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Steven Spielberg e Tom Hanks, due nomi che a Hollywood fanno letteralmente impazzire solo a sentirli pronunciare. Due icone del cinema, due tra le figure più importanti dello spettacolo degli ultimi tempi che, a distanza di ben undici anni da The Terminal, tornano in stato di grazia in questo faticoso e ammaliante progetto storico.
Per la prima volta nella sua lunghissima carriera Steven Spielberg affronta il tema della Guerra Fredda traendo ispirazione da un fatto realmente accaduto durante uno dei momenti più delicati della storia del secolo scorso, l’edificazione del Muro di Berlino nel 1961. Ad aiutarlo nella sua impresa storica ci pensano i fratelli Coen, che con fare arguto e mano esperta firmano una sceneggiatura solida ed intelligente, condita da una giusta dose di ironia e (a tratti) leggerezza.
La trama del film ruota attorno alle vicende dell’avvocato James Donovan (Tom Hanks) incaricato di difendere la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance), in un momento in cui le due superpotenze erano in procinto di annientarsi l’un l’altra. Donovan, armato di lealtà e spiccato buon senso, si impegna anima e corpo per salvare il suo assistito finendo per essere coinvolto in una losca trattativa di scambio tra lo stesso Abel e Francis Gary Powers, un ufficiale americano caduto vittima dei sovietici durante un attacco aereo. Il senso del dovere e il suo ferreo attaccamento alla leggi della democrazia americana saranno preclusivi all’eventuale instaurarsi di un conflitto a fuoco tra le due super potenze.
Il Ponte delle Spie è un film solido e compatto costruito su tre blocchi narrativi ben definiti e perfettamente caratterizzati. La prima parte, ambientata interamente negli Stati Uniti, ruota attorno alla cattura e al processo riguardante la sorte della spia russa, all’interno del quale si inserisce l’insolito rapporto amichevole che legherà quest’ultimo al suo avvocato difensore. Nella seconda parte si esplora il gelo e l’inospitalità della titanica Berlino est e vede i nostri protagonisti alle prese con le problematiche trattative di scambio tra i prigionieri di entrambe le fazioni. Il finale del film costituisce l’ultimo blocco narrativo, l’assoluzione da tutti i peccati e il ritorno in patria del nostro eroe, stanco ma appagato dai suoi sforzi.
A stupire è l’impressionante abilità tecnica con la quale Spielberg confeziona tale prodotto. Un film maturo e attento dotato di una regia solida e ispirata che non cede nemmeno nei momenti peggiori. Sarebbe sufficiente la sequenza iniziale della cattura di Abel, giocata astutamente sui silenzi e su un montaggio precisissimo, per comprendere la portata dell’opera e godere di una straordinaria lezione di regia da parte di uno dei più influenti cineasti del mondo. E laddove la regia fa passi da gigante, il comparto scenografico, probabilmente l’aspetto più curato di tutto il film, vince su tutti i fronti. SS si avvale dei migliori collaboratori per la fedele riproduzione di una Berlino est pressoché perfetta, curando nel dettaglio ogni particolare e sfumatura resi ancor più credibili dalla fotografia glaciale del fido compagno Janusz Kaminski. Spielberg riesce nell’impresa di raccontare il conflitto tra i due blocchi senza spingere troppo l’acceleratore sul buonismo e sulle false retoriche tipiche del suo cinema ma concentrandosi sull’ambivalenza, perfettamente bilanciata, che caratterizzava entrambi gli schieramenti. Il regista non risparmia nessuno e non ha nessun timore a puntare il dito contro le menzogne e i soprusi degli Americani né a farci empatizzare pienamente con il personaggio di Rudolf Abel, altra anima del film. Interessante soprattutto il legame tra l’avvocato e il suo assistito, basato su una reciproca ammirazione che fino alla fine si mantiene viva e costante lasciandoci forse intuire quanto la rivalità che separava i due paesi fosse sinonimo di estrema incomunicabilità e di un pregiudizio infondato, dovuti a previi e stupidi accordi politici da parte dei rispettivi governi. Donovan e Abel sono degli uomini, sono persone ancor prima di essere un avvocato o una spia e in quanto tali sono stati così forti da eliminare le barriere culturali imposte dalle loro società e a far nascere tra di loro un’armoniosa intesa.
Ma Il Ponte delle Spie è lungi dall’essere un film perfetto e lo dimostrano alcune cadute di tono in certi momenti e un finale mieloso e fin troppo irritante dove la tanto odiata vena spielberghiana viene fuori. Più che la conclusione di un blockbuster hollywoodiano sembra di trovarci di fronte a uno spot della Mulino Bianco con tanto di luce sparata a mille e una retorica vergognosa su quanto gli Stati Uniti siano un paese giusto e sicuro. Una pecca enorme che grava (non di poco) sull’economia del film ma che non impedisce a Spielberg di confezionare un prodotto notevole e di difficile fattura, compito che riesce solo ai mostri sacri come lui.

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Alberto Nisi

Alberto Nisi

Bergamasco di nascita ma non di tradizioni, troppo incline al cambiamento e alla curiosità per le cose nuove. Studio lingue e ho scelto Bologna per il suo enorme potenziale, il suo fascino e le sue possibilità. Sono un assiduo lettore ma vivo per la musica e per il cinema, che sono le mie vere “malattie”. Sogno di scrivere, di suonare in pubblico o di entrare nell'entourage di un film, ma c'è ancora molta strada da fare.
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