L'UNIversiTÀ

Università

“Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.”

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Sono stata venti giorni in Sardegna, a Nuoro, sullo scavo nuragico di Tanca Manna. Ogni parola che potrei usare per descrivere questi giorni potrebbe risultare troppo melensa o poco scientifica e forse è proprio così, perché banalmente si teme di essere sempre scontati e ovvi quando si parla di un’esperienza di vita.
All’inizio non pensavo fosse così… bello: vedevo tutti così esperti, così bravi, mentre io mi sentivo un’imbranata totale. Tira il piano, vai di trowel anzi no, usa il piccone perché si passa ad un altro strato; pulisci con la scopa, raccogli terra con la sessola, sta’ attenta a non confondere i frammenti di ceramica con le pietre, non ne parliamo dei reperti! Scrivici il numero sul sacchettino, il tuo settore, la tua unità stratigrafica e il quadrato….Si, ma il nord? Qual è il nord? Ah, quello lì. All’inizio ti sembra di non riuscire a sopportare la fatica fisica, le ginocchia a fine giornata ti fanno male, ogni tanto un polso decide di non collaborare. Si arriva stanchi alla sera e magari c’è da sistemare un fotopiano, da inserire i frammenti conteggiati in un database. Le giornate non finiscono mai, ti porti il lavoro a casa e magari pensi al giorno dopo, quando la sveglia suona sempre puntuale la mattina presto, mentre tu la sera tardi sei ancora lì davanti ad un pc. Eppure quelle ore interminabili sono le più fruttuose.
C’è una sensazione che provi. Una sensazione, quella giusta, quella che ti fa capire che il tuo posto è proprio quello. Che non hai bisogno di vagare ancora perché tutto (la fatica, la terra tra le mani, le ore sullo scavo scandite da una campana in lontananza, che sembrano non passare mai, e quelle della pausa che invece volano) ti viene ripagato. È un senso di appagamento, di soddisfazione, di completezza. Ti senti colmo di tutto ciò che vedi, che impari anche solo sentendo parlare gli altri. Fisico e mente collaborano insieme, nessun elemento è improduttivo, si impara a prestare attenzione ai più piccoli dettagli, alla composizione del terreno così come all’impasto di ceramica di una teglia o un tegame.
Il lavoro dell’archeologo è di una sensibilità particolare: non ci si può permettere di non avere cura per ciò che si riporta indietro dal passato. Non ci si può permettere di non rispettare ciò che il terreno ci dice, se si vuole aggiungere, di volta in volta, un piccolo pezzo ad un grande puzzle, che è quello della conoscenza e della consapevolezza delle tracce della storia, delle abitudini, delle vite della gente che ha vissuto in quei posti poi diventati siti di ricerca.
Un altro fattore importante che gioca un ruolo decisivo durante il tuo scavo, è quello umano. Sembra facile: in realtà, condividere una casa con dodici persone diverse, con le loro abitudini, i loro pregi, difetti, sogni e caratteri è qualcosa di difficile se non hai pazienza o spirito di adattamento. Ognuno di noi ha imparato, piano piano, a conoscere quello che c’è appena dopo il primo strato, la facciata, l’impressione iniziale. Condividere tutto ti insegna davvero cosa significhi non solo il rispetto per l’altro, ma prima di tutto il rispetto verso te stesso. È un po’ la solita storia del “non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”, il che implica accortezza in ogni decisione o azione. Non si è mai soli, è vero, ma forse si è soprattutto soli quando si prendono delle decisioni che devono riguardare anche gli altri, che magari hanno poca o nessuna esperienza e non sanno come districarsi tra le cose.
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Essere responsabili nel lavoro e nella vita è il più grande insegnamento, e forse l’unico decisivo, per diventare delle persone che affrontano ogni situazione, problema, investimento su se stessi in modo maturo, senza perdersi troppo nei fronzoli inutili che rallentano il ritmo e ci rendono pigri di fronte alle decisioni o alle scelte. Ecco. Io non saprei esprimere con altre parole quest’esperienza. Oppure sì: quando trovi la tua strada, non hai più bisogno di sentirti qualcuno per forza, perché pretendi che la tua intelligenza o bravura ti siano riconosciute in modo plateale quanto egocentrico. Semplicemente, tu cammini sicuro del tuo percorso, forte del fatto che i sassi lungo la via dovrai togliergli da solo, ma sicuro che ogni ostacolo superato ti avvicina alla meta, che non sarà mai troppo vicina; quando ami ciò che fai e ciò che vuoi davvero, non esistono arrivi ma solo percorsi, spazi che si ampliano sempre più e non si riempiono mai abbastanza, quando ti chiedi spesso il perché ma soprattutto ti dai le risposte giuste. È come dice De Andrè: per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

DA OGGI “CICU” APERTO FINO A MEZZANOTTE: DIVENTEREMO UN PO’ TUTTI COME CENERENTOLA?

