L'UNIversiTÀ

Attualità

Il “mio” eterno ritorno.

Questa vita,come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione ” ( La Gaia Scienza, persistenza-della-memoriaFriedrich Nietzsche)

 

Ogni giornata è una scalata frettolosa verso qualche meta di noi stessi: il lavoro, il traffico, l’amore, l’affitto, la spesa, la felicità. Tutto boccheggia in una bolla di acqua fragile e ogni corsa è indispensabile per esistere. In questa piscina di complicazioni e di impegni,  non so che spazio o peso possa possedere la filosofia nella propria tabella di marcia quotidiana. Eppure, che cosa saremmo senza quella piccola nuvola invisibile del pensiero che ci si ferma accanto ogni volta che ci muoviamo, parliamo, facciamo, litighiamo, sogniamo. La nuvola che mi si è fermata accanto stavolta ha il nome di “eterno ritorno”. Fu il concetto principe della filosofia di Nietzsche  ed è quasi impossibile non essere rimasti impressionati dalla stranezza ermetica di questo concetto: tutto è destinato a rivivere. Quello che abbiamo già vissuto, lo rivivremo altre volte. Quello che ci accadrà, ci sarà già accaduto. Cambiamo, cresciamo, dimentichiamo, ma tutto  questo è vano perché lo dovremo riprovare, risperimentare. Cosa vuol dire  quindi? Un “semplice” delirio del filosofo o piuttosto un accenno  sofisticato della teoria della reincarnazione?  Davvero la vita può essere un infinito traghetto di déjà-vu in cui percepiamo la familiarità di momenti che abbiamo la certezza di non aver vissuto? Critici, e professionisti del pensiero si sono avvicendati in un ventaglio di raffinatissime interpretazioni e quello che appare indubbio e che si debba leggere il tutto in termini metaforici e non strettamente materiali.

Io però, adesso, non vorrei far sfumare il discorso in qualcosa di accademico, ma piuttosto  aprire uno spaccato di ragionamento personale e povero di mezzi. Quello che i filosofi hanno lasciato, lo hanno lasciato a tutti. Hanno dato pensieri unici, non chiavi uniche. Quindi, fermo restando le precauzioni necessarie, il primo passo per accogliere la filosofia nella propria vita, è dare alla filosofia la forma della  propria vita.

L’eterno ritorno nelle relazioni: Quante volte riviviamo lo stesso momento, solo perché noi non modifichiamo il nostro essere con gli altri. Ci leghiamo di nuovo allo stesso prototipo di persona, ci facciamo di nuovo intrattenere dagli stessi simili modi di fare, di comunicare, solo perché non  è cambiata l’impronta di quello che crediamo di cercare. Nell’amore inteso nella sua forma più intensa, ma anche in tutte le altre forme d’amore “minore” di cui ci riempiamo la vita. Pur nella confusissima diversità delle cose che ci attraversa, una parte di noi rimane tale e non andrà avanti se non continuando ad andare indietro. Rivivremo allora lo stesso dolore o la stessa bellezza? Probabile. Ma non perché tornerà “quel dolore”, ma perché torniamo eternamente noi stessi , con la nostra anima cifrata pronta a rispondere nella sua lingua al linguaggio degli altri.

L’eterno ritorno nelle relazioni del  mondo:  ci si prepara ad una condizione di tensione internazionale simile  a quella del secolo scorso. Sarebbe dovuto essere tutto profondamente diverso, più pulito, meno infrangibile. Eppure, la follia spericolata dell’uomo può ciclicamente mettere a repentaglio l’equilibrio apparente della pace. Ritorna un modello di male selvaggio che si serve di persone con credenziali affini e analoghe: sono pazze e hanno nel parlare un’inquietudine che rasenta un odio generalizzato. Anche questa una semplice coincidenza astrale di ritorno? O forse la rappresentazione di come gli eventi tornino solo dopo che è tornata la predisposizione dell’uomo a farli accadere?

