L'UNIversiTÀ

Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?

“Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?” si chiedeva Gaber qualche anno fa, con una canzone che potrebbe benissimo essere accostata alle analisi politiche più raffinate.

Solo un grande artista come il signor G., con la sua ironica e intelligente sensibilità, è stato ed è in grado di farci sorridere, ma anche riflettere, su un argomento che ha ben poco di divertente: la crisi della Politica.

E qui è necessario fare una precisazione: non si tratta del solito discorso autocritico, incentrato interamente sul Paese Italia. Questa crisi coinvolge le principali democrazie rappresentative occidentali, gli stati governati attraverso lo strumento del Parlamento, mai come oggi delegittimato.

La domanda si ripresenta puntuale e insistente dal 1989 e dalla caduta del Muro: che senso hanno concetti come Destra e Sinistra? Serve ancora utilizzare queste etichette sbiadite?

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Per cercare di trovare un senso in tutto ciò, è utile analizzare alcune delle critiche rivolte verso questa contrapposizione ideologica.

Una delle obiezioni che si sentono nel momento in cui si cerca di impostare un discorso “ideologico”, andando a delimitare i campi secondo quelle coordinate, è che questo modo di fare non serve a risolvere “i veri problemi del Paese”. Ancora: si assume che non importa di che tipo sia la ricetta, se di Destra o di Sinistra, l’importante è che funzioni. Altri ancora sostengono che Destra e Sinistra “non esistono più” (lasciando intendere che prima esistessero) e che oggi questa distinzione si sarebbe dissolta in un corrotto e grigio magna-magna (dove magna non sta per “grande”).

Ai livelli più alti, nei luoghi in cui si esprime il potere o si cerca di indirizzarlo, si suggerisce che, per  fronteggiare la Crisi, esistono delle riforme da effettuare in ogni caso e al di là del colore politico del governo nazionale di turno.

Tutte queste critiche possono essere accomunate dalla presunta neutralità che vorrebbero esprimere, il loro essere politicamente non schierate. Esse lasciano intendere che esistono delle risposte, delle ricette che devono essere seguite e che mettono d’accordo tutti sulla loro utilità.

In realtà, chi sostiene che “i problemi del Paese sono altri”, dietro l’apparente neutralità, nasconde una gerarchia di idee, preferenze e proposte che vorrebbe vedere attuate. Queste preferenze nascono dalla situazione del singolo, da quella fitta trama di interessi privati, situazione economica e familiare, attitudini culturali e religiose che rendono un essere umano una coscienza.

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Alma Mater: chi sarà il nuovo rettore?

“Nella mia città chiunque non si occupi di basket, non è neppure degno di essere definito pesarese”.

C’è qualcosa che accomuna Pesaro e Bologna, e l’attuale rettore dell’Alma Mater questo lo sa bene.

La passione per la pallacanestro è il primo trait d’union, ma non è l’unico elemento che lega queste due città italiane.

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Ivano Dionigi, attuale rettore dell’Alma Mater Studiorum, mentre conferisce la laurea ad honorem in Scienze Politiche a Giorgio Napolitano

 

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APRIRE LA MENTE: ERASMUS AD AMSTERDAM

Se esiste un tema sul quale si può sempre saccheggiare senza criterio nell’infinità di luoghi comuni che gli sono stati appiccicati addosso, sul quale si può imbastire una conversazione senza alcuna preoccupazione di non dover sembrare troppo prevedibili, e sul quale le domande poste si susseguono più monotone della sinfonia di un allarme antifurto, quello è l’Erasmus. Se poi esiste un luogo sulla terra che a tutto ciò tanto più si presta, quello è sicuramente Amsterdam. E’ quindi facilmente immaginabile quale sia stata l’entità delle domande che ho sentito più frequentemente rivolgermi al termine dei sette mesi trascorsi nella capitale olandese. A chi semplicemente si limitava ad alludere con fare ammiccante alla vita notturna della città, si affiancava una folta schiera di persone entusiaste che non sapevano trattenersi dal comunicarmi la loro invidia per la possibilità che avevo avuto di vivere in un Paese dove la droga leggera è legale. A ciò sostanzialmente si riduceva la curiosità della maggior parte della gente sul mio periodo da exchange student. Più tentavo di condividere le mie vedute nuove di zecca, come può averle solo chi fa ritorno da un lungo viaggio, più mi rendevo conto di come ogni dialogo qui in Italia sulla mia esperienza all’estero fosse reso sterile dalle caratteristiche che rendono immensamente popolare l’Erasmus e la città in cui ho scelto di andare a studiare.

