L'UNIversiTÀ

Dei modi di onorare la memoria di Giulio Regeni

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Non conoscevo Giulio Regeni né la sua attività di ricerca, prima che divenissero tristemente note. Scosso dalle sue vicende – come tanti, specie se legati da una qualche comunanza nel mondo della ricerca – ho letto ex post qualche suo contributo, qualche sua cronaca anche di natura giornalistica dall’Egitto.
Non sono nemmeno un granché simpatetico con certe premesse ideologiche dell’attività di Regeni, lo dico con sincerità ma anche con grande rispetto, perché premesse ideologiche nell’attività di studio possono esserci, sono legittime, e anche benvenute quando chiaramente postulate, come Regeni faceva, da studioso serio.
Anche alla luce di queste premesse, l’impressione che ho ritratto dall’approccio col lavoro di questo sfortunato giovane uomo – e che si unisce al naturale sconcerto e all’indignazione per la vicenda di vita – è di grande dignità ed onestà. Regeni era un vero ricercatore, si poneva delle reali domande su effettivi, drammatici problemi, e indagava genuinamente alla ricerca di possibili chiavi di lettura, con passione. Era una persona che, da par suo, e come ogni ricercatore dovrebbe fare, analizzava i fenomeni cercandone una comprensione diretta, ed anche sfidando certe vulgate ridicole: la prima, catastrofica, abnorme, è proprio nell’etichetta sloganistica delle “primavere arabe” che ne accompagnerà ogni ricordo, come copertura posticcia di fenomeni ben più complessi e delicati, complessità e delicatezza di cui Regeni, in vita e in morte, ci ha rammentato.
Il primo modo per onorare la memoria di Giulio alla luce di tutto questo è, per me almeno, contestualizzarne così, con rispetto vero e profondo, l’attività, cercando di comprenderne i commendevoli moventi e le serie implicazioni.
Il secondo modo – ovvio ma da rimarcare – è ricercare la verità e la giustizia postume che Giulio merita nella chiarezza della sua morte, e che meritano la sua famiglia, i suoi amici, la sua comunità di colleghi, da ultimo il suo paese nativo ed anche l’Egitto, che era amato Paese d’adozione, come il Governo italiano mi pare stia facendo e come deve continuare a fare, anche nei necessari consessi internazionali. Una serie di persone, i familiari almeno, hanno diritto a questa verità e a questa giustizia.
Il terzo modo per onorare la memoria di Giulio – e questo è anche un personale auspicio politico – è quello di riflettere senza infingimenti sulla vicenda di Regeni per farne tesoro a livello di comunità. E’ ormai chiaro che Giulio è stato torturato, non è stato ucciso per odio privato o criminalità comune. C’è orrore e sdegno per questa vicenda, ma permane un paradosso dietro questo pur sincero sentimento collettivo, che si percepisce: si è già ricordato in questi giorni, ma è giusto rimarcarlo, che è l’Italia per prima a non riconoscere, nel proprio codice penale, un formale reato di tortura.
Ciò nonostante la ratifica più di venticinque anni fa della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984; ciò nonostante in sede parlamentare si siano succedute, e si siano abortite, decine di disegni di legge in materia; ciò nonostante la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia condannato l’Italia della scuola Diaz di Genova espressamente per vicende di tortura, e si appresti a condannarla ancora per quelle di Bolzaneto, a memoria di quello che sappiamo può accadere nelle nostre caserme e nei nostri istituti penitenziari, dove affidiamo l’incolumità di un cittadino allo Stato o a chi per lui (il caso Cucchi è qui, ancora aperto, mentre scriviamo, ad interrogarci).
Sarebbe un bel gesto, mentre ci indigniamo giustamente e con forza per vicende insieme vicine e lontane, riflettere alla luce di queste cose su quello che ci accade intorno, anche più vicino, e indirizzare produttivamente le nostre reazioni: è stato già proposto da qualcuno, e qui solo ci si associa, che per commemorare il nome di Giulio si chiami Legge Regeni qualcosa di così atteso ed importante come una legge italiana sul reato di tortura, in memoria di un giovane italiano torturato qui ed ora, e perché si possa dimostrare, più che con tanta retorica, che dagli orrori della vita si può talvolta apprendere davvero.