L’eterno ritorno del nostro futuro: così come siamo adesso potremmo essere già pronti a raccontare molte cose della vita che  dobbiamo ancora vivere:  le volte in cui staremo male, quelle in cui staremo bene. E non perché dei sogni premonitori ce lo abbiano rivelato, ma perchè l’essere che ci caratterizza è fin dall’inizio  un libro che si ripete, con le pagine che si susseguono a seconda di come sono legati i nostri movimenti interiori. Come  risponderemo a quella chiamata, cosa ci inventeremo dopo la fine di quel lavoro, chi vorremo accanto per sentirci liberi. Il futuro avverrà, ma in base a come siamo già avvenuti noi. Ritornerà quello che ancora deve venire, e viceversa.

Parafrasare un concetto così grande all’ interno di universi così scombinati e diversi come quelli delle nostre vite  è illogico e questo stesso mio tentativo non ha la pretesa di avervi convinto. In fondo, come ogni pensiero, anche quello di Nietzsche  porta addosso la stessa caratteristica dei nostri, cioè la sua individualità.  Quindi, spiegarlo a tutti i costi o farlo aderire alla propria interpretazione, vorrebbe dire anche un po’ violarlo, non rispettarlo nella sua purezza. Ma con questa parentesi di lettura lanciata come un amo nel vostro mondo ho solo voluto aprire una strada alla curiosità di pensare ai “grandi pensieri” come cose invisibili incastrate nella nostra vita di tutti i giorni. Perché anche il bisogno di farsi domande ritorna, eternamente.

Alessandra Arini

Non perdiamoci di vista

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A Bologna si celebra il maxiprocesso Aemilia, il primo sulla ‘ndrangheta nel Nord Italia con oltre 200 imputati.
In queste settimane la nostra attenzione mediatica è stata pressoché totalizzata dagli attacchi terroristici di Parigi e dai loro incalzanti e imprevedibili sviluppi, tuttavia, ci sono spazi di informazione nazionale sui quali è altrettanto importante rimanere aggiornati. Infatti, pur riconoscendo il diverso grado di allarme sociale che tali fatti generano nell’opinione pubblica, il cittadino modello, che ha memoria lunga e mente aperta, non può certo essere complice dell’oblio politico e giudiziario di casa nostra. Nell’ultimo mese sono cominciati due processi eclatanti: Mafia Capitale a Roma ed Aemilia a Bologna, entrambi maxiprocessi dai profili importanti in fase di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria. Il padiglione 19 della Fiera di Bologna è blindatissimo: la DDA bolognese ha ipotizzato 189 diversi capi d’imputazione per 219 imputati; all’udienza preliminare hanno partecipato in collegamento video anche una quarantina di detenuti fra i quali 14 boss di ‘ndrangheta al 41 bis. Ma ai possibili reati di usura, estorsione, associazione a delinquere di stampo mafioso, si aggiungono anche quelli meno tipici della criminalità organizzata in senso stretto, come la corruzione elettorale, il falso in bilancio e la turbativa d’asta, propri, invece, dei cosiddetti colletti bianchi. Senza immergersi nei tecnicismi giudiziari e nel raffinato lessico giuridico, ciò che seduce la riflessione è l’inquietante radicamento del sistema della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: non si parla di mera infiltrazione, come fino a poco tempo fa si sosteneva ingenuamente, quando non era concepibile riconoscere che una terra da sempre votata alla legalità e alla virtù civica fosse corrotta dal turpe malaffare. I primi flussi sarebbero cominciati già negli anni ’90 per poi radicarsi pandemicamente, approfittando anche di situazioni contingenti, come la ricostruzione successiva al recente terremoto che ha colpito il cuore di questa Regione. Se è difficile da spiegare, è molto più complesso realizzare che questa contaminazione sia avvenuta davvero in una terra piena di risorse non solo economiche, ma soprattutto culturali, sedimentate nel tempo per la particolare sensibilità politica e civica di questa popolazione. Forse all’inizio è stata sottovalutata l’entità di questo fenomeno ora al vaglio degli inquirenti, ma la presenza di circa trenta richieste di costituzione di parte civile a nome di enti, associazioni, Comuni è una reazione significativa che mostra la volontà di riaffermare quell’identità offesa. Di solito dinnanzi a queste notizie si pensa che spetti solo alla magistratura e alla polizia giudiziaria il compito di indagare, accertare e giudicare, mentre noi siamo autorizzati ad attendere con non troppo pathos, come se qualunque decisione non ci riguardasse. Ma dietro un fatto c’è un antefatto, una ragione che l’ha generato, dopo la cronaca c’è la sua lucida analisi. E’ troppo importante conoscere le attuali condotte criminali, soprattutto perché nella loro evoluzione sono sempre più calate in contesti all’apparenza puliti, distanti dai luoghi comuni. Certamente qualcosa si sa, ma probabilmente non si vuole sapere abbastanza, sebbene queste dinamiche, edite o inedite che siano, coinvolgano tutti, poiché animano il sistema politico-imprenditoriale e dunque le ripercussioni sono dirette su noi cittadini. E’ questa la conseguenza maggiore che dovrebbe scuotere maggiormente le nostre coscienze. Conoscere è il presupposto fondamentale per scegliere come agire quando sarà il momento. Con tutto il rispetto e la giustificata tensione per il panorama internazionale, non possiamo essere ulteriormente vittime della selezione informativa fatta dai mass media più di quanto sia inevitabile. Non c’è spazio per dire tutto, non c’è tempo né particolare interesse per ogni capillare aggiornamento e le linee editoriali tendono a raggiungere i temi che più si lasciano seguire. Ribadendo che ci sono questioni più urgenti e contingenti di altre su cui è bene spendere fiumi di inchiostro e ore di diritta televisiva, non è ammissibile che all’improvviso tutto il resto sia sommerso dall’alta marea del secondo piano. E’ come se si accettasse di vivere a puntate, mentre ogni fatto continua ad evolversi in silenzio. Improvvisamente non c’è quasi più nulla da aggiungere sulle sorti di Roma. Ma se l’attualità il giorno dopo diventa storia e questa, per non essere divorata dal presente, deve essere ricordata, allora domandarsi cosa accada oltre quello che ci lasciano conoscere, andare alla ricerca dell’informazione perduta, è un piccolo favore che facciamo alla collettività e quindi a noi stessi.