Decidere dove si desidera vivere significa forse capire come si ha bisogno di vivere, stabilire di cosa si ha bisogno per essere ciò che si vuole davvero. Non importa se tale decisione influenzerà tutta la tua vita o solo un semestre accademico. Che poi l’una eventualità potrebbe essere conseguenza dell’altra. Nel mio caso lo è stata. Ma di certo non perchè ad Amsterdam puoi sollazzarti nei coffeshop o perchè non hanno un corrispondente della nostra legge Merlin. O almeno, non solo. Essendomi ambientata fin da subito in una città così fiabesca coi suoi canali, inaspettatamente accogliente per la sua gente e pittoresca per le tradizioni a dir poco inusuali per molte altre nazioni europee, ho avuto modo di cogliere dopo pochissimo tempo dal mio arrivo delle differenze abissali tra quello che pensavo da italiana e quello che in Olanda mi sono spontaneamente ritrovata a pensare, io, sempre la stessa persona partita dalla Sicilia credendomi chissà quanto ‘open-minded’, chissà quanto lontana dall’essere ‘judgmental’. Non sto parlando del luogo comuneamsterdam-rosse-buurt

secondo cui “in Nord Europa sono tutti più civili”, quasi come se si potesse stabilire dove sia ubicato il paradiso sulla Terra. E non sono nemmeno una simpatizzante degli italiani con tendenze ad autorappresentazioni miserabili. Ma c’è del vero nella diffusa opinione secondo cui noi italiani ad oggi abbiamo intossicato alcuni concetti, travisato degli altri e mantenuto in vita valori che andavano accantonati senza remore, o perlomeno affiancati da nuove idee. Ancora noi italiani riusciamo ad idolatrare la parola ‘meritocrazia’, andando in brodo di giuggiole per un concetto che genera solo una degradante competizione col collega basata anche su tentativi di mettere in cattiva luce gli altri per poter apparire più brillanti e meritevoli. Non a caso in Olanda questo criterio selettivo fonte di una disumana competitività (persino tra giovani studenti) è stato da tempo rimpiazzato col ben più democratico concetto di ‘cooperazione’, che già di per sé è inclusivo e non genera alcun tipo di discriminazioni, né alcun sentimento di inadeguatezza nell’essere umano che si trova costretto a dover ingaggiare una gara con i suoi concittadini, piuttosto che a condividere vissuti ed esperienze come dovrebbe essere naturale in un paese con una granitica identità nazionale. Anche in Olanda si viene ‘giudicati’ con un voto durante le prove di esame, ma le prove stesse sono suscettibili di una personalizzazione tale che ogni individuo, impegnandosi, può dare il meglio delle proprie uniche e inconfrontabili capacità. In tal modo la selezione non avviene basandosi su un numero sterile e privo di qualsiasi contenuto informativo sulle vere abilità di ciascuno, ma sulla reale ricerca del settore che più fa per te e delle modalità di espressione delle idee che più si adeguano al modo di essere di ciascuno. Ed è proprio per questo che ad Amsterdam la gente ti incrocia sorridendo in ogni caso. A questa estrema valorizzazione dei talenti si accompagna in maniera quasi obbligata già da decenni un disprezzo diffuso per la gerontocrazia, fenomeno dal quale purtroppo in Italia solo recentemente stiamo cercando di liberarci. La nostra tendenza a rimanere irrimediabilmente affezionati ad idee antiquate ho potuto ravvisarla in maniera evidentissima anche nel concetto di immigrazione: altro termine che nel Belpaese viene affiancato in maniera ormai naturale ed assodata alla parola ‘problema’. Ad Amsterdam invece, la città più internazionale del mondo con le sue 176 nazionalità presenti tra i canali, è scontato che non si debba più parlare di ‘integrazione’ come se si trattasse di un corpo estraneo all’interno di un organismo, ma di ‘risorsa’, come si fa quando si parla di una ricchezza da sfruttare in tutte le sue potenzialità. Non sono mai stata una fan di atteggiamenti a tutti i costi denigratori verso il proprio Paese, e sono stata immensamente felice di constatare come nel mondo tutti adorino l’Italia per fortuna molto più di quanto non facciano gli italiani. Ma la sensazione di immobilismo e di repulsione per la novità che si percepisce nella vita pubblica qui in Italia è anche il risultato spaventoso di un adagiarsi di tutti noi studenti e cittadini su idee preconfezionate, che un’esperienza all’estero ti consente di ‘spacchettare’ dalla loro consueta rappresentazione. Se è vero, come insegna Camus, che “il ruolo degli studiosi è quello di chiarire le definizioni allo scopo di disintossicare le menti”, è una responsabilità ineludibile per ogni studente italiano che abbia l’opportunità di poter volgere il suo sguardo altrove cercare di capire come i concetti vengano riempiti di un significato diverso in un posto che non è casa. Poco importa se la definizione in questione ti venga spiegata in un inglese semplificato per italiani, in olandese o mimata a gesti. Ciò che conta è che una volta tornati in patria si possa tentare di sgombrare i dibattiti e le stesse semplici conversazioni dai luoghi comuni che le affollano. Ciò che più importa è approfittare del fatto che in Erasmus puoi davvero sperimentare la magia degli incontri con persone e idee diverse e diventare duttile all’accoglimento di pensieri nuovi, funzionali ad uno svecchiamento del nostro Paese.