Leonardo Pierdominici
research associate European University Institute, Firenze, e Università di Bologna

Un incontro con l’Islam nelle foto di Andrea Brintazzoli

Foto di Andrea Brintazzoli
Foto di Andrea Brintazzoli

Possono delle foto semplici e spontanee raccontare una cultura così complessa come quella musulmana? Andrea Brintazzoli, fotografo professionista, si è posto questa sfida e si è lasciato guidare dalla curiosità di conoscere i volti e le abitudini dei componenti della Comunità Islamica di Bologna (CIB) per far emergere i loro valori di appartenenza e contrastare i pregiudizi più comuni.
Foto di Andrea Brintazzoli
Foto di Andrea Brintazzoli

In una serie di foto che hanno occupato la manica lunga dello storico e prestigioso Palazzo D’Accursio, dal 2 all’11 aprile, ha accompagnato il pubblico all’interno del Centro di via Pallavicini di Bologna e della moschea An-Nur, dedicando grande attenzione ai momenti comuni della vita quotidiana, alle usanze legate alla rottura del digiuno durante il mese di Ramadan e, infine, alla gestualità, caratterizzante le fasi della purificazione e della preghiera dei fedeli.
Questo avvicinamento al mondo musulmano si è rivelato efficace sia dal punto di vista generazionale sia comunicativo. La narrazione è partita, infatti, con un racconto genuino dei bambini, fotografati spesso in momenti della vita quotidiana, ad esempio, mentre giocano con lo scivolo oppure mentre maneggiano il tablet. Il pubblico è stato così interpellato non solo in qualità di osservatore, ma anche come testimone di questi eventi, come se a quest’ultimo fosse riservato il posto del fotografo.
In particolare, una delle foto ci porta nel bel mezzo dell’incontro tra bambini musulmani e cristiani. Si percepisce un forte senso di unitarietà tra i presenti: le uniche differenze nella fotografia sono legate alla varietà dei colori degli abiti che non lasciano trasparire l’appartenenza ad una religione specifica, non essendo contraddistinti neppure dal velo. Sono tutti seduti per terra e osservano qualcosa di non visibile ai nostri occhi. Probabilmente neppure a quella bambina che, con naturalezza, si alza in piedi, emergendo rispetto al resto del gruppo.
È completamente assorta nel contesto e nel suo ruolo allo stesso modo dell’insegnante di arabo, che Andrea Brintazzoli fotografa proprio durante la lezione. La testa leggermente china verso il libro e il movimento delle pagine del testo di lingua araba che sfoglia in quel momento fa capire che ci troviamo in un momento di pausa dalla spiegazione. Dietro di lei si intravede la lavagna con alcuni simboli in arabo, che non distolgono l’attenzione dal suo sguardo disteso e concentrato. Il suo volto che evoca sicurezza e decisione è coperto dal velo islamico, conosciuto col nome di hijab. Come lei, anche le donne, che vedremo nelle foto successive, indossano questo particolare tipo di capo all’interno del centro. Inoltre, la volontà del fotografo di catturare i volti femminili isolati da quegli degli uomini serve a valorizzare le loro espressioni.
Andrea Brintazzoli sembra ricercare sempre un incontro casuale con i protagonisti di questo racconto culturale. Nella foto dedicata alla rottura del digiuno, che ci accompagna verso la conoscenza di un caratteristico rituale musulmano, diversi ragazzi prendono un bicchiere di latte e una mandorla come segno di fine del mese del Ramadan. In questo particolare momento, uno di loro guarda dritto verso la fotocamera, distinguendosi così da tutti i suoi compagni e mettendo in evidenza il gesto del braccio che protende verso il bicchiere. Si apre così l momento clou della mostra, quello dedicato alla gestualità. Si coglie dalla prospettiva scelta e dalle linee messe in evidenza che un’attenzione quasi maniacale è dedicata all’ordine con cui i fedeli si dispongono sulle file. È evidente la delicatezza del momento, immortalato con profondo rispetto, di spalle rispetto ai soggetti. Implicito questo anche nella rappresentazione delle tappe della purificazione: uno dei fedeli raccoglie l’acqua per purificare le varie parti del corpo con la mano destra, considerata la più pura. I piccoli gesti catturati in questi scatti trasmettono l’intensità della preghiera: dalla posizione delle braccia alle azioni eseguite con le mani sino alla prostrazione del corpo.
Foto di Andrea Brintazzoli
Foto di Andrea Brintazzoli