L’Erasmus che verrà

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Il trattato sui parametri d’ingresso nella comunità europea.
Ecco fino ad un anno fa l’unica nozione che mi balenava in mente quando qualcuno pronunciava “Maastricht”.
Non ero mai stato sfiorato dall’idea di approfondire le mie conoscenze circa questa piccola città olandese sulle rive del fiume Mosa, se non in occasione di una sciagurata interrogazione di storia durante il mio 3° anno di liceo.
Una volta a Bologna, Maastricht aveva cominciato a diventare un nome frequente a causa della tipologia di materie studiate, ma nel momento in cui ho preso la decisione di usufruire del progetto di scambio Erasmus, avevo in mente mete più calde e rinomate (Spagna, Grecia o giù di lì).
Pensate che mi ero anche informato sul tipo di materie dell’Università di Madrid da farmi convalidare sotto le due torri, eppure Maastricht (forse a causa dello studio intensivo di storia contemporanea) aveva iniziato ad apparirmi come la destinazione perfetta per chi, come me, volesse studiare relazioni internazionali e magari un domani, burger king permettendo, intraprendere una carriera diplomatica.
Non restava che informarsi: il prof responsabile del progetto? Lo stesso a cui avevo dovuto dimostrare il suddetto studio in storia. Le procedure? Complicate, ma fattibili. Le prove? Un colloquio in inglese con (ormai posso svelare il nome del prof) Cavazza e una lettera di presentazione nella quale dimostrare il mio interesse per l’Olanda accademica e non ludica. Risultato? Arrivo incredibilmente 5° in graduatoria e quindi vengo selezionato per svolgere quest’esperienza all’estero.
Era il tempo di fare i conti con le mie sensazioni, e non lo dico perché voglio apparire così didascalico da suddividere passo per passo la narrazione, ma perché durante tutto l’iter burocratico non avevo realizzato che stavo compilando i moduli che mi avrebbero portato lontano dagli affetti e da casa per ben 6 mesi.
Certamente Bologna aveva costituito un primo distaccamento dalla mia Sicilia, ma anche qui ero riuscito a creare il mio microcosmo, fatto di birre in piazza verdi, passeggiate per via del pratello e cene dai colleghi, e ora?
Ora toccava immaginarsi nel cuore della bistrattata Europa, collega di studenti di tutte le parti del mondo a seguire lezioni in una lingua straniera, costretto ad usare (si spera) l’inglese per ordinare caffè oscenamente lunghi o freddi piatti olandesi.
Devo dire che la realizzazione non è stata facile, l’euforia iniziale aveva rapidamente ceduto il passo ad un malinconico pensiero “E se non riuscissi ad inserirmi?”. Insomma, non è detto che riesca a stringere lo stesso numero di amicizie che sono riuscito a stringere a Bologna e non è neanche detto che riesca a godermi la città come sto riuscendo a fare all’ombra di San Petronio.
La visione paranoica e tetra si era impossessata della mia mente, fino a quando ho cominciato a valutare la cosa da un punto di vista diverso, ho infatti analizzato in modo razionale l’opportunità dicendomi: “ tra due mesi m’imbarcherò su un aereo che mi trasporterà in un paese straniero , ma nel quale non potrò fare altro che venire a contatto con culture e visioni del mondo diverse, un paese che attraverso il suo sistema di trasporti mi permetterà di raggiungere città del calibro di Amsterdam, Parigi e Berlino in meno di due ore, un paese che propone un metodo di apprendimento totalmente rivoluzionario (il PBL, molto più pratico e meno teorico), un paese che mi potrà donare finalmente la percezione di essere parte di un grande sogno che è l’Europa unita, ovviamente badando alla frizzante vita sociale che solo gli olandesi riescono a costruire.”
Mi mancherà Bologna, ma se ripenso che in un anno sono passato dal sentirmi perennemente in gita perché in una città diversa da quella in cui sono nato a considerare la stessa città casa, credo che in 6 mesi potrei anche amare quel micro mondo chiamato Maastricht e magari chiamare anch’esso casa, o meglio thuis.
Niente d’aggiungere, auguratemi solo buon viaggio.