AGOSTINA PIRRELLO.

Confessioni di un posto.

Il mio rapporto con Bologna è troppo strano per rischiare di essere definito amore. No ha nemmeno nulla a che vedere con la gelosia, o con la paura di perdersi. La amo da morire quando mi mostra senza presunzione di avere più esperienza di me, quando mi fa capire che è inutile che creda vanamente di conoscere tutti le sue chiavi o i suoi segreti, perché ci sarà sempre un angolo che mi ha nascosto o che ha voluto rubare alla mia memoria. E poi la odio da pazzi quando mi sembra piccola, stretta, affollata dalla vita degli altri, senza una forma precisa, senza un potere esplicito di dare misura alle cose.  Ma nel bel mezzo di questa lotta  senza ragioni,  ci sono  posti che più di altri mi danno il senso pratico di una sintesi essenziale. Via Borgonuovo numero 4 è uno di questi.

Ci nacque Pasolini in una sera di Marzo.  Doveva fare molto freddo o ne doveva fare molto poco. Ma ci sarà stato di sicuro un “molto” nell ‘ aria, una dose di qualcosa di prepotentemente imponente.  Pasolini non so bene chi fosse.  Ho letto i suoi libri, ho visto i suoi film, ma mi sfugge la verità di chi potesse essere.  Ed ogni volta che credo di essere arrivata ad una chiave di interpretazione più preziosa, ecco che scappa nuovamente, ecco che si contraddicono le credenze di chi pensavo fosse e che mi giungono nuove le  conclusioni di chi forse, in realtà, era.  Pasolini “non conclude”. Pirandello avrebbe detto che “la vita non conclude”, perché è libera, spoglia di qualsiasi conclusione logica che possa associare alle fini o agli inizi dei significati condivisi. E Paolini era un po’  anche questo. Non era straordinario  solo nello scrivere, prosa o poesia, era tremendamente se stesso  anche nello scrivere film, era bravo quindi ad essere artista senza un confine preciso.  Era bravo, in altre parole, ad esprimerci il suo tormento. Inutile negare, infatti, che il suo talento avesse a che fare con la sua malinconia, con la sua smania di stare al mondo senza dover perdersi niente.  E ogni sera, passando da Borgonuovo 4, sento le confessioni di un posto che ha come ereditato, nel silenzio, qualcosa da dirci.

Mi immagino  Pasolini ritornarci a casa la sera, o uscire presto la mattina.  Però, non me lo immagino come Pasolini. Me lo immagino come Pierpaolo. Senza cognome, senza l’importanza e l’invadenza che ti dà il mondo quanto ti osserva come personaggio e non ti intravede come persona. Me lo immagino seduto sull’uscio della porta, a vent’anni,  con in bocca una sigaretta oppure una penna, a raccogliere le sensazioni di un giorno che era passato in una città piena di contraddizioni. Oppure affacciato alla finestra a vedere la gente passare e a capire che il primo film lo avrebbe voluto fare sugli ultimi, su quelli che camminano un po’ più defilati sul marciapiede e su cui raramente si posa la macchina da presa. Me lo immagino fissare intensamente questo portone nei momenti di critica nei suoi confronti più intensa  e chiedersi quali siano state le ragioni e le origini del suo essere così com’ era, chiedersi , in fondo, a quale indirizzo fosse nata  la sua intolleranza verso i luoghi comuni del potere e verso tutte le bugie delle persone.

So che poi Pierpaolo si trasferì a Roma e che Bologna divenne un ricordo, ma per me, rimane incastrato in quel pezzo di strada un suo tracciato di destino fondamentale. Via Borgonuovo numero 4 assomiglierà per sempre a quei caffè letterari a cielo aperto in cui gli intellettuali e i non intellettuali si scambiano impressioni silenziose su come va la città, su quanto è bello o meno un libro, o sul valore di un poeta che sta nascendo. Ma via Borgonuovo numero 4 è un ottimo posto anche per passeggiarci con un amico, per farsi due chiacchiere su come si può crescere, su quanto ci si debba  a volte misurare con la trasformazione di tutte le cose che ritenevamo importanti.

