intrattenimento risulta a dir poco efficace. Ma se pensiamo all’opera nel complesso noteremo che molti degli aspetti che la compongono fanno spiacevolmente storcere il naso.
Salvare il salvabile. Si ma, cosa salvare? Le note positive sicuramente non mancano e un plauso va indubbiamente al lavoro svolto dagli attori e in particolare al superlativo Matt Damon che è stato capace di reggere buona parte della durata del film sulle sue solide spalle. Così come non si può non elogiare tutti gli aspetti inerenti al comparto tecnico, dalla straordinaria fotografia dai toni bollenti all’efficace montaggio alternato che per alcuni sprazzi, nello specifico i momenti che vedono la Chastain elevarsi a suprema salvatrice di uomo/mondo, richiamava il già citato Interstellar. Non vanno dimenticate le incredibili scenografie, la regia pulita e precisa e, più di tutto il resto, l’incredibile sequenza del salvataggio quasi impossibile di Mark Watney nello spazio, intrisa fino al midollo di pathos e di quella energica suspense (degna solo del miglior Hitchcok) in grado di farmi rimanere incollato e palpitante alla poltrona del cinema.
Ma se le note di merito non mancano, quelle di demerito abbondano alla stragrande finendo inevitabilmente per sminuire l’economia del film. L’opera gaia e spensierata, lontana dal cinismo tipico a cui il buon Scott ci ha sempre abituati, è (ahimè) impregnata di inutili quanto irritanti dialoghi giocosi e bizzarri mediante i quali i nostri protagonisti si divertono ad occuparsi dell’apparente disagio di Mark Watney, reduce solitario di un’avventura lontana milioni di anni luce. Si perché più che dare l’idea del malessere esistenziale, giustamente avvertito in una ipotetica situazione di questo tipo, il nostro eroe sembra stare vivendo un interminabile vacanza in un luogo desolato e solitario del nostro mondo. Niente lo scuote particolarmente, al contrario sembra affrontare gli atroci avvenimenti con serenità e spensieratezza. Il sorriso a trentadue denti non gli manca mai nemmeno quando rischia di morire soffocato o quando il suo unico sostentamento vitale, e qui verrebbe da chiedersi perché proprio la patata, quasi svanisce del tutto. Watney vive questa nuova esperienza tra ingenuità e sciocche risate e sebbene sia conscio del fatto che la sua vita potrebbe terminare da un momento all’altro la cosa sembra addirittura eccitarlo. Del tutto assente l’approfondimento psicologico del protagonista, l’analisi quanto mai necessaria di una mente in stato di shock traumatizzata da un evento dalle conseguenze disastrose. Non c’è spessore, non si avvertono la paura, il timore, l’ansia e la preoccupazione né tanto meno il malessere a cui si è soggetti vivendo in condizioni simili. Le seccature principali, come si evince, sono proprio a livello di scrittura. Ridicola, scherzosa, giocosa, imbarazzante e dai toni maledettamente troppo leggeri. E l’immenso sacrificio della ciurma per salvare la vita del loro amico marziano è trattato alla stessa stregua dei peggiori film di Michal Bay, ovvero tutti. Non è ammissibile, inoltre, mischiare tra di loro momenti di ingegnosa drammaticità a scanzonati attimi di smisurata idiozia conditi in tutto e per tutto da motivi disco anni ’70 quanto mai fuori luogo. E vedere un divertito Matt Damon muoversi a ritmo di Hot Stuff mentre bello e gasato guida il suo bolide tra le distese di Marte è qualcosa che fa letteralmente accapponare la pelle. Ma in fondo è un film che mira al puro intrattenimento e non si preoccupa di questioni da cervelloni smisurati. Sarà anche così ma la delusione c’è e non è indifferente.
Cosa è successo a Ridley Scott? Sembra che da qualche anno a questa parte non riesca più a beccarne una. Apprezzabili gli sforzi di riportare in auge miti del passato ed epiche avventure bibliche ma qui siamo lontani anni luce da considerare questo The Martian un gran film. Un prodotto riuscito in parte, ben fatto e ben girato, confezionato da un regista che, nonostante le delusioni, ha fatto la storia del cinema. Ma allora dove è finito lo Scott di Alien e di Blade Runner? Che fine ha fatto quell’immane talento di un uomo in grado di trasformare le immagini in poesia? Nonostante la sua carriera stia giungendo ormai alla fine io continuo a sperare e a sognare, ma potrebbe darsi, usando il condizionale, che la sua smisurata grandezza si stia poco a poco perdendo come lacrime nella pioggia.

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Alberto Nisi

Alberto Nisi

Bergamasco di nascita ma non di tradizioni, troppo incline al cambiamento e alla curiosità per le cose nuove. Studio lingue e ho scelto Bologna per il suo enorme potenziale, il suo fascino e le sue possibilità. Sono un assiduo lettore ma vivo per la musica e per il cinema, che sono le mie vere “malattie”. Sogno di scrivere, di suonare in pubblico o di entrare nell'entourage di un film, ma c'è ancora molta strada da fare.
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