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“Una biblioteca era per me un ducato grande abbastanza”, così Shakespeare descriveva l’incanto scaturito alla vista del tempio dei libri per eccellenza. Effettivamente, per i lettori accaniti le biblioteche sono luoghi dai quali non si vorrebbe mai uscire, perché spesso accade di rimanere impigliati tra le righe di un libro e doverlo abbandonare tra gli scaffali all’orario di chiusura è triste quanto un arrivederci prima di una partenza.
In particolare per gli studenti bolognesi una biblioteca come quella del dipartimento di scienze giuridiche “Cicu” è una seconda casa, un’aula studio dove condividere con altri colleghi informazioni, appunti, consigli ma anche risate durante le pause, disperazione in sessione invernale/estiva e sollievo dopo un esame. Unico nemico dei “Cicuniani” fino a poco tempo fa era solo l’orario di chiusura: le ore 20:00.
Importante sottolineare le parole fino a poco tempo fa perché da oggi il Cicu resterà aperto fino a mezzanotte dal lunedì al venerdì, mantenendo anche l’orario del sabato.
La tanto attesa apertura in fascia serale sarà inaugurata alle ore 19:30 dal Rettore dell’Università Francesco Ubertini, dall’Assessore alla Cultura Bruna Gambarelli e dalla Presidente della Fondazione dal Monte Giusella Finocchiaro, fondazione che a breve estenderà l’apertura serale anche alla sala studio di Palazzo Paleotti e alla biblioteca di Discipline Umanistiche, tutti poli della zona universitaria bolognese.
Tutto questo è stato realizzato anche grazie ai rappresentanti di Sinistra Universitaria che hanno sostenuto varie proposte per migliorare la situazione dell’utenza studentesca e della zona universitaria.
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Fondamentale anche ricordare che da giovedì 29 settembre sarà possibile studiare nella nuova e candida aula studio Caputo, al piano terra della biblioteca Cicu.
Più posti per studiare, un orario prolungato ed una zona universitaria più sicura anche di sera sono un’ottima scusa per prendere la buona abitudine di uscire dall’aula studio quando le stelle saranno già alte nel cielo. Buono studio a tutti i futuri notturni!

Riti prima degli esami

C’è una linea di demarcazione che divide la scaramanzia dal disturbo ossessivo compulsivo. Quando sei in procinto di sostenere un esame universitario, però, quella linea diventa estremamente sottile non facendoti più capire in quale parte ti trovi.
Tutto ha inizio a ridosso dell’esame, quando cominci a seguire alcuni schemi che nel precedente appello avevano portato fortuna; e così, nella tua mente, pensi: “Beh, perché cambiare? Riproviamo!”.
E quindi la sera prima, carico di stress, ti ritrovi ad ordinare la stessa identica pizza dell’ultima volta, mettendo in scena un alquanto improbabile correlazione tra mozzarella di bufala, pomodorini e microeconomia.
Preso dal panico poi ti ricordi che quando la sera prima dell’ultimo esame avevi pulito la camera avevi portato a casa un bel 30; allora senza pensarci su due volte ti metti i guanti di gomma, tiri fuori il secchio dallo sgabuzzino e tiri a lucido la tua stanza così bene che se la vedesse tua madre richiederebbe una perizia psichiatrica.
Tutti gli studenti conoscono la leggenda del “non studiare o ripassare o il giorno prima dell’appello”, insomma lasciar riposare la mente. C’è chi ci crede fermamente e chi, in quell’ultimo giorno, cerca di stampare nella sua mente oltre 1000 pagine conscio del fatto che ricordarsi tutto sarebbe impossibile persino per Dustin Hoffman in Rain man.

Studente universitario che dá un ultimo sguardo agli appunti
Studente universitario che dá un ultimo sguardo agli appunti

Poi arriva la mattina dell’esame: ti svegli presto, vai a fare colazione e inizi a prepararti, il tutto sempre con gli appunti tra le mani; se da piccolo dormivi con il peluche, quando diventi uno studente universitario dormi abbracciando gli appunti.
Non appena arriva il momento di vestirsi la scelta diventa cruciale e, guardando i vestiti appesi nell’armadio, non vedi più i colori o il tipo di capo d’abbigliamento, ma solo il voto che hai preso quando l’hai indossato ad un esame.
Dopo aver fatto un’attenta media ponderata e un rapido calcolo delle probabilità degno del miglior John Nash in A Beautiful Mind, sei ufficialmente pronto per andare all’esame.
Studente universitario che calcola quale vestito ha la media più alta
Studente universitario che calcola quale vestito ha la media più alta

Tutto in discesa adesso? Neanche per scherzo! Già, perché la strada che hai preso l’altra volta per arrivare in facoltà ti ha portato dritto dritto verso un voto alto quindi, perché cambiarla? Allora ripercorri la stessa strada con una precisione tale che a fine esame, a prescindere da come sarà andato, verrai assunto da Google Maps.
Poi se l’esame è scritto ovviamente è immancabile la scelta della penna. C’è chi ha la sua preferita come Paolo Bitta e la sua quattrocolori e chi, invece, la cambia sempre.
Una volta finito l’esame sei provato fisicamente e psicologicamente.
E se non ha funzionato? Beh, si cambia: pizza, felpa, penna, strada e tutte le solite abitudini semplicemente per crearne delle nuove. Funzionerà?