Seguendo le rappresentazioni dei movimenti di riverenza dei fedeli, ci troviamo di fronte alla foto di chiusura dedicata lettura sacra dell’Islam, il Corano. Guardando le pagine aperte del libro, percepiamo che quella religione si è rivelata a noi così come è accaduto secoli fa per i seguaci di Maometto.

PROSPETTIVE DI VOTO: FRA REFERENDUM E CAMBIAMENTO CLIMATICO

Foto di Greenpeace
Foto di Greenpeace

La democrazia non fa per tutti, ma vi dirò di più: la democrazia non fa proprio per chi il 17 aprile si asterrà dal partecipare alla consultazione referendaria in materia di trivellazioni in mare; semplicemente, non si può addurre a banali scuse e giustificazioni per poter legittimare la propria posizione di inerzia politica, sociale, mentale.
Il quesito “superstite”, unico sopravvissuto alla scure della Corte Costituzionale, ha ad oggetto l’abrogazione o meno della disciplina legislativa in materia di concessioni per la trivellazione in mare entro le 12 miglia, nella parte in cui prevede che la durata delle concessioni possa protrarsi sino alla “vita utile del giacimento”: l’eventuale vittoria del “SI”, previo raggiungimento del quorum (circa 26 milioni di italiani), comporterà semplicemente la costituzione di un termine legale di durata della concessione. Sminuire l’entità di questa consultazione e ostacolarla direttamente e indirettamente, è una strategia emblematica dal punto di vista tattico, una strategia che dimostra ancora di più quanto sia importante esprimere il nostro voto, che va al di là del semplice quesito: é un voto che potrebbe davvero lanciare un segnale forte in tema di riduzione dell’utilizzo di fonti energetiche combustibili fossili, causa principale di emissioni di CO2 e del conseguente fenomeno del “cambiamento climatico”. Le prospettive di un voto compatto a favore del “SI” sono molto lungimiranti: per la prima volta possiamo essere chiamati ad esprimere la nostra idea su come impostare la politica energetica dei prossimi anni e non possiamo più prescindere dal considerare la lotta al cambiamento climatico come prioritaria in assoluto. L’IPCC (International Panel on Climate Change) avverte sulla necessità, ormai improrogabile, di ridurre del 95% le emissioni di CO2 entro il 2050 solo per poter contenere il surriscaldamento globale entro i 2°C. Attualmente le emissioni dei cosiddetti “gas a effetto serra”, come riporta l’Agenzia Europea per l’Ambiente, sono provocate essenzialmente da “combustione di carburanti fossili (carbone, petrolio e gas) nella produzione di energia, nel trasporto, nell’industria e nell’uso domestico (CO2), nell’agricoltura (CH4) e le modifiche della destinazione dei suoli come la deforestazione (CO2), la messa a discarica dei rifiuti (CH4), l’utilizzo dei gas fluorurati di origine industriale”.
I rischi connessi a una costante sottovalutazione del cambiamento climatico da parte di Governi e Imprese impegnate nel settore energetico potrebbero rivelarsi fatali nell’immediato futuro, come riporta uno studio condotto da Legambiente.
Le possibili conseguenze di un inefficiente apporto normativo ed economico sul tema comporterebbero irreversibili desertificazioni delle zone più calde del Pianeta, un assoluto aumento di fenomeni disastrosi quali inondazioni e alluvioni, una disastrosa compromissione degli ecosistemi naturali, un innalzamento del livello dei mari tale da mettere in pericolo le popolazioni delle zone costiere e tale da intaccare, attraverso le infiltrazioni di acqua salata, la disponibilità di acqua dolce, una proliferazione di forme patologiche, nonché, come conseguenza di queste radicali modificazioni, un ingente fenomeno migratorio dovuto all’invivibilità assoluta con la quale determinate zone dovranno fare i conti.
La fine non è vicina, tuttavia, abbiamo ancora la possibilità di ridurre i rischi connessi al climate change: proprio oggi la Costa Rica, come riporta l’Independent, celebra i suoi 75 giorni di fornitura energetica green ai suoi abitanti, un risultato esemplare che già da subito ha mostrato i suoi effetti positivi con un aumento consistente delle piogge. Essere consapevoli della situazione reale è il primo e fondamentale passo per modificarla; tutti i settori scientifici devono in via prioritaria occuparsi del contrasto al cambiamento climatico, come forma principale di tutela ambientale, e noi stiamo ancora parlando di trivellazioni? Questo referendum si mostra funzionale alla manifestazione di una volontà coesa verso l’utilizzo di rinnovabili come fonte prioritaria di approvigionamento energetico, e questo è possibile nell’immediato. La politica di contrasto all’effettiva utilità di questo referendum dimostra esclusivamente la volontà di mantenere uno status quo non più sostenibile: gli ostacoli conseguenti al mancato accorpamento del referendum alle elezioni amministrative o alla difficoltosa possibilità di votare “fuori-sede” per studenti e lavoratori sono lo specchio di una preoccupante opera di minimizzazione della partecipazione sociale alla politica attiva.
Vorrei proporvi, in coclusione, oltre a quanto detto sino ad ora, poche ragioni per le quali è necessario votare, in primis, ma soprattutto votare “SI”:
– rendiamo effettivo il nostro diritto alla cd “democrazia diretta”, dimostriamo che le risorse investite per i referendum non sono sprecate, dimostriamo di essere consapevoli e non passivi ricettori nella società moderna;
– chiediamoci quali sono le potenzialità economiche del nostro Stato e cerchiamo di darci una risposta, davvero l’approvigionamento di combustibili fossili è la nostra potenzialità? Davvero preferiamo mettere da parte la nostra ricchezza ambientale per un “pugno di barili”? La green economy è l’obiettivo principale e per raggiungerlo non possiamo più permetterci di prendere le parti di poche lobby del petrolio svendendo il nostro mare in cambio del 7% delle estrazioni (fra le royalties più basse al mondo);
-c’è una falsa convizione che attraverso le trivellazioni l’Italia riuscirà a recedere la dipendenza energetica dall’estero, quanto di più falso;
-un voto sociale e la costituzione di una grande coalizione per la transizione energetica impegnata anche sul fronte del climate change possono rappresentare i primi benefici “oltre quesito” di una vittoria dei “SI”.
Il 17 aprile va’ a votare “SI”, perché qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare è possibile finché la Terrra sarà in grado di accoglierti: “L’uomo appartiene alla Terra. La Terra non appartiene all’uomo”(Toro Seduto). Buon voto!