Choc

image“Choc”, un’eloquente esclamazione. Per la prima volta lo stesso titolo occupa il taglio alto delle prime pagine di Figaro e Humanité. Al contrario, per l’ennesima volta i cronisti di droit e gauche prediligono l’ortografia francese a dispetto dell’originale anglofona, shock. D’altronde il rapporto tra i francesi e la loro lingua è da sempre un amore romantico basato sul rifiuto di qualsiasi altro corteggiatore. Ordinateur anziché computer, per dirne una.

La domanda sorge spontanea: porquoi?

 

Hugh Grant diventato all’improvviso protagonista di Coupe de foudre a Notting Hill, per dirne due. E Poutine, delegittimazione anagrafica di Putin, per dire basta. E certo non si sbagliava Goethe nel considerare che “I matematici sono come i francesi: se si parla con loro, traducono nella loro lingua, e diventa subito qualcosa di diverso”. Forse lo choc non è shock perché si tenta di circoscrivere la dimensione territoriale del fatto. Quasi si voglia che resti una notizia privata, intima. Un po’ come quando ci si vergogna così tanto di qualcosa che si preferisce tenerla nascosta. Ebbene sì, i risultati elettorali del primo turno sono roba di cui vergognarsi. L’ultradestra di Marine Le Pen raggiunge il 27,73% conquistando sei regioni su tredici. La domanda sorge spontanea: porquoi? Dietro al merito dell’avversario c’è sempre il demerito dell’altro. La strategia politica di Hollande ha giocato a favore del Front National. Una dichiarazione di guerra tanto giustificabile quanto precipitosa che ha avuto come prima conseguenza quella di avallare le ragioni degli estremisti. Come seconda, alimentare il terrore ed il senso di insicurezza tra i citoyens della Repubblica Francese. In una stagione anomala per la vendemmia, (altro…)

Coprire per scoprirci: giornata contro la violenza sulle donne

 