Questa è la confessione di un posto.  Di un angolo che consiglio a tutti gli artisti e a quelli che ancora non sanno di esserlo. Perché ci sono luoghi che hanno da parlarci più delle biografie dei poeti, e perché, ci sono artisti, come Pasolini, che hanno lasciato aforismi e sentenze più negli angoli invisibili dei posti che hanno vissuto che in tutto il resto.NoteVerticali.it_PierPaoloPasolini_5

Giochi di potere: una realistica immersione nella politica americana.

 

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Una delle serie tv oramai diventata un fenomeno a livello mondiale, tanto da essere seguita dallo stesso presidente americano Barack Obama – il quale non ha mai fatto mistero di esserne un fan- si chiama House of Cards, “Gioco di carte”. È un thriller politico ambientato nei corridoi del congresso Usa e della Casa Bianca prodotto da Beau Willimon. Si tratta di un adattamento dell’omonima miniserie televisiva prodotta dalla BBC, a sua volta basata sul romanzo più famoso di Michael Dobbs, pubblicato per la prima volta nel 1989, ancora considerato il thriller politico per eccellenza. Incentrato sulla vita e le ambizioni del politico machiavellico Francis Urquhart, il romanzo fu già adattato negli anni Novanta dalla BBC ricevendo un enorme successo di pubblico e critica. Ora, nella più recente versione USA, il Parlamento inglese viene sostituito dal Campidoglio americano per narrare la storia trasversale della corruzione attraverso le vicende della politica statunitense.
Il successo, oltre alla bravura degli attori, alla regia e alla notevole cura dei dettagli, è frutto anche dall’aspetto melodrammatico della storia, fatta di manipolazioni, tradimenti e violenza, degni di un dramma shakespeariano. L’immagine di un uomo, Underwood, che da solo tiene in pugno una nazione con l’intelligenza e l’inganno come uniche armi. Si tratta di un’epica che si fa racconto morale, di una teatralità assolutamente spettacolare, alimentata dal regista che riesce a creare quasi un gioco attraverso il quale il pr04-kevin-spacy-house-of-cards-1.w529.h352.2xotagonista, rivolgendosi direttamente alla macchina da presa, coinvolge lo spettatore, quasi fosse un dialogo a tu per tu.
Quest’ultimo, infatti, verrà coinvolto nei suoi piani, creando un rapporto empatico col protagonista.
Credo che i fan di HoC si dividano in tre tipologie. Quelli che lo guardano per ispirarsi: il telefilm per loro è un manuale di istruzioni per essere un uomo di potere. Quelli che tendono ad esorcizzarlo sostenendo che “i personaggi sono americani, il potere è americano, da noi non funziona così, da noi tale realtà non trova alcun riscontro”. E, infine, quelli che hanno bisogno della “copertura” della politica per raccontare a se stessi e agli altri che non stanno guardando quello che stanno guardando.
Tuttavia, per gli appassionati della serie, bisogna sottolineare le critiche negative su questa terza stagione, definita sia dal New York Times sia da Vanity Fair lenta e monotona.
Appare un Frank Underwood stanco, indebolito e privo d’idee, quasi in balia degli eventi, non riuscendo a piegarli in suo favore come abile calcolatore; stesso discorso per Mrs.Underwood, è opaca e sembra aver perso verve, dimostrandosi non a proprio agio nel ruolo di First Lady: capricciosa a tal punto da chiedere al marito di intervenire in suo favore non rispettando protocolli ufficiali, peggiorando, in maniera drastica, il personaggio che tutti abbiamo amato.
Eppure, nonostante tali critiche, Netflix ha rinnovato House of Cards per una quarta stagione, che farà il suo debutto nel 2016.
Un finale di stagione in cui lasceremo Frank in uno stato di transizione. Claire ha lasciato il Presidente, che stava lottando la battaglia della propria vita per la nomination dei Democratici. Dal lato positivo, Doug è ritornato al suo fianco.
Per quanto mi riguarda, la vera domanda è: “Come farà Frank a “funzionare” senza Claire?”
Aspetteremo, con l’inizio del 2016, le sorprese che questa serie continuerà a regalarci.

 

Pseudo intervista a Maru Barucco

– Almeno un’intervista me la rilasci?

– Un’intervista a lui?

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– E Astor che fine ha fatto?

– Lui è Gogò

– Ma vanno d’accordo?

Tutti molto. Tutti tranne Connor. Lui non va d’accordo con nessuno!