IL BUGIARDINO MUSICALE: Tre Allegri Ragazzi Morti – Estragon, Bologna

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L’allegria è uno di quei sentimenti che sperimentiamo nelle situazioni più inaspettate e che rischiamo spesso di precluderci per colpa di piccole sciocchezze: paranoie, un evento fastidioso, una preoccupazione precoce. Come ritrovare un po’ di spensieratezza nascosta sotto il mantello dei pensieri negativi? Io ho scelto la medicina dei Tre Allegri Ragazzi Morti, l’altra sera in concerto all’Estragon di Bologna.

INDICAZIONI: La band nasce nel 1994 nella città di Pordenone. Il nome prende spunto dal fumetto Cinque allegri ragazzi morti di Davide Toffolo, che oltre a essere il cantante è anche un acclamato fumettista italiano. Nel 2000 inoltre il bassista Enrico Molteni fonda l’etichetta discografica La Tempesta, collettivo di musicisti indipendenti. Dopo una lunga carriera e la sperimentazione di tanti generi musicali (punk, rock, reggae, dub, swing) arrivano a presentare il loro ultimo abum Inumani.
COMPOSIZIONE: Davide Toffolo (chitarra e voce); Enrico Molteni (basso); Luca Masseroni (batteria e voce). In questo tour: Andrea Maglia (chitarra); Adriano Viterbini (chitarra, Bud Spencer Blues Explosion).
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: Essere morti dentro e allo stesso tempo rallegrarsi di questo è un ossimoro possibile se si ascoltano i TARM.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: Non potrete adeguarvi a nessun genere musicale, perchè dopo aver collaborato con Jovanotti di sicuro li hanno sperimentati tutti! Sì, sembra strano ma c’è gente che poga anche in brani tranquilli come Di che cosa parla veramente una canzone.
DOSI CONSIGLIATE: No ok, i cd sono troppi da elencare. Vi basti sapere che nel complesso sono undici e che l’ultimo album in studio è Il giardino dei fantasmi (2012, La Tempesta Dischi).
MODALITA’ D’USO: Direi che il catalogo sia piuttosto vasto, basta scegliere a piacimento musica e parole.

Eccoci all’Estragon di Bologna: verso le nove il locale è gia piuttosto pieno e si è già formata la calca sotto palco. Ad aprire il concerto sono i Honeybird & the Monas, mentre verso le dieci arrivano i Tre Allegri Ragazzi Morti. Il gruppo presenta l’ultimo album Inumani pubblicato lo scorso marzo. L’idea di fondo sta nel rendersi conto del ricambio generazionale: “Questo è un momento di passaggio: la tecnologia ci sta trasformando. Non siamo più umani. Non come lo eravamo” dice lo stesso Davide Toffolo in un’intervista su Repubblica. Ma il disegno complessivo del disco non appare così omogeneo come altri album – Primitivi del futuro – è un insieme di suoni vecchi e nuovi senza un preciso filo conduttore, ma con vari picchi e discese in mezzo a testi tipici dei TARM ed altri in collaborazione con vari artisti del panorama italiano (ad esempio Jovanotti o Pietro Alosi del Pan del Diavolo).
Il concerto inizia con la lenta ballata di A un passo dalla luna, forse il pianeta preferito del songwriter dato che compare regolarmente in molti suoi brani. Le chitarre sferzano di rock nella successiva La più forte. Si susseguono altri quattro pezzi dell’ultimo album che dopotutto stanno presentando nel loro tour: Libera è sicuramente una delle migliore canzoni, un brano quasi funky-soul scritto per loro da Vasco Brondi de Le luci della centrale elettrica. Con un inizio un po’ fastidiosamente pop ma un finale più soddisfacente, Persi nel telefono sembra