Il 25 nove49244-1mbre è un Giorno che amo. E’ stato scelto come data simbolo contro la Violenza sulle Donne e rappresenta qualcosa che fa rabbrividire, ma per me è un bel giorno. Sono tante le iniziative che negli hanno dato un volto alla sensibilità di Bologna mentre aspetta questa data; ogni novembre si legge di nuovi o riproposti spettacoli teatrali, di campagne di sensibilizzazione, di libri e storie raccontate da voci di donne con gli occhi illuminati dal coraggio. Ieri si è concluso il pomeriggio con un flash mob in piazza Maggiore “Un Filo caldo e colorato contro la violenza sulle donne”, tantissimi rettangoli di lana uniti in un’unica grande sciarpa con la quale centinaia di persone hanno “abbracciato” in crescentone. L’idea nasce da un’iniziativa bresciana che è riuscita a realizzare un’enorme coperta composta da sedicimila moduli arrivati in città da tutto il mondo che ha occupato tutta Piazza Vittoria. “Coprire” significa “prendersi cura”, i ferri e i gomitoli che sono usciti dalle quattro mura domestiche per formare sciarpe e coperte e sono scesi nelle piazze italiane sono un simbolo “scoperto” per dichiarare la consapevolezza delle donne e del loro essere insieme. Ieri le donne che tenevano quella lana cercando di scaldarsi un po’ le mani stavano combattendo, gli occhi velati dai pensieri delle atrocità e della violenza, dalle storie che ascoltiamo ma, insieme, una gioia contagiosa. Quell’ empatia, appunto, che una data sui nostri calendari ci aiuta a percepire e respirare a pieni polmoni

Elena Nicoletti

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Queste nostre fragili certezze

In queste ore tutti noi simagetiamo cercando di spiegare l’irragionevole. Al di là del forte impatto emotivo che hanno generato gli attacchi terroristici a Parigi durante la notte dello scorso 13 Novembre, ci domandiamo come sia potuto accadere un tale disastro che ha colpito con violenza simboli della nostra cultura occidentale. Fino a che punto si può spingere ancora la nostra tolleranza? Come reagire alla rabbia che ha generato questa sofferenza? Si può chiedere all’orgoglio ferito di tacere per dar voce ad una difesa razionale? Questi come altri sono i quesiti che più di tutti stanno affollando le nostre menti. Ma nell’incertezza – o nell’impossibilità – di risposte universali, è doveroso fare appello ai nostri punti di forza, all’unità nazionale che oggi non ha più solo i confini di un Paese, ma di un intero continente, perché quei giovani francesi freddamente uccisi sono i nostri cugini, facendo parte della stessa famiglia che è l’Unione Europea. Possiamo reagire potenziando le nostre caratteristiche vincenti che certo non coincidono con la strategia bellica, ma con la forza della democrazia. Le nostre Nazioni hanno già vissuto l’esperienza delle guerre lancinanti da cui sono rinate e in conseguenza delle quali sono state scritte le pagine più belle e durature della nostra storia. Fogli colmi di valori che trasudano vita dopo la morte, speranza dopo l’orrore. Una guerra contemporanea non avrebbe confini terreni, ma probabilmente si combatterebbe fra i cieli, sulle nostre teste, sopra le quali prima o poi piomberebbero le tragiche conseguenze. In momenti nevralgici come questi ciascuno deve essere disposto ad un’ingerenza nel proprio foro interiore, perché sia garantita una maggiore sicurezza comune. (altro…)

Ognuno questa mattina si è svegliato spento come la Torre Eiffel.

StadioOgnuno questa mattina si è svegliato spento come la Torre Eiffel.  Le luci staccate, a Parigi, e anche dentro di noi. Da un lato, la frenesia di dover condividere una nostra analisi sui social, quasi a volerci  assicurare un posto nella tribuna dello sgomento, dall’altro il bisogno di stare zitti per fare spazio alle spiegazioni che comunque non troveremo.  Oggi non scrivo per dire qualcosa di preciso, scrivo piuttosto non sapendo cosa dire o come argomentare il mio silenzio.  Il primo pensiero va al silenzio di chi ieri sera si è stato inghiottito dalla morte.  Al teatro, allo stadio, al ristorante, mentre stava consumando una porzione  normale di felicità, mentre stava ascoltando della musica, mentre stava litigando col marito oppure mentre stava dicendo una frase su quanto fosse bella Parigi. A loro, vittime di una bellezza interrotta, va un pensiero senza tempo immenso quanto la grandezza delle domande che si devono essere posti pochi secondi prima della fine.