La mafia uccide solo d’estate

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Primo appuntamento con il ciclo “Alla luce del sole”, cineforum organizzato dalla Sinistra Universitaria sul delicato tema delle mafie in Italia. La rassegna si apre con il film La mafia uccide solo d’estate, sorprendente rivelazione del conduttore televisivo Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto. La proiezione è stata introdotta dal prof. Davide Bertaccini, docente di Diritto Penitenziario presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Alma Mater.
Dopo decenni di mancanze, Pif riesuma il cinema di denuncia e di impegno sociale degli anni addietro, analizzando, attraverso un’ottica più ingenua e moderata, l’annosa questione che tiene vincolata l’Italia, ed in particolare la Sicilia, ad uno dei suoi maggiori problemi. Pif racconta la Mafia in maniera pacata e ironica, adottando un registro che si discosta pesantemente dal classico filone da film di denuncia per virare su uno stile più improntato alla commedia. Stile che, come ha giustamente affermato il prof. Bertaccini, ricorda molto La vita è bella di Roberto Benigni, pellicola memorabile che riuscì nell’intento di parlare dei campi di concentramento nazisti in maniera più leggera.
Cos’è la mafia? Diliberto risponde a tale domanda narrando in prima persona la storia della vita di Arturo – suo alter ego – un bambino palermitano figlio di una modesta famiglia che si innamora inaspettatamente di Flora, sua compagna di classe. La quotidianità di Arturo è ripetutamente scossa da violenze e ingiustizie che ogni giorno si riversano sulla città e i suoi cittadini. Con occhio vigile e attento Pif racconta la sua vita, i suoi amori proibiti, la passione per il giornalismo e la realtà difficile e ostile di vivere in un paese affetto da un male (in)curabile. Una trama semplice e convenzionale infarcita di alcuni personaggi fin troppo squadrati e poco originali, il padre di Arturo e l’amico giornalista, e da alcune situazione per le quali è possibile prevedere la sorte, la scalogna del protagonista, ma che di certo non vira alla spettacolarizzazione dei suoi contenuti, bensì alla riflessione. Armato di sorrisi e momenti di ilarità Pif tenta di sconfiggere le paure e l’indifferenza che affliggono il suo Paese, offrendo una visione rosea e positiva della vita piuttosto che una rappresentazione schietta e demoralizzante della realtà.
Non un grande attore ma sicuramente un grande narratore capace di addentrarsi nei meandri del tema della mafia – che conosce molto bene – riuscendo sapientemente a farne emergere i contenuti più importanti, nonostante nel film costituiscano la sotto trama scenica, che accompagna la storia d’amore di Arturo e Flora.
Nella bellissima e struggente scena finale Diliberto esprime tutta la sua speranza trasmettendo alle generazioni future, il figlio, la necessità di mantenere vivo il ricordo di quelle grandi persone che hanno dato la vita affinché l’Italia lottasse contro l’oppressione del sistema mafioso. Arturo non tiene celata al figlio la verità, ma gliene parla con consapevolezza e buon senso così da prepararlo perché la riconosca assieme alle giuste cause per le quali nella vita vale la pena lottare.
Un film speranzoso ed estremamente positivo che insegna a rincorrere i propri sogni e a fronteggiare qualsiasi problema con amorevoli sorrisi e buon umore, le uniche armi in grado di contrastare anche il peggiore dei mali, complimenti Pif.