ricordare le premonizioni del cantante sull’uomo sempre più “inumano” a causa della tecnologia e di una società in continuo cambiamento. “Prima erano in cinque a scrivere canzoni che cantavan tutti/adesso tutti quanti scrivono canzoni che qualcuno canterà” dice il testo, ma il giudizio personale sembra soffermarsi su un ambiguo ottimismo, perché cambiamento non vuol dire per forza peggioramento. Arriva C’era una volta ed era bella, una ballata forse un po’ troppo smielata seppur nelle corde del gruppo: non che quest’ultimo non abbia mai trattato d’amore, tutt’altro, ma se si sente l’ultimo cd tutto di seguito sembra quasi che la band abbia strizzato l’occhiolino a quella parte del suo auditorio femminile più propiamente “pop”. Si passa a Ruggero (forse la seconda canzone migliore dell’album) e a sonorità più tipiche dei TARM di una volta. E’ qua che appare evidente il confronto con le generazioni passate: “E poi si guarda le mani/tutto è cambiato/quanti anni son passati/che gli vien da ridere“.
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Con il passato infatti devono ormai avere a che fare, perché per ora il pubblico si è divertito ma non scatenato così tanto come nel momento in cui compaiono le vecchie canzoni Quasi adatti, Il principe in bicicletta e la famosissima Occhi bassi. In seguito, è un piacere sentire La poesia e la merce e le sue parole colorate di anticonsumismo: “E sempre allegri bisogna stare/anche se si può solo comperare/la liberà non si compera/ma la possiamo cantare“. Si passa da un’acustica Ogni adolescenza per poi sfociare nel reggae di Puoi dirlo a tutti. Simili sonorità d’oltreoceano proseguono in La faccia della luna (che torna anche qui) e in due brani dell’ultimo album: E invece niente, scritta in collaborazione con la cantante Maria Antonietta e In questa grande città (la prima cumbia), primo singolo e discusso feautring con Jovanotti. Si ritorna al penultimo disco con I cacciatori (in versione semi acustica) e La via di casa.
All’arrivo di I miei occhi brillano non resisto più e mi butto nella mischia per pogare un po’. Il gruppo esce dal palco e il pubblico lo acclama. Non tutti sanno dei giochi di botta e risposta che avvengono col cantate in ogni loro concerto, così dopo qualche tira e molla di ringraziamenti e offese, la band ci concede un encore.
Si ritorna più carichi che mai anche grazie ai virtuosismi di Adriano Viterbini, membro dei Bud Spencer Blues Explosion, a mio parere uno dei più bravi chitarristi italiani. Ed ecco il ritornello di La mia vita senza te accompagnato dalle note favolistiche di Alle anime perse. Si torna a saltare e urlare con le canzoni Voglio e con la tanto acclamata Il mondo prima. Di che cosa parla veramente una canzone è il tema di tanti testi condivisi con il pubblico, una ballata tanto allegra quanto malinconica così come la politica della band, sempre propositiva verso il futuro e sempre debitrice del suo passato. Ma non si può non terminare con il motivetto de La tatuata bella, cantato all’unisono senza strumenti con la parte del pubblico che la conosce.
Il concerto è terminato. Davide Toffolo ringrazia i loro fan vecchi e nuovi: “E’ grazie a gente come voi che in questi anni abbiamo potuto suonare! Siete la meglio gioventù!“. Sicuramente non è una casualità quella citazione del suo adorato Pasolini. E sicuramente non è neanche un caso che, nel pullman di ritorno a casa, mi accorgo di essere decisamente molto più allegro di prima.