Il secondo pensiero va all’ Occidente, (altro…)

Cronache di una domenica insolita

Cronache di una domenica insolita per Bologna, una città libera, aperta, ma fedele a se stessa. Con non poco disagio, stamattina mi sono intrufolata fra bandiere dai colori che non sono i miei per la pura curiosità di capire gli animi di quella gente in Piazza Maggiore, lì per manifestare un pensiero politico. Temevo di destare sospetto, perché non applaudivo, non annuivo, ma, al contrario, mi irrigidivo, tamburellavo freneticamente le dita su ogni superficie. In effetti cercavo di resistere al nervosismo che genera un ambiente diverso, eppure mi ero recata lì intenzionalmente e per un fine. Volevo sentire e osservare le persone che erano attorno a me, cercare di comprendere cosa pensassero e quanto fosse profondo il solco della nostra diversità ideologica. Infatti, mentre le chiacchiere di Meloni, Salvini e Berlusconi le avrei potute recuperare dai giornali e dalla televisione, quest’indagine socio-culturale era questione di empatia. E’ stato aperto anche il baule della storia, considerati i troppi riferimenti al passato, a quel 1994 di 3597229-006-kY6E-U43130331377573F2G-593x443@Corriere-Web-Sezionicui resta una sola figura centrale, allora protagonista, mentre oggi timida comparsa che tenacemente non si rassegna allo scorrere del tempo. Tuttavia questa realtà emergeva dallo spirito della gente: con la velata riconoscenza rivolta ai vincitori che furono o con il generale rispetto che si nutre verso gli anziani, la folla borbottava paziente in attesa di Salvini, accolto come una fresca boccata d’ossigeno, dopo che si apre una finestra. Ponendo in secondo piano i contenuti degli interventi sul palco che non hanno aggiunto nulla di nuovo ai rispettivi indirizzi politici, ho trovato una moltitudine di persone piuttosto composta, ma dall’accento prevalentemente padano. Nessuna meraviglia nell’udire veneti e lombardi dalle verdi tinte nel cuore della rossa Bologna: mi è sembrato come di essere ad una partita di calcio in cui tifosi in trasferta siedono da ospiti. Mi è parso che, con il beneficio dell’udito raffinato e dello sguardo vispo nonostante la piccola statura, stessi assistendo ad un raduno di fedelissimi fuori dal soliti confini. E poiché la libertà di manifestare pacificamente il proprio pensiero è un diritto costituzionalmente garantito, non mi scandalizza l’evento odierno, credendo (altro…)

MR. NOBODY

Mr.Nobody è uno di quei film che colpisce, ipnotizza e confonde ma allo stesso tempo affascina ed emoziona, vuoi per l’abilità registica di Van Dormael vuoi per le numerose osservazioni, le numerose interpretazioni e significati che ogni spettatore gli può attribuire. È uno di quei film che ci piace definire “a libera interpretazione”, si perché abbiamo di fronte a noi un’opera completa, ricca di idee e riflessioni sulla vita, talmente impregnata di significato che risulta al quanto difficile trarre un’unica finale conclusione che esaudirebbe tutti i nostri dubbi o perplessità. Se vogliamo, l’aggettivo “film psicologico” potrebbe suonare molto bene ma non riuscirebbe in ogni caso a circoscrivere l’essenza di un film che va oltre la mera visione psicologica. Parliamo della vita e dell’essere umano che cerca disperatamente un senso a tutto quello che fa e a ogni cosa che vive. Nemo non è un eroe né vuole esserlo. È uno come noi, un bambino, un ragazzo o un uomo che vive cercando il suo posto nel mondo condizionato in tutto e per tutto dalle scelte che lungo il suo cammino è costretto ad affrontare. È un film sulle scelte, su come ognuno di noi venga condizionato da quello che fa e da quello che decide in un dato momento. Anche i piccoli gesti o le piccole decisioni di tutti i giorni possono influire e cambiare per sempre il nostro futuro senza che ce ne possiamo rendere conto. Nemo rappresenta l’essere umano, è l’incarnazione di ciò che noi siamo con tutti i nostri limiti e le nostre gioie. Vive nel presente, nel passato e nel futuro. Nemo è ovunque e la sua vita non è altro che un susseguirsi di conseguenze, belle o brutte, avveratesi a seguito delle scelte che ha compiuto. L’elemento cardine della narrazione è costituito dal divorzio dei suoi genitori e dalla scena del treno in cui il piccolo Nemo si trova costretto a decidere se seguire il padre o la madre. Quello a cui assistiamo in seguito non esiste, non è reale ma è solo la rappresentazione degli eventi futuri della vita del bambino e cioè quello che sarebbe potuto succedere se avesse deciso di seguire un percorso o un altro. Il destino diventa così parte essenziale della storia ed entra in gioco nel momento in cui ci fermiamo a riflettere di fronte a quello che dobbiamo e vogliamo fare.