E come mai? E’ scontroso?

No. E’ in un uovo. Ho conosciuto

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Maru Barucco durante il liceo, nella nostra città, Siracusa. Città che ci ha fatto scappare entrambe, ci ha plasmato. La prima volta che l’ho vista suonare eravamo a casa sua. Una chitarra e un pezzo rock: il ciuffo dei capelli era più presente di adesso. L’ultima volta che l’ho sentita suonare era nostra ospite alla festa de l’UNIversiTÀ: apriva il concerto de L’officina della Camomilla.

Certo che è difficile fare domande a qualcuno che si conosce bene

Certo che è difficile risponderti con racconti che conosci a memoria

Cosa vorresti che fossero le tue canzoni: messaggi, battaglie, storie?

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Uno sguardo nel mondo di Escher

Si dice che in anni di crisi, la cultura si stia avvicinando sempre più a ciò che era nel momento d’oro della borghesia: una grande risorsa cui solo pochi potevano accedere. Questo non è però il caso della mostra di Escher che rimarrà a Bologna presso il Palazzo Albergati ancora sino al mese di luglio. Qui si incentiva lo studente universitario alla visita, non solo con una riduzione studiata ad hoc, ma anche con il cosiddetto “lunedì universitario” che offre ulteriori sconti. Ed è così che mentre passeggiavamo come tante altre sere sotto i portici di Bologna io e la mia collega di corso abbiamo deciso di dedicare il primo lunedì di questa primavera al grande artista. Ed eccomi qui ora a raccontarvi le sensazioni e riflessioni che ha suscitato in noi l’illusionismo di Escher.

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Il primo ingresso in un palazzo che porta il nome di un’antica e prestigiosa famiglia di senatori bolognesi non può di certo lasciare indifferenti: la storicità del luogo è evidente e non si può resistere al piacere di regalarsi un ricordo con il primo selfie di fronte alla sfera riflettente affianco all’ingresso. Dopo di ché l’attenzione è tutta verso il Palazzo Albergati che, ristrutturato solo recentemente dopo che l’incendio del 2008 lo aveva reso inagibile, ha aperto a marzo una delle mostre più intriganti, quella del matematico e fisico Escher.

Sin dalla prima sala, è impossibile smentire quello che si dice di lui: fu infatti davvero uno dei pochi a costruire con delle leggi matematiche non semplici strutture geometriche, ma vere e proprie opere d’arte, arrivando così a dare un equilibrio al continuo dissidio tra scienza e creatività.

Questo è il primo elemento di straordinarietà in Escher: riuscire a guardare e rappresentare il mondo da un’altra prospettiva, il che oggi potrebbe apparire semplice e quasi scontato, mentre allora non lo era affatto.

La sua lotta maggiore, però, era lontana dalle pagine delle riviste che lo avevano calpestato per poi rieleggerlo come artista, così come racconta l’audio guida che, se avrete la possibilità di visitare questa mostra, non potete assolutamente mancare di prendere con voi. Sarà infatti la voce di un critico d’arte a raccontarvi che, come tanti ragazzi nel periodo dell’adolescenza, Escher aveva attraversato un momento conflittuale col mondo accademico il quale, per sbaglio e per fortuna, lo aveva portato in Italia. I genitori, infatti, avevano pensato allo stivale come meta di un viaggio a breve termine che aiutasse il proprio figlio a superare una lunga depressione, e così fu.
I paesaggi del sud Italia avevano stupefatto e ispirato Escher a tal punto da realizzare diverse xilografie: Escher ha dunque riprodotto la bellezza del sud della nostra Penisola, dandole un senso profondo del magico e dell’illusione che vi lascerà probabilmente così colpiti da infondervi la curiosità di esplorare quei posti che noi stessi spesso snobbiamo alla ricerca di qualcosa di più in terre lontane. Chissà che cosa.

Quello che però rimane impresso, al di là della complessità delle forme geometriche utilizzate o una rappresentazione interiore, di cui lui stesso nega l’esistenza, è la minuzia dei particolari: Escher aveva la capacità di inserire figure piccolissime all’interno delle sue rappresentazioni con una perfezione nel disegno che fa pensare quasi ai dipinti e mosaici dell’arte bizantina.

La mostra però non è stata solo un susseguirsi di opere: all’interno di questa si nascondono diversi enigmi, che aggiungono al carattere suggestivo della visita nelle varie sale, anche un senso di suspense. Prendete per esempio i profili di due visi omologhi e metteteli vicini, se li avrete sistemati nel verso giusto vi apparirà un vaso. Oppure, osservate i vasa physyognomica di Luca e Rosa: vi anticipiamo solo che vi riveleranno qualcosa di nuovo.