La mafia uccide solo d’estate

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Primo appuntamento con il ciclo “Alla luce del sole”, cineforum organizzato dalla Sinistra Universitaria sul delicato tema delle mafie in Italia. La rassegna si apre con il film La mafia uccide solo d’estate, sorprendente rivelazione del conduttore televisivo Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto. La proiezione è stata introdotta dal prof. Davide Bertaccini, docente di Diritto Penitenziario presso la Scuola di Giurisprudenza dell’Alma Mater.
Dopo decenni di mancanze, Pif riesuma il cinema di denuncia e di impegno sociale degli anni addietro, analizzando, attraverso un’ottica più ingenua e moderata, l’annosa questione che tiene vincolata l’Italia, ed in particolare la Sicilia, ad uno dei suoi maggiori problemi. Pif racconta la Mafia in maniera pacata e ironica, adottando un registro che si discosta pesantemente dal classico filone da film di denuncia per virare su uno stile più improntato alla commedia. Stile che, come ha giustamente affermato il prof. Bertaccini, ricorda molto La vita è bella di Roberto Benigni, pellicola memorabile che riuscì nell’intento di parlare dei campi di concentramento nazisti in maniera più leggera.
Cos’è la mafia? Diliberto risponde a tale domanda narrando in prima persona la storia della vita di Arturo – suo alter ego – un bambino palermitano figlio di una modesta famiglia che si innamora inaspettatamente di Flora, sua compagna di classe. La quotidianità di Arturo è ripetutamente scossa da violenze e ingiustizie che ogni giorno si riversano sulla città e i suoi cittadini. Con occhio vigile e attento Pif racconta la sua vita, i suoi amori proibiti, la passione per il giornalismo e la realtà difficile e ostile di vivere in un paese affetto da un male (in)curabile. Una trama semplice e convenzionale infarcita di alcuni personaggi fin troppo squadrati e poco originali, il padre di Arturo e l’amico giornalista, e da alcune situazione per le quali è possibile prevedere la sorte, la scalogna del protagonista, ma che di certo non vira alla spettacolarizzazione dei suoi contenuti, bensì alla riflessione. Armato di sorrisi e momenti di ilarità Pif tenta di sconfiggere le paure e l’indifferenza che affliggono il suo Paese, offrendo una visione rosea e positiva della vita piuttosto che una rappresentazione schietta e demoralizzante della realtà.
Non un grande attore ma sicuramente un grande narratore capace di addentrarsi nei meandri del tema della mafia – che conosce molto bene – riuscendo sapientemente a farne emergere i contenuti più importanti, nonostante nel film costituiscano la sotto trama scenica, che accompagna la storia d’amore di Arturo e Flora.
Nella bellissima e struggente scena finale Diliberto esprime tutta la sua speranza trasmettendo alle generazioni future, il figlio, la necessità di mantenere vivo il ricordo di quelle grandi persone che hanno dato la vita affinché l’Italia lottasse contro l’oppressione del sistema mafioso. Arturo non tiene celata al figlio la verità, ma gliene parla con consapevolezza e buon senso così da prepararlo perché la riconosca assieme alle giuste cause per le quali nella vita vale la pena lottare.
Un film speranzoso ed estremamente positivo che insegna a rincorrere i propri sogni e a fronteggiare qualsiasi problema con amorevoli sorrisi e buon umore, le uniche armi in grado di contrastare anche il peggiore dei mali, complimenti Pif.

