Se esiste un tema sul quale si può sempre saccheggiare senza criterio nell’infinità di luoghi comuni che gli sono stati appiccicati addosso, sul quale si può imbastire una conversazione senza alcuna preoccupazione di non dover sembrare troppo prevedibili, e sul quale le domande poste si susseguono più monotone della sinfonia di un allarme antifurto, quello è l’Erasmus. Se poi esiste un luogo sulla terra che a tutto ciò tanto più si presta, quello è sicuramente Amsterdam. E’ quindi facilmente immaginabile quale sia stata l’entità delle domande che ho sentito più frequentemente rivolgermi al termine dei sette mesi trascorsi nella capitale olandese. A chi semplicemente si limitava ad alludere con fare ammiccante alla vita notturna della città, si affiancava una folta schiera di persone entusiaste che non sapevano trattenersi dal comunicarmi la loro invidia per la possibilità che avevo avuto di vivere in un Paese dove la droga leggera è legale. A ciò sostanzialmente si riduceva la curiosità della maggior parte della gente sul mio periodo da exchange student. Più tentavo di condividere le mie vedute nuove di zecca, come può averle solo chi fa ritorno da un lungo viaggio, più mi rendevo conto di come ogni dialogo qui in Italia sulla mia esperienza all’estero fosse reso sterile dalle caratteristiche che rendono immensamente popolare l’Erasmus e la città in cui ho scelto di andare a studiare.

Decidere dove si desidera vivere significa forse capire come si ha bisogno di vivere, stabilire di cosa si ha bisogno per essere ciò che si vuole davvero. Non importa se tale decisione influenzerà tutta la tua vita o solo un semestre accademico. Che poi l’una eventualità potrebbe essere conseguenza dell’altra. Nel mio caso lo è stata. Ma di certo non perchè ad Amsterdam puoi sollazzarti nei coffeshop o perchè non hanno un corrispondente della nostra legge Merlin. O almeno, non solo. Essendomi ambientata fin da subito in una città così fiabesca coi suoi canali, inaspettatamente accogliente per la sua gente e pittoresca per le tradizioni a dir poco inusuali per molte altre nazioni europee, ho avuto modo di cogliere dopo pochissimo tempo dal mio arrivo delle differenze abissali tra quello che pensavo da italiana e quello che in Olanda mi sono spontaneamente ritrovata a pensare, io, sempre la stessa persona partita dalla Sicilia credendomi chissà quanto ‘open-minded’, chissà quanto lontana dall’essere ‘judgmental’. Non sto parlando del luogo comuneamsterdam-rosse-buurt

secondo cui “in Nord Europa sono tutti più civili”, quasi come se si potesse stabilire dove sia ubicato il paradiso sulla Terra. E non sono nemmeno una simpatizzante degli italiani con tendenze ad autorappresentazioni miserabili. Ma c’è del vero nella diffusa opinione secondo cui noi italiani ad oggi abbiamo intossicato alcuni concetti, travisato degli altri e mantenuto in vita valori che andavano accantonati senza remore, o perlomeno affiancati da nuove idee. Ancora noi italiani riusciamo ad idolatrare la parola ‘meritocrazia’, andando in brodo di giuggiole per un concetto che genera solo una degradante competizione col collega basata anche su tentativi di mettere in cattiva luce gli altri per poter apparire più brillanti e meritevoli. Non a caso in Olanda questo criterio selettivo fonte di una disumana competitività (persino tra giovani studenti) è stato da tempo rimpiazzato col ben più democratico concetto di ‘cooperazione’, che già di per sé è inclusivo e non genera alcun tipo di discriminazioni, né alcun sentimento di inadeguatezza nell’essere umano che si trova costretto a dover ingaggiare una gara con i suoi concittadini, piuttosto che a condividere vissuti ed esperienze come dovrebbe essere naturale in un paese con una granitica identità nazionale. Anche in Olanda si viene ‘giudicati’ con un voto durante le prove di esame, ma le prove stesse sono suscettibili di una personalizzazione tale che ogni individuo, impegnandosi, può dare il meglio delle proprie uniche e inconfrontabili capacità. In tal modo la selezione non avviene basandosi su un numero sterile e privo di qualsiasi contenuto informativo sulle vere abilità di ciascuno, ma sulla reale ricerca del settore che più fa per te e delle modalità di espressione delle idee che più si adeguano al modo di essere di ciascuno. Ed è proprio per questo che ad Amsterdam la gente ti incrocia sorridendo in ogni caso. A questa estrema valorizzazione dei talenti si accompagna in maniera quasi obbligata già da decenni un disprezzo diffuso per la gerontocrazia, fenomeno dal quale purtroppo in Italia solo recentemente stiamo cercando di liberarci. La nostra tendenza a rimanere irrimediabilmente affezionati ad idee antiquate ho potuto ravvisarla in maniera evidentissima anche nel concetto di immigrazione: altro termine che nel Belpaese viene affiancato in maniera ormai naturale ed assodata alla parola ‘problema’. Ad Amsterdam invece, la città più internazionale del mondo con le sue 176 nazionalità presenti tra i canali, è scontato che non si debba più parlare di ‘integrazione’ come se si trattasse di un corpo estraneo all’interno di un organismo, ma di ‘risorsa’, come si fa quando si parla di una ricchezza da sfruttare in tutte le sue potenzialità. Non sono mai stata una fan di atteggiamenti a tutti i costi denigratori verso il proprio Paese, e sono stata immensamente felice di constatare come nel mondo tutti adorino l’Italia per fortuna molto più di quanto non facciano gli italiani. Ma la sensazione di immobilismo e di repulsione per la novità che si percepisce nella vita pubblica qui in Italia è anche il risultato spaventoso di un adagiarsi di tutti noi studenti e cittadini su idee preconfezionate, che un’esperienza all’estero ti consente di ‘spacchettare’ dalla loro consueta rappresentazione. Se è vero, come insegna Camus, che “il ruolo degli studiosi è quello di chiarire le definizioni allo scopo di disintossicare le menti”, è una responsabilità ineludibile per ogni studente italiano che abbia l’opportunità di poter volgere il suo sguardo altrove cercare di capire come i concetti vengano riempiti di un significato diverso in un posto che non è casa. Poco importa se la definizione in questione ti venga spiegata in un inglese semplificato per italiani, in olandese o mimata a gesti. Ciò che conta è che una volta tornati in patria si possa tentare di sgombrare i dibattiti e le stesse semplici conversazioni dai luoghi comuni che le affollano. Ciò che più importa è approfittare del fatto che in Erasmus puoi davvero sperimentare la magia degli incontri con persone e idee diverse e diventare duttile all’accoglimento di pensieri nuovi, funzionali ad uno svecchiamento del nostro Paese.

AGOSTINA PIRRELLO.

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Alessandra Arini

Alessandra Arini

Vengo da Trapani, vivo a Bologna, ma vorrei stare a Roma. Studio giurisprudenza, sogno di trasferirmi alla facoltà di Lettere, ma il mio vero desiderio è essere una studentessa di Filosofia. Improvvisatrice professionale di articoli di tuttologia, ma anche appassionata stravagante di poesia e di altri dilemmi. Insomma, una contraddizione vivente che spera di dilettarvi con i suoi pensieri sul mondo e sul corso delle cose.

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