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Ma questo è solo l’inizio del tour: sentirsi parte di un’opera d’arte e scattare una foto con uno sfondo di geometrie in bianco e nero rende l’esperienza culturale un momento divertente quasi come una breve gita scolastica, ma con meno affollamento e più consapevolezza per il valore e l’impegno speso dall’artista e dai curatori.

Dopo mezz’ora nelle sale perse tra enigmi e teorie aberranti, ci siamo rese che occorre più di un’ora di fine serata per godersi i suoi libris e la creazione di finti piani tridimensionali. Mancando solo 30 muniti alla chiusura è stato quindi necessario affrettarsi per vedere tutto, mentre il servizio di sicurezza ricordava ogni 10 minuti a noi e ai pochi altri visitatori che la mostra stava per chiudere. Questo non ha quindi permesso di incantarsi su ogni opera con la stessa intensità, ma sicuramente lo specchio magico, le due mani che disegnano e il cubo di Necker rimarranno impressi nei cassetti della memoria per tanto tempo ancora, così come l’idea che un ragazzo giovane con impegno e creatività possa riuscire a creare cose straordinarie.

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Era stato proprio lui a dirlo: “solo coloro che tentano l’assurdo, raggiungeranno l’impossibile”. Non se n’era ancora reso conto, ma stava parlando di se stesso.

Un viaggio tra i fornelli di Masterchef. L’intervista a Stefano Callegaro

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Fuori c’è una pioggia fitta ed io sono davanti alla porta d’ingresso, mi sposto un attimo per fare un giro nella sala verde della Montagnola poi mi riavvicino alla porta, a quel punto vedo spuntare Stefano sotto un ombrello giallo. Entra, mi guarda e prima ancora che potessi salutarlo mi porge la mano e si presenta: “piacere, Stefano!”.
Già da questo gesto capisco la persona che ho davanti, parola d’ordine: umiltà.
Scatta qualche foto e scrive delle dediche sul suo libro di cucina appena uscito “Alla ricerca del gusto” poi si parte con l’intervista.

Stefano, com’è cambiata la tua vita con la vittoria di Masterchef?
«Allora, inizio col dire che se quest’anno l’avessi diviso in 6 parti mi sarebbero usciti fuori 6 anni belli intensi (ride). Spesso dopo la vittoria mi è capitato di sentirmi dire che sono una fonte d’ispirazione. Ti dico che Martin Luther King è una fonte di ispirazione, io al massimo posso ispirare nell’ambito culinario».

Qual è il giudice più buono e quale il più cattivo all’interno della competizione?
«Sono 3 persone dai caratteri molto diversi. Chef Cracco e chef Barbieri sono un po’ spigolosi negli atteggiamenti ma ogni giorno ti offrono spunti per migliorare e per crescere. Lo chef Berbieri tra i fornelli ricorda il ballerino Rudolf Nureyev, sembra danzare in cucina. Ha una precisione incredibile.Masterchef 9
Chef Carlo Cracco da buon veneto di montagna parla poco e quando lo fa le sue parole tagliano però ogni suo consiglio è estremamente prezioso. A telecamere spente mi disse: “sii curioso e sii critico con te stesso per poter migliorare sempre”.
Joe Bastianich è un grande imprenditore mischiato ad un ragazzo di 18 anni che si vuole divertire. Una persona speciale alla quale sono molto legato. Se mi sentisse dire queste cose mi ucciderebbe (ride)».

Un piatto al quale sei particolarmente legato?
«La minestra con i piselli, il risi e bisi in Veneto, che nella mia zona (il polesano ndr.) ha salvato tante persone nei periodi di difficoltà. Questo è un piatto che la domenica a casa mia non manca quasi mai. Poi devo ammettere che sono un consumatore seriale di tortellini e voglio precisare che vengo sempre a prenderli a Bologna (sorride)».

Un consiglio per gli appassionati di cucina.
«Toccate il cibo, annusatelo, passatevelo tra le mani. Il cibo ci parla, si racconta. Ogni taglio di carne, ad esempio, è diverso dall’altro e ha una sua storia. I guanti lasciamoli ai chirurghi perchè in cucina il cibo va trattato a mani nude».

Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina e come l’hai coltivata?
«La mia mamma oltre ad essere appassionata di cucina è un’ottima cuoca e mi ha trasmesso l’amore che mette in cucina, io poi vivo fuori di casa da quando avevo 18 anni quindi imparare a cucinare oltre ad essere una passione è stata una necessità».