RIFLESSIONI DI UNA SETTIMANA ANTIMAFIA

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Una settimana impegnativa per l’Antimafia bolognese e nazionale, ma non solo: una settimana impegnativa per tutta la società civile. All’indomani della presentazione in prima serata del libro di Salvo Riina sulla vita di suo padre, la Scuola di Giurisprudenza di Bologna inaugura la seconda parte seminariale del corso di Mafie e Antimafia tenuto dalla Prof.ssa Pellegrini , in cui il primo ospite l’illustre è stato Don Luigi Ciotti. Si è parlato e si continua a parlare dell’inopportunità con la quale un servizio pubblico come la RAI abbia permesso di dare spazio a questo imbarazzante tentativo di umanizzare la figura di uno stragista, un criminale, Totò Riina, che, compiaciuto, osservava snodarsi le stragi come da lui pianificate. L’altra sera è stata fatta pubblicità alla sua carriera criminale per lui comoda, per noi indelicata. Compiaciuti però non sono affatto i parenti delle vittime innocenti di mafie, che, anzi, solo grazie all’immenso lavoro di Don Luigi Ciotti e Libera hanno avuto un vero riconoscimento, una vera memoria: i loro nomi ogni anno sono scanditi a gran voce nelle piazze d’Italia, perché possano essere ricordati e perché possano risuonare nelle coscienze malate di chi considera l’intimidazione un’arma di potere e successo. “Etica, primo argine contro l’illegalità e nutrimento per la legalità”- queste le parole di Don Ciotti, agli studenti, a noi studenti, sul significato dei valori profondi che dovrebbero caratterizzare le figure professionali del domani: “non parliamo di etica delle professioni, ma di etica come professione”. Un discorso carico di pathos, carico di voglia di continuare a lottare, nonostante tutto. Una voglia di lotta che Don Ciotti ha trasmesso a tutti noi studenti, una voglia di lavorare affinchè il nostro Paese riconquisti credibilità a partire dalle Istituzioni. “Le mafie non sono un mondo a parte, ma parte del nostro mondo”- prosegue: ritenere i soprusi mafiosi come eventi lontani dalla nostra quotidianità è quanto di più errato si possa pensare, e per quanto possa essere difficile ammettere che anche in determinati contesti sociali del nord Italia la presenza delle mafie sia sempre più preponderante, dobbiamo trovare il coraggio e la forza di denuciarne l’esistenza.
C’è una mafiosità diffusa che è il vero patrimonio delle mafie”- aggiunge Don Ciotti, una mafiosità che consente alla criminalità di fare affari in tutto il nord in un sistema di commistione inquietante tra economie legali e illegali: “non stanno solo cercando di riciclare i soldi al nord, ma stanno cercando di conquistarlo”, questo riporta il Prof. Nando Dalla Chiesa, anche lui ospite nell’ambito dell’attività seminariale.
I luoghi di incontro di questi soggetti non sono lussuose suites di grattacieli milanesi, ma sono bar, ristoranti, al piano terra, perché “la ‘ndrangheta si muove dal basso”, e giova di quella mafiosità diffusa, terreno fertile per affari e relazioni. Nel milanese, uno studio condotto sulle uscite dei Vigili del Fuoco per incendi dolosi ha portato alla quantificazione di un incendio ogni due giorni: l’incendio, simbolo del linguaggio mafioso intimidatorio per eccellenza, affermazione di potere e controllo del territorio: “l’incendio è la falange con cui l’impresa mafiosa avanza” sostiene Dalla Chiesa, ma chi ne parla? Perché non riusciamo a collegare gli eventi di cronaca? O perché non ce lo consentono?
Di qui la grande responsabilità della stampa per riaffermare quel tipo di informazione che Enzo Biagi sognava così: “Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ‘vendicatore‘ capace di riparare torti e ingiustizie, ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo.
Il nostro mondo ha bisogno di vendicatori, ha bisogno di persone che non si spaventano e non si lasciano intimidire, perché la paura è l’arma di manipolazione più efficace e ci rende piccoli, deboli. Non possiamo più permettere che la nostra economia sia erosa dall’interno, affetta da parassitismo criminale: urge la concreta necessità di rinvigorire il concetto di bene comune, di solidarietà e di legalità. Ci fanno credere che il problema siamo noi, che siamo troppi per avere diritto a un lavoro giusto per noi e per la società, che non abbiamo possibilità di ospitare quei rifugiati che facciamo morire fuori le frontiere per il nostro egoismo, ci fanno credere che la mafia sia in qualche stanza nascosta, ci fanno credere che tutto sia sotto controllo, mentre l’ombra delle “terre dei fuochi” si abbatte prepotente e mentre gli affari delle mafie su cemento, lavori pubblici, ristoranti, pizzerie, alberghi, turismo proseguono a gonfie vele; ci fanno credere che i problemi siano altrove, al di fuori della nostra coscienza, ma è proprio lì che sono, all’interno di noi stessi.
Bisogna prendere posizioni nette, se vogliamo un mondo migliore, non perfetto, ma migliore: non possiamo demandare continuamente responsabilità ad altri, partiamo da noi stessi, miglioriamo noi, sdegniamo piccoli favoritismi, non sottomettiamoci al crimine organizzato, parliamo a gran voce di ciò che non ci va bene: “la democrazia si fonda su due doni: giustizia e dignità, ma ha bisogno di stare in piedi con l’impegno”.

Imporre la legalità, educare alla legalità: l’Alma Mater e il dibattito sulle ronde