Chi non rischia non vince

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Il 6 maggio 2014 andava in onda in prima TV su SkyGomorra-la Serie, ispirata all’omonimo romanzo di Roberto Saviano, e da lui stesso ideata. Così come hanno fatto discutere il libro e il seguente adattamento cinematografico del 2008 diretto da Matteo Garrone, anche la serie, seppur discostandosi per trama e costruzione dalle due opere anzidette, è stata al centro di dibattiti, probabilmente alla luce della maggiore risposta ricevuta dal pubblico.
I 12 episodi della prima stagione sono stati suddidivisi tra tre registi diversi: Stefano Sollima, già noto per l’ineccepibile lavoro fatto con “Romanzo Criminale- la serie“, Francesca Comencini e Claudio Cupellini. Ad ognuno di loro è stato affidato il compito di approfondire autonomamente le vicende dei singoli personaggi, creando così profili psicologici particolari e permettendo di coglierne le peculiarità, attraverso gli occhi diversi di ciascun regista.
Il merito principale da riconoscere alla serie è il realismo che padroneggia dialoghi e vicende, prima di tutto per l’ampio, talvolta esclusivo utilizzo del dialetto napoletano, ma soprattutto per le ambientazioni e i luoghi: Napoli infatti fa sì da sfondo, ma è essenziale al susseguirsi degli eventi. Ambientata principalmente qui, ha come protagonisti i clan camorristi dei Savastano e dei Conte, rivali nella gestione del traffico di armi e stupefacenti, non solo in Italia ma anche all’estero.
Il complesso ‘Sistema camorra‘ viene sviscerato in ogni sua forma ed espressione, mettendone in luce gli aspetti e le caratteristiche maggiori. Innanzitutto emerge il funzionamento dello spaccio nei quartieri popolari, quindi il traffico vero e proprio di stupefacenti, con il coinvolgimento di paesi esteri produttori e distributori di droga; poi affiora l’espansione al Nord Italia della camorra, che costituisce una presenza latente, in larga parte nell’ambito edilizio, dimostrando che nessuna regione risulta esserne immune, così come il mondo della politica non ne è estraneo e si sottolinea l’ingerenza camorrista nelle elezioni di persone selezionate e manovrate, attraverso la manipolazione delle votazioni; si evidenziano l’essenzialità e la funzionalità delle figure femminili nei clan, accentuando la centralità e la devozione per la famiglia, e infine le lotte esogene nonchè intestine allo stesso clan. Tutti questi fattori sono legati da una scia di violenza e da una crudeltà di fondo, che riportano la finzione romanzata alla drammatica realtà effettiva.
Quando si ha a che fare con la trattazione di temi così delicati, che toccano quotidianamente i nostri connazionali partenopei e non solo, il rischio che si corre è duplice: da un lato, descrivendo determinati eventi e personaggi si rischia di generalizzare, rendendo certe situazioni facilmente etichettabili in modo non veritiero da chi non appartiene a questa realtà o non conosce questi luoghi; dall’altro, quando i protagonisti sono dei criminali, è facile purtroppo esaltarli idealizzandoli nella finzione cinematografica, ed avendo avuto un impatto mediatico così forte soprattutto sui più giovani, si è rischiato di farli diventare dei modelli venerabili.
