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Esplorare la Natura, viaggiare per ore tra lande desolate, territori ostili ed inospitali, popolati dalla ferocia istintiva della bestia, della Terra che (ci) si rivolta contro. Revenant è un (“il”) film sulla Natura, indaga nella sua stessa “natura” di essere vivente incontrollabile e dotato di una sconfinata bellezza, estremi paesaggi dove l’occhio si perde all’orizzonte in quell’incanto di colori vergini e puri.
La Natura è forte e non esisterà uomo o creatura in grado di tenerle testa, di esserne all’altezza, di competere con l’indifferenza e la brutalità di disastrose rivoluzioni ecologiconaturalistiche.
Iñárritu è un regista capace, che sa come comunicare con il suo pubblico, offre uno spettacolo visivamente ineccepibile dove il suo virtuosismo e l’occhio del collaboratore Emmanuel Lubezki si fondono in una amalgama perfetta di colori e sensazioni, progetto di ardua fattura realizzato da una crew di professionisti appassionati al loro mestiere, quello di creare/costruire struggenti emozioni. A far brillare ulteriormente il progetto è la presenza di Leonardo di Caprio, super eroe-attore disposto ad esporre il suo fisico alle condizioni più disparate per adempiere ad un compito importante: l’ottenimento di qualcosa che trascende il semplice svolgimento di un lavoro e varca le soglie dell’impagabile compiacimento dell’aver dato ascolto al proprio cuore.
Straordinaria interpretazione affaticata da quel corpo martoriato, zampillante di sangue rossissimo, ammutolita da quel diabolico quanto tenero orso che impara la ferocia dalla Natura stessa che lo ha concepito per riversarla sull’inerme corpo di Hugh Glass. Di Caprio è muto ma parla aiutato dai suoi bellissimi occhi azzurri, il corpo ferito e martoriato implora più di ogni parola, comunicazione retta su sguardi persi e doloranti che racchiudono il più grande dolore che una creatura possa mai provare. Privo di tatto, immune a sofferenza fisica, un corpo ridotto a brandelli di carne ambulante che vagano tra lande gelide in cerca di vendetta. Non esiste male peggiore che la perdita del proprio figlio, allontanamento precoce che rafforza ed irrobustisce il corpo di Di Caprio/Glass rendendolo (quasi) immune al dolore fisico. Un essere già morto, ormai redivivo, alimentato da sete di vendetta verso un’anima maligna e vivente, causa scatenante di tanta volontà e resistenza, immortalata dall’ex uomo con la maschera di Christopher Nolan. Autentica “bestia da cinema” ascritta a tal dimensione iñárrituana che si converte in una delle più convincenti interpretazioni di Tom Hardy. Miracolosa la penna del messicano, personaggio avvincente, scritto in modo impeccabile, facendone brillare l’istrionica favella: contrapposizione netta di mugolii e versi straziati di un Di Caprio che non firma la sua miglior performance.
Film dallo scheletro sottile rivestito da cotanto virtuosismo che impedisce al gelo di permearne la tenue trama. Banale sì, ma mai banalotto, mantiene i confini narrativi e stilistici con eleganza senza sfociare in irritanti classicherie da revenge-movie ignoranti e muscolosi. Impronta western riscontrata in situazioni collocate agli albori del genere; avventura permeata da continui rimandi all’immaginario, costellazioni di pensieri scavati in profondità nella mente umana e collegabili allo Hugh Glass dei tempi passati, cuore affranto da traumi incessanti, influenzanti il tragico futuro ancor prima di aver tracciato un solco nel presente che egli vive. Dimensione onirica che ruba dal modello malickiano l’osservazione e la meditazione del particolare, dove a parlare sono le immagini mute di uno spettacolo tutto al naturale. Dimensione contemplativa sull’essere interiore, valori ascrivibili alla propria indole di barbaro e/o civile, ambivalenza perfetta di società improntante a violenza e crudeltà. Viaggio esplorativo dell’appartenenza, identità e giustizia relegate nelle mani del Dio giusto, unico detentore della punizione e del castigo. Iñárritu dei silenzi, contempla l’incontemplabile, osserva l’inosservabile, panorama in cui è libero di osare e di strafare, speranzoso di imporre la sua come una visione autoriale a tutto tondo. Opera che pecca nella smisurata voglia/bisogno di abbagliarci, mostrando un sempre più martoriato Hugh Glass procedere a stenti, la cui contemplazione innescherebbe stupore immediato con quel Di Caprio che, a conti fatti, “è stato proprio bravo, si merita l’Oscar”. Troppo che stroppia che si intoppa e si storpia, il film dei silenzi e delle esagerazioni. Film (anche) dell’ingiustizia e dell’ingenuità, imperdonabile anomalia di un sistema pretenzioso; sacrificare il sacrificabile, togliere pezzi da un puzzle intricato semplificandone l’esito.
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Penso a quel Capitano, Domnhall Gleeson, silurato con troppa faciloneria da un Iñárritu impaziente di immortalare lo scontro tra titani. Prevedibilità di una morte indegna telefonata a distanza abissale.
Penso alla vendetta, elemento focale di un film silenzioso, contemplativo e poco attento al minimo indispensabile, ma pronto e vigile nell’esasperazione del massimo pensabile. Nocciolo della questione rappresentato dal poco percettibile legame di sangue padre-figlio, riduttivamente espanso in un arco di tempo favorevole all’espansione.
Penso a Revenant, al viaggio percorso e al freddo avvertito, immedesimazione perfetta di un’opera imperfetta. L’emozione c’è, se ne avverte il rumore. L’emozione pervade lo schermo, la sala e la gente inorridita che domanda perplessa come Glass vivesse senza l’antitetanica. L’emozione di fronte ai quadri di Lubezki, ai piani sequenza di Iñárritu, al misticismo sconvolgente e rassicurante.
In sala sta nevicano, è arrivata anche qui, forse è solo l’impressione di trovarsi altrove.

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Alberto Nisi

Alberto Nisi

Bergamasco di nascita ma non di tradizioni, troppo incline al cambiamento e alla curiosità per le cose nuove. Studio lingue e ho scelto Bologna per il suo enorme potenziale, il suo fascino e le sue possibilità. Sono un assiduo lettore ma vivo per la musica e per il cinema, che sono le mie vere “malattie”. Sogno di scrivere, di suonare in pubblico o di entrare nell'entourage di un film, ma c'è ancora molta strada da fare.
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