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È stato vivace il dibattito in Senato accademico la mattina del 15 marzo, quando è stata sollevata la problematica della sicurezza all’interno della zona universitaria, o meglio, di come la questione è stata affrontata dall’Ateneo di Bologna. Domenica 6 marzo 2016, un articolo del Corriere della Sera riportava una notizia destinata a fare scalpore: l’Università di Bologna finanzia delle ronde armate nella zona universitaria, per salvaguardare la sicurezza del personale che ogni giorno lavora all’interno della più antica università del mondo occidentale (curioso come il Corriere parli solo dei lavoratori dell’università, senza ricordarsi del fatto che la stragrande maggioranza della popolazione dell’Alma Mater è composta da non lavoratori, ossia da studenti). Il rettore fin da subito ha difeso la sua scelta, affermando che non è giusto qualificare il servizio come ronda, ma piuttosto si dovrebbe parlare di guardiania. Un tipo di precauzione già attiva, in diversi palazzi dell’Ateneo, fra i quali il plesso di via Belmeloro, che ospita buona parte della popolazione studentesca della Scuola di Giurisprudenza, tanto da essere definita dal rettore stesso come una misura di ordinaria amministrazione.
Le voci critiche hanno fatto, giustamente, notare come la guardiania non abbia niente a che vedere con il provvedimento messo in campo da Unibo: le nuove guardie, infatti, non si limitano a presidiare gli edifici, ma pattugliano le strade di via Zamboni. D’altro canto, per quanto riguarda la palazzina di Belmeloro, il servizio si limita al cortile stesso dell’edificio, senza sconfinare sulla pubblica via o sulla pubblica piazza.
Il fatto che le nuove sentinelle dell’Alma Mater siano uomini armati è un controsenso evidente, dato che per legge non possono intervenire direttamente, ma devono limitarsi a segnalare certe situazioni alle forze dell’ordine.
E’ dei giorni scorsi la notizia che alcuni ragazzi dei collettivi che orbitano attorno alla Scuola di Lettere si siano, di fatto, scontrati con alcuni vigilantes, con tanto di lancio di uova e fortissimo clamore mediatico: di certo, il provvedimento non ha aiutato a distendere un clima già teso, per via di altre vicende tristemente note (leggasi, vicenda Panebianco) che non staremo qui ad affrontare, e sulle quali si potrebbero spendere fiumi di inchiostro.
Fatto sta che il messaggio passato con questo provvedimento non è accettabile, anche per il modo in cui la questione è stata posta dagli stessi giornali: leggere il nome della nostra università, associato ad una parola come ronde, è una pessima pubblicità per un Ateneo che dovrebbe avere fra i suoi principali obiettivi quello di garantire una didattica al passo coi tempi ed una ricerca di qualità.
Le ronde universitarie rappresentano il fallimento di un sistema d’istruzione che deve, in primis, educare alla legalità, non imporre la legalità. Sia ben chiaro: non è possibile negare l’esistenza di un problema di sicurezza all’interno della zona universitaria. Le criticità del quartiere sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, non deve essere l’università a fornire una soluzione al problema. Ci sono soggetti realmente competenti a garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, ossia le forze dell’ordine, le uniche titolate ad intervenire.
Il provvedimento, ad onor del vero, è stato adottato in via sperimentale: il periodo di prova andrà avanti per tre mesi, dopodichè si valuterà se dargli una prosecuzione o meno. Non ci resta che sperare in un ripensamento, o per lo meno in una rimodulazione del servizio: perchè quelle pistole inutili, nella zona uniersitaria, non le vogliamo proprio vedere.

Erasmus feelings

Rotterdam, accanto ponte Erasmus - foto di Gabriele Morrone
Rotterdam, accanto ponte Erasmus – foto di Gabriele Morrone

Due mesi.
Ecco quanto tempo è passato da quando ho lasciato Bologna. Ecco da quanto tempo dormo a 1400 km dalle due torri.
Non vorrei raccontare nulla, l’Erasmus è un’esperienza che va vissuta, sperimentata e declinata in tutte le sue sfaccettature. Dalle serate con musica tamarra olandese alle biciclettate alle quattro di notte, l’Erasmus ti regala contemporaneamente gioia e inquietudine.
Gioia che deriva dal sentirsi parte di una grande comunità, in grado di conoscere centinaia di persone provenienti dagli angoli più sperduti della terra, gioia derivante da una spensieratezza mentale che solo questa condizione sa creare e, nel mio caso, é quella delle piccole abitudini che costruisci quando condividi cucina, bagno e soggiorno con 15 persone.
L’inquietudine è invece figlia di una delle sensazioni più umane: quella di non fare/scoprire abbastanza. Sembrerà strano ma senti sempre che potresti fare di più, vedere di più, conoscere più persone, più culture, più parole. E ti trovi a progettare il prossimo viaggio, la prossima festa, la prossima birra non appena finisci la precedente. Non sei mai sazio di stampare biglietti ferroviari, controllare i prezzi su Airbnb o su Flixbus.
I giorni passano velocemente, in un valzer di ormoni, risate e pranzi improvvisati. Gioia e inquietudine si alternano in modo incessante, mentre scambi parole in un precario inglese con tutti quelli che ti circondano e che sai che stanno vivendo le stesse identiche emozioni solamente codificate in un’altra lingua, con altre parole o inflessioni.
Impari a pronunciare il motto austriaco contro i tedeschi, le volgarità in spagnolo o le particolarità in francese.
Impari che, nonostante tu chieda di non farlo, il coinquilino da Hong Kong ti aspetterà comunque con la luce accesa fino alle cinque di mattina in virtù di un esagerato rispetto.
Impari a compatire l’amico australiano che ancora non ha cambiato l’orologio e che incontri in cucina con una pizza all’ananas alle 7 di mattina.
Tutto sembra inglobato in una normalità che cominci a sentire anche tu, ma che si squarcia nel momento in cui pensi a dove sei, alla distanza dai tuoi cari, circondato da persone che della tua lingua conoscono solamente “pizza” e “pasta”. In quei momenti rivaluti tutto, senti di non appartenere a quel mondo, ma di farne parte in quel preciso momento, come chiunque altro attorno a te.
Non stai fingendo, sei solo consapevole che la tua parte da studente Erasmus è quella. Niente più, niente meno. Stai vivendo in una bolla create da condizioni che non si ripeteranno più. Magari vivrai esperienze simili ma non in questa forma, con questa intensità.
Ovviamente esiste anche la parte accademica, lezioni, meeting, tutorial e senti di essere in un altro mondo, lontano dalle aule della vecchia Unibo. Qui sperimenti nuovi metodi (nel mio caso il PBL, pochissime lezioni frontali, grandi discussioni sui temi più importanti in gruppi di massimo 15 persone).
E impari a convivere con l’ossessione olandese per i numeri: li trovi in ogni stanza, dagli sgabuzzini ai bagni, dai computer ai tavolini per il pranzo in biblioteca.
Apprezzi tutto, sei pronto a tutto, consapevole che prima o poi finirà. Ma che al tuo ritorno sarai cambiato, ne migliore ne peggiore. Solamente diverso.