Cos’è per te la cucina?
«Non voglio fare il filosofo (ride) ma per me la cucina è una metafora della vita, il raggiungimento della felicità per tentativi. Quando cucini cerchi la perfezione del piatto tentando diverse combinazioni così come nella vita si cercano diverse combinazioni per arrivare ad essere felici.
Ve la spiego con 4 aggettivi: amore, passione, disciplina e rispetto».

Qualche domanda sulla tua avventura a Masterchef. Raccontaci della svolta ai fornelli avvenuta quando a sorpresa è arrivata tua madre nel programma.
«Va detto innanzitutto che quando partecipi a Masterchef non vedi i tuoi cari per tutta la durata del programma (2 mesi e mezzo/3 ndr.) e in tutto ciò abbiamo avuto solo una mezza giornata libera. La puntata che voi vedevate il giovedì era la contrazione di una settimana di riprese. Sono arrivato nella cucina con tanti difetti, dubbi e insicurezze ma quando in quella Mistery Box gigante ho visto mia mamma mi si sono illuminati gli occhi. Da quel punto è come se mi fossi tolto dei pesi».

Con chi hai legato di più tra i tuoi compagni di avventura e chi hai visto maggiormente come uno sfidante?
«La persona che più mi è rimasta nel cuore è sicuramente Simone (Finetti ndr.). Per me è come un fratello. Invece ho visto maggiormente come uno sfidante Nicolò che mi ha impressionato molto per una passione ed una tenacia che a vent’anni davvero in pochi hanno».

Concludendo. C’è una frase che dice: “si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare”. Ho rivisto molto il tuo percorso a Masterchef in queste parole. Mi confermi che per preparare un buon piatto si deve sempre pensare a qualcuno?
«Ti ringrazio per la bellissima domanda (sorride). Sono assolutamente d’accordo, il mio percorso nella cucina di Masterchef si è intrecciato molto con queste parole. Ho sempre cercato di mettere nei miei piatti me stesso e soprattutto le persone a cui tengo. La mia spinta in più anche nella finale, che non mi aspettavo assolutamente di vincere, credo sia stata proprio questa. Secondo me per creare un buon piatto è importantissimo pensare a qualcuno».

Il futuro della memoria

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“Tra le pagine chiare e le pagine scure” della storia italiana il 25 Aprile rappresenta l’incipit di un capitolo nuovo, scritto grazie al memorabile sacrificio dei protagonisti della Resistenza. Benché si tratti di una data simbolica, perché di fatto l’Italia non fu liberata contemporaneamente dal governo fascista e dall’occupazione nazista, essa è fondamentale: rappresenta il concepimento della democrazia repubblicana che poi nascerà con il referendum del 2 giugno e l’entrata in vigore della nostra Costituzione. Nel 70º anniversario della Liberazione é doveroso impedire che la facilità dell’oblio oscuri o annebbi l’eredità ideale della Resistenza. L’impresa più ardua é assolvere degnamente a questo impegno di tutela della nostra identità nazionale senza sfociare nella retorica. Infatti, perché la memoria continui ad avere futuro, occorre dialogare con la ragione e mantenere fede ai valori morali di cui si è imbevuto lo spirito delle forze partigiane dopo quell’ 8 settembre 1943. Tuttavia é umano ammettere che sia davvero labile il confine fra una formale commemorazione della ricorrenza e l’autentico sentimento della riconoscenza, nobile e gratuita risposta al bene ricevuto. Perciò la nostra libertà, prima di essere un diritto fondamentale, é quasi una concessione profondissima cha abbiamo acquisito per merito altrui, dunque é per noi un dovere ricordarne l’origine con rispetto e gratitudine. Inoltre la storia è un testimone da assimilare e riconsegnare integro, ma questo passaggio non può avvenire con indifferenza, perché essa non è composta solo da eventi cronologici; é fatta di uomini e donne che ne hanno determinato il suo corso, è intrecciata dalle loro speranze, anche utopiche, ma che poi potrebbero essere viste dagli occhi dei loro figli o nipoti. Ciò è estremamente prezioso e non può non generare un tumulto interiore misto tra il desiderio di esserne degni custodi e l’umile ambizione di contribuire al progresso materiale o spirituale della società, ciascuno secondo le proprie inclinazioni e possibilità. Passare alla storia – nell’accezione più ampia e positiva dell’espressione – significa tracciare solchi indelebili nei destini che verranno, spesso attraverso il proprio sacrificio per il bene altrui, facendolo incondizionatamente, per fedeltà ad un’idea. Per alcuni questa è la sola religione, intesa da Calamandrei come “serietà della vita, impegno per i valori morali, coerenza tra pensiero e azione”. Data l’entità di questo lascito morale vi è il rischio che ogni considerazione inerente risulti astratta o ridondante. Ma un antidoto all’apparente retorica può essere l’immedesimazione. Se provassimo ad ipotizzare noi stessi sotto le bombe, nell’incertezza dell’alleato e della stessa vita, affamati, soprattutto di libertà, smetteremmo all’istante di banalizzare l’importanza del ricordo eterno della Resistenza. Dinnanzi alla palese grandezza di quelle vicende eroiche e al nostro ragionevole limite di precisa comprensione, possiamo però rinnovare una tacita promessa: che la loro memoria resti un dovere in sé. Dipende solo da noi questa sana connessione sentimentale di cui la libertà è il dono più prezioso.