La vita segue il percorso di un disegno prestabilito o è frutto di una serie di casualità alle quali possiamo sottrarci in qualsiasi momento e possiamo decidere di modificare a nostro piacimento? A questa eterna domanda il regista ci offre la sua interpretazione, il punto di vista di un uomo fantasioso che ha cercato delle risposte attraverso l’utilizzo di immagini e rappresentazioni suggestive. Niente è prestabilito e niente è deciso. Siamo noi uomini che con le nostre scelte determiniamo e modifichiamo il nostro futuro. Nella vita tutto è possibile e possiamo sottrarci in ogni momento alla sorte di ciò che le conseguenze delle nostre azioni determinerebbero su di noi. Esistono solamente due cose nella vita alle quali ci è impossibile sottrarci: la morte e l’amore. Il tema della morte percorre tutto il film e assistiamo in più riprese alla morte del protagonista. Questo perché essa rappresenta l’unica certezza sicura che abbiamo, sappiamo che prima o poi, in un modo o nell’altro, siamo destinati a perire. Nemo muore sempre non riuscendo mai a scampare al suo destino. L’amore, contrariamente alla morte, non è una certezza della quale siamo consci e sicuri ma è una forza misteriosa, istintiva che regola e guida le nostre azioni e dalla quale ci troviamo a dipendere finendo per esserne involontariamente investiti. La morte è qualcosa di astratto, non possiamo toccarla, non è palpabile e assistiamo solo alle sue estreme conseguenze. L’amore, pur essendo un sentimento ed essendo puramente astratto, diventa concreto e si materializza nella persona che “decidiamo” di amare. L’amore quindi si vede, lo sentiamo, lo percepiamo ed è l’unica forza nell’universo in grado di annientarci o renderci felici. Il personaggio di Diane Kruger è la personificazione del più nobile dei sentimenti, è sempre presente, appare a Nemo nelle situazioni più disparate e impensabili e costituisce qualcosa che inspiegabilmente accompagnerà sempre il protagonista (e ogni uomo) per tutta la vita. Ne scaturisce una contrapposizione netta e distinta tra le due forze in questione. Da un lato la morte, concepita come qualcosa di terreno e in questo caso razionale, una forza “spiegabile” e conseguenza estrema di un processo vitale che giunge alla conclusione. Dall’altro lato l’amore, una forza misteriosa e irrazionale che l’uomo non si riesce a spiegare e che è sinonimo di vita stessa; dall’atto d’amore nasce la vita.

Van Dormael racconta attraverso immagini suggestive e quasi surreali il processo della vita dalla nascita alla morte, un processo esente da spiegazioni razionali ma che dipende in tutto e per tutto dalle azioni che commettiamo quotidianamente.

Definirei questa pellicola come surreale, onirica e assolutamente visionaria. Il regista sembra essere consapevole dei mezzi visivi a sua disposizione e sa abilmente sfruttare ogni contenuto per conferire all’opera quel tocco magico e incantato. È un film fatto prevalentemente di immagini dove le inquadrature contano forse ancora di più dei vari dialoghi e dove la fotografia riesce a dare l’idea di trovarci all’interno di un mondo irreale popolato dagli avvenimenti di alcuni dei futuri possibili della vita del protagonista. Interessante è soprattutto la scelta di non dividere la narrazione a episodi, raccontando cioè vita per vita le scelte di Nemo, ma di spezzare e mischiare i singoli accadimenti in modo da creare un intreccio, una sorta di vita nelle vite in cui da una singola scelta possono scaturire infinite situazione e conseguenze che nel corso del tempo arrivano a intrecciarsi tra di loro. Un plauso va sicuramente al montaggio alternato e articolato che mischia in modo apparentemente caotico i frammenti della vita di Nemo generando non poca confusione nello spettatore. Un film completo sotto ogni punto di vista, dai nobili contenuti alla sceneggiatura e dalla strabiliante tecnica registica fino alla scelta geniale e azzeccata di giocare tutto sulla potenza visiva delle immagini e degli sguardi degli attori. Un’opera strabiliante e struggente che ci regala una lunga e profonda riflessione sul senso della vita e su come sia in realtà l’uomo il vero artefice di tutto quello che gli accade.

ALBERTO NISIdownload

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