Erasmus a Tournai: cultura e divertimento sul lungofiume dell’Escaut

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Perché hai scelto Tournai per l’Erasmus? È la domanda ricorrente ogni volta mi capiti di raccontare della mia esperienza. Infatti Doormik, rinominata così dai fiamminghi, residenti nell’area più a nord est del territorio, non è proprio quella che si direbbe una grande metropoli e non è neppure nella cerchia della 4 città più conosciute della zona belga-francofona, tra cui si trovano Louvain, Liege, Mons e Charleroi, importante scalo per chi arriva dall’estero. Eppure a distanza di 3 anni dalla fine del mio viaggio, sono convinta che la mia scelta sia stata azzeccata, non solo perché ho scelto l’università più adatta per il mio percorso, ma anche perché Tournai, una piccola e caratteristica cittadina attraversata dal fiume dell’Escaut, che la divide due parti, si è rivelata una come una realtà tutto da scoprire.

A Tournai, a soli 9 km dal confine francese e da Lille, vivono poco più di 140.000 persone e, sebbene la maggior parte degli abitanti siano belga, non è difficile ritrovarsi a chiacchierare in uno dei tanti piccoli pub sul lungo fiume con qualche francese, anche se riconoscerli per uno straniero è quasi impossibile. L’accent è ancora tra le parole che mi faranno sentire ignorante davanti ad un francese o belga. L’aria di convivialità, allegria, spensieratezza che si respira in Vallonia, è invece una delle motivazioni che mi hanno convinta sempre di più sulla mia destinazione, scelta per questo motivo anche da tanti francesi.
L’altra è l’educazione. A Tournai ci si può formare in diversi ambiti grazie alle università dislocate al centro e nella periferia della città: dall’architettura alle arti (grafica, fumetto etc.) e infine alla comunicazione e l’infermieristica. Questi due ultimi settori di studio vengono approfonditi nella Haute Ecole, un’università a tutti gli effetti ma con l’approccio tipico delle scuole superiori per l’impegno richiesto agli studenti durante il percorso e l’impostazione pratica messa da parte da alcune delle nostre università: alla HelHa, infatti, la valutazione è determinata dalla bravura nella progettualità dello studente stesso, piuttosto che dalla ripetizione mnemonica dei concetti.
Frequentare questa scuola ha richiesto un buon livello di conoscenza della lingua francese non solo dal punto di vista orale ma anche scritto. Tuttavia le nozioni apprese si sono rivelate utili nei miei studi successivi per la magistrale in Comunicazione pubblica e d’impresa: nel corso dell’Erasmus, ho infatti sperimentato l’approccio belga nella redazione di un articolo, l’elaborazione di un intervista, la successiva limatura del materiale audio e video e la messa in onda on air delle informazioni raccolte, così come mi sono messa alla prova nel corso di animazione socio culturale e ho imparato le nozioni base di relazioni pubbliche e psicologia generale. Tutto ciò contornato da persone nuove conosciute all’Università o nel mio tempo libero e, come me, aperte al dialogo, alla conoscenza e, si sa, anche al divertimento.
Vivere a Tournai non è stato per niente monotono: qui ho incontrato presto un gruppo di amici con cui andare al cinema per vedere film in lingua francese e ho avuto l’occasione di esplorare i monumenti architettonici che hanno conquistato il titolo di “patrimonio Unesco”. Primo tra i due, le beffroi, la torre civica che, ultimata a Tournai nel 1188 è anche la più antica di tutto il Belgio. Nel 2000, invece, l’Unesco ha deciso di valorizzare la Cathédrale de Notre Dame, attualmente in restaurazione a seguito di un tornado che ha colpito la città nel 1999, abbattendosi pesantemente sulle sue architetture.
Iniziato il tirocinio presso l’ufficio turistico della città, mi sono dedicata alla visita dei musei, tra cui le musée des Beaux Arts e le musée d’histoire naturelle, e delle chiese, la più conosciuta l’église Saint-Jacques. Questo è stato il momento più proficuo dell’esperienza sia per conoscere meglio la città e i suoi lati nascosti, sia per approfondire la lingua in un contesto professionale presso un ente pubblico, che riceve solo pochi tirocinanti. Per ultimo ma non per importanza, nelle mie ore di stage ho avuto modo di scoprire le tradizioni folkloriste e la grande attenzione dei tournesiennes per la musica.