Tuttavia, la serie è riuscita poichè, sul filo del rasoio, ha evitato di cadere in questi cliché, perchè “chi non rischia non vince“, e Saviano e collaboratori hanno osato, senza strafare. La serie ha riscosso infatti un grande successo: oltre ad essere stata venduta in più di 50 paesi all’estero, ha meritato di essere trasmessa su Rai 3 anche l’anno seguente e poi nuovamente nelle sale cinematografiche italiane.
Successo da riconoscere non solo all’idea di Saviano, ma soprattutto agli attori che hanno saputo rivestire i ruoli da lui creati.
In primis il boss don Pietro Savastano, interpretato da Fortunato Cerlino, un uomo dall’aspetto ordinario, quasi innocuo, ma nei fatti un freddo e abile calcolatore, che confinato in carcere sotto il regime speciale del 41bis, si trova costretto a passare le redini materiali al resto della famiglia, rimanendo comunque in sordina il capo effettivo. Emergono quindi altri personaggi, come il figlio Gennaro (Salvatore Esposito), un ragazzo viziato e immaturo, estraneo alle faccende del clan, rispettato per semplice timore reverenziale nei confronti del padre, e solo dopo l’arresto di don Pietro comincia a rivestire un ruolo centrale, inserendosi nel meccanismo. Accanto a lui, assume rilievo Ciro “L’immortale” Di Marzio (Marco D’Amore), giovane tra gli uomini fidati del boss, che si ritrova a dover iniziare Genny al sistema e ad occuparsi del clan. Ma il capofamiglia è essenzialmente affiancato dalla moglie Donna Imma (Maria Pia Calzone), una donna sicura ed autoritaria, sua principale spalla e consigliera, che resta dietro le quinte guidando il figlio sino a partecipare attivamente agli affari in assenza del marito. Infine a capo del clan rivale si trova Salvatore Conte (Marco Palvetti), un soggetto inquietante, fortemente religioso e devoto, ma al contempo spietato e astuto, che in seguito ad aspri conflitti con i Savastano, si rifugia in Spagna per gestire autonomamente il proprio potente traffico di droga.
Accanto a questi anche gli attori non protagonisti hanno dato un valore aggiunto; ognuno di loro ha interpretato il proprio ruolo con grande professionalità e credibilità, mettendo in luce qualità’, elementi distintivi e psicologici di ogni personaggio, permettendo così allo spettatore di coglierne le sfaccettature e la maturazione nel corso della storia.
Probabilmente dopo l’omonimo romanzo, è il miglior lavoro realizzato dal giornalista, che nel 2006 ha detto: “il fatto che in questo momento ne stiamo parlando, che ne parlano tutti i giornali, che continuano ad uscire libri, che continuano a nascere documentari, è tutto questo che le organizzazioni criminali non vogliono, è l’attenzione su di loro, e soprattutto sui loro affari“. È quindi chiara ed emblematica la volontà di non smettere di denunciare questi fenomeni dilaganti, in ogni forma di comunicazione possibile, per l’amore viscerale che lui, come i suoi conterranei, provano per la città di Napoli.
In attesa dell’imminente uscita della seconda stagione, il consiglio per coloro che non l’avessero ancora vista e’ quello di rimediare per evitare di essere colti impreparati, e per gli appassionati di riguardarla per rinfrescare la memoria e poterne apprezzare il seguito appieno.

RIFLESSIONI DI UNA SETTIMANA ANTIMAFIA

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Una settimana impegnativa per l’