                                                                   

INSODDISFATTI MA RIMBORSATI. A che punto è il piano di attuazione di Garanzia Giovani in Emilia Romagna.

cercare-lavoroSoddisfatti o rimborsati. O almeno, nelle intenzioni, così dovrebbe essere se di ‘garanzia’ si vuol parlare. Mutuato dall’inglese, il termine Neet sta diventando sempre più utilizzato nella nostra lingua. I Neet (Not in Education, Employment or Training) sono tutti quei ragazzi che non studiano, non lavorano, né tantomeno stanno svolgendo qualsivoglia attività di tirocinio, lavorativo o formativo. Un fenomeno che in Italia riguarda circa il 25% . Mica male, si fa per dire, se pensiamo questa percentuale è la più elevata tra tutti i membri degli stati appartenenti all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE). Non è molto confortante, riecheggiando vecchie abitudini macroeconomiche, scoprire che peggio di noi ci siano solamente Spagna e Grecia. Di certo non siamo rimasti inermi. Ormai, da quasi un anno, è attivo il programma “Garanzia Giovani” (Youth Guarantee), nato su impulso comunitario per contrastare le sempre maggiori dimensioni del fenomeno dei Neet in Europa. Questa iniziativa viene disciplinata, in Italia, dalla legge 99/2013, cui ha fatto seguito uno specifico “piano di attuazione”, individuando risorse per un miliardo e mezzo di euro, ripartite fra le regioni in rapporto al numero di disoccupati con meno di 25 anni. Si prevede che i gli under-30, dal momento in cui sono diventati disoccupati o dall’uscita dal percorso di istruzione formale, attraverso l’iscrizione presso i centri per l’impiego, possano beneficiare di politiche attive di orientamento, formazione e inserimento al lavoro.

Una volta iscritti al programma, entro sessanta giorni, si viene convocati dallo stesso centro. Un colloquio di orientamento, per poi uscire con la consapevolezza che, nel giro di quattro mesi, un’opportunità, generalmente un tirocinio retribuito, non ce la toglie nessuno. Opportunità che può arrivare massimo a sei mesi, anche se l’obiettivo, e sicuramente l’occasione, a quel punto, diventa l’inserimento lavorativo vero e proprio. Una serie di considerazioni, che, ad ogni modo, avranno fatto drizzare le orecchie a quanti in uscita dall’Alma Mater da un anno a questa parte.

  In Emilia Romagna il progetto ha avuto un finanziamento di oltre 74 milioni, 27 provenienti dal Fondo sociale europeo, altrettanti dalla Commissione europea e 13 dal ministero del lavoro. Soldi destinati a una popolazione giovanile di circa 112 mila ragazzi, vale a dire il 18,8% a livello regionale sul totale degli under-30.

Eppure, la sensazione,  è che queste opportunità stentino a decollare. Le adesioni, per il momento, sono appena 36mila (su poco meno di 500 mila in tutta Italia). Tra questi, come sempre, è interessante notare come solo un terzo venga dalla regione, perché per la restante parte si tratta di fuorisede. Le percentuali si restringono ulteriormente osservando, poi, i 17mila che, dopo essersi iscritti, sono stati già presi in carico dai servizi competenti e avviati alle attività sulla base del profilo personale e i 21mila hanno già un appuntamento fissato per usufruire delle misure previste.

Un iter le cui prime scadenze hanno portato, quindi, all’attivazione di poco più di duemila tirocini. E gli altri? Per il momento non rimane che mettersi in fila e aspettare. Nulla di più emerge dai primi monitoraggi effettuati su Garanzia Giovani. La regione, intanto, fa sapere, per bocca dell’assessore alla formazione al lavoro Patrizio Bianchi, che presto si innalzeranno le soglie anagrafiche di partecipazione, passando dal limite dei 24 a quello dei 29 anni di età per partecipare alle misure previste.

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