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In Erasmus non sono mancate le feste, necessario momento di condivisione, euforia e spensieratezza: ultima tra quelle cui ho partecipato, il Carnevale di Tournai. Questo grande evento che, di anno in anno, coinvolge sempre più persone, si svolge solitamente due settimane dopo il tradizionale carnevale e, fondato nel 1981, è caratterizzato da un tema che tutti i presenti seguono per decidere il costume da indossare. I festeggiamenti durano 3 giorni, di cui il primo è pensato come la vigilia del carnevale e viene chiamato Notte degli Intrighi; il sabato, invece, è caratterizzato di particolari tipi di panini dal Beffroi e dalla sfilata dei carri che termina con il rogo del Re; infine, la domenica è dedicata a “Le tour de café”, da parte delle confraternite. Quest’anno Tournai festeggia il suo Carnevale il 5-6 marzo sul filone portante “En vers & Contre Tout, che darà largo spazio all’immaginazione di chi parteciperà e rimarrà probabilmente tra i ricordi degli Erasmus che avranno l’occasione di viverlo in prima persona.
Questi ultimi si accorgeranno di quanto l’Erasmus gli abbia lasciato, anno dopo anno, mentre parlano con un compagno di corso o nel corso di un colloquio per un’azienda che vuole espandersi all’estero. Qualunque sia stata o sarà la vostra destinazione, l’Erasmus vi darà un occhio sul mondo e vi riporterà alla realtà come un boomerang, ma allo stesso tempo le competenze acquisite anche inconsapevolmente nel corso della vostra esperienza riemergeranno ogni qualvolta ne avrete bisogno.

Il ritorno del fuorisede – Christmas holiday edition

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Metti le ultime cose in valigia, le stringi dentro a fatica perché con tutte le provviste che ci hai messo ormai non ci stanno più neanche i sentimenti. Dai un ultimo sguardo alla tua stanza per vedere se hai preso tutto. Gli dai un ultimo sguardo perché come al solito il biglietto è di sola andata e non sai quando tornerai.
Guardi le vecchie foto appese al muro e pensi a quanto le cose siano cambiate, a quanto, senza accorgertene, sei diventato grande.
Imbracci la valigia, saluti mentalmente la casa, un bacio ai genitori e parti: una routine nostalgica che ti riporta nella città degli studi.
Il controesodo degli studenti fuori sede si divide in due tipi ben distinti, nessuno dei quali prevede che si studi durante le vacanze.
Se sei estremamente fortunato e non hai appelli ai primi di gennaio riesci a rimanere un po’ di più convincendo te e chi ti sta intorno che tanto anche durante le vacanze riuscirai a studiare. Gli amici fanno finta di crederti perché sono nella stessa situazione, i parenti come minimo ci sperano. La realtà è che con tutta probabilità i libri non usciranno neanche dalla valigia, ma il lato positivo è che mentre la prepari non devi fare fatica a rimetterli.
Nel secondo tipo non sei fortunato e il tuo professore ti ha fissato un appello il giorno dopo l’epifania; in questo caso parti il 2 o il 3 di gennaio con il viso ancora sporco di zucchero a velo e con la capacità di intendere e di volere di Maurizio Gasparri.
Prima di partire ovviamente cerchi di incontrare tutti gli amici per salutarli e il piccolo aperitivo che hai organizzato con due birre e un po’ di patatine si trasforma in una cafonata stile cinepanettone in cui il più sobrio ha il savoir faire di Gianluca Grignani.
Qui capisci quanto ti mancheranno l’aria di casa e gli amici di sempre, che vedi poco ma che con un paio di parole ti fanno sempre capire di essere lì con te.
Il momento di tornare poi arriva davvero e poco importa se quando sei arrivato lo vedevi lontano, una mattina ti svegli e scopri che lo scherzo è finito, devi ripartire.
Durante il viaggio ti passa nella mente l’intera compilation di cibo che hai mangiato durante le vacanze e in te si fa strada la drammatica consapevolezza che per mangiare di nuovo così bene dovrai aspettare un bel po’, a meno che non organizzino una puntata di Masterchef nella cucina di casa tua.
Ma soprattutto per la mente ti passa ogni singolo momento passato con i parenti e con gli amici; le risate, le cazzate, le sbronze e quella sana voglia di non voler crescere mai pur consapevoli di essere già cresciuti.
Allora premi il tasto pausa nella vita di casa sperando che tutto rimanga com’è, preparandoti a premere il tasto che fa partire quella musica chiamata vita da fuori sede e che, diciamocelo, ti fa ballare tanto. Allora metti le cuffie nelle orecchie, chiudi un po’ gli occhi e premi il tasto play.
“Casa è quel luogo che i nostri piedi possono lasciare, ma non i nostri cuori.” Oliver Wendell Holmes

Le ferie del fuorisede

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Per il fuorisede che ritorna a casa
In treno, in aereo, in autobus o in macchina il fuorisede prima o poi, in modo gioioso o malinconico deve tornare a casa.
Non nella casa in terra straniera per la quale paga esosi affitti e che ha addobbato seguendo un dubbio gusto nel campo del design ma a Casa.
La casa che lo ha visto crescere, la casa delle delusioni amorose liceali, quella in cui sa che ad aspettarlo ci sono parenti, amici e genitori.
Durante questa mistica transumanza il fuorisede fantastica sulle prelibatezze culinarie che lo attendono, pregusta il recupero delle numerose ore di sonno perse durante i recenti periodi di studio o più semplicemente sente avvicinarsi la presenza materna apportatrice di magici rifacimenti di letti o piegamenti di vestiti.
Il culmine della contentezza viene raggiunto all’arrivo, ad attendere il figlioletto che vive lontano sono presenti parenti lontani e vicini, nonni e cugini che passavano per caso da li.
Ed eccolo lì, spuntare come un eroe che torna dal fronte, il fuorisede comincia a salutare le due trecento persone accorse per l’evento con il fare sbarazzino di chi si è emancipato perché cittadino di una città più grande e moderna (nel suo cuore rimpiange il piccolo paesino di provenienza ma mai e poi mai lo ammetterà).
Il resto è storia, finita la mezzora di saluti e baci si viaggia come in una millenaria processione verso casa, la valigia la prende il papà, non perché il figlio sia stanco dal viaggio ma perché ritenuto stanco per la vita fredda e grama lontana dal nido familiare.
E la mamma? Questa figura mitologica metà dietologa metà balia? La madre si commuove, non per il ritorno del figlio ma per lo stato in cui lo trova. Il figlio è magro. Non si discute. Nonostante abbia preso 20 kg per via dell’alimentazione tutta kebab e pizzaBo. Il figlio è magro e pallido per dogma.
La madre vive questa condizione come una sconfitta esistenziale, una messa in discussione delle proprie capacità genitoriali inficiate dalla distanza dal pargoletto deperito.
In quanto bambino del terzo mondo di 80/100 kg il fuorisede va fatto mangiare, e per farlo la madre ha già preparato prima d’andare a prenderlo una cena che oscilla tra le 3000 e le 4000 calorie a portata, corredata di cibi sconosciuti alla convenzione di Ginevra a grandezza Giuliano Ferrara.
E il nostro fuorisede come reagisce al tutto? All’inizio è in paradiso, abituato alla freddezza dei troll che lo circondavano che si ostinava a chiamare coinquilini il fuorisede è commosso da questa esplosione di calore umano tale da fare invidia all’Etna. Si gode quella serata, ignaro di come quell’apprensione sconosciuta in terra straniera cambierà effetto sul proprio io.
Il cambiamento comincia dal giorno dopo, precisamente la mattina, la mitica figura centrale del nostro racconto si sveglia con fare rilassato alle ore 13:40 trovando un altro immenso pranzo preparato per le sue adesso meno fameliche fauci, ma tale calo dell’appetito (dovuto alla sontuosa cena della sera prima) non viene ritenuto possibile dalla madre che in virtù del dogma sopra citato inizia a vedere vestiti sempre più larghi e corpi sempre più deperiti. È l’inizio della fine, alimenti che vengono nascosti e spacciati per deglutiti solo per non essere calati a forza nello stomaco del povero studente che rimpiange la libertà culinaria tanto disprezzata nei magri periodi d’esame.
Allora il fuorisede decide di uscire, per non dover giustificare perché ad un’ora dal pranzo non ha ancora ingerito quella leggerissima fetta di pandoro al cioccolato, chiamato un amico ritorna nell’arena che lo aveva visto protagonista (ma quando mai!): la piazza del paese.
Qui è tutto un salutare ed aggiornare su quando si è arrivati, come vanno gli esami e quando si ripartirà, immancabile infatti la domanda “ma quando riparti?” che mette in dubbio la felicità mostrata da chi la formula.
Tra di loro i fuorisede si annusano come animali rari, mirano a mostrarsi integrati al massimo nella nuova città, vantano l’atmosfera “di Lì”, la pulizia e l’educazione che da buoni criticoni non ravvisano nei propri concittadini. Il fuorisede gioca anche la carta del maledetto lontano dalla famiglia, con tutte le ragazze che gli capitano a tiro, ricevendo lo stesso numero di rifiuti di un qualunque liceale ma almeno usando argomentazioni e tecniche più affinate, insomma come perdere ma con tanto stile.
Sconsolato torna a casa e li trova un’altra limitazione della propria libertà data per scontata fuori dalla terra natia, il padre che in modo apprensivo aspetta lo scapestrato figlio ad orari improbabili, eppure non è una cosa inaspettata, il terrorismo psicologico a suon di “quando torni? Che combini?” era cominciato dalle 10 di sera, ma si manifesta in tutta la sua potenza appena varcato l’uscio di casa.
Malinconico della fredda casuccia straniera il povero eroe si corica a letto, consapevole che l’indomani sarà un altro giorno, uno in meno dal ritorno nella città degli studi, dove ricominciare a fantasticare sulla vita a casa con i suoi.
Che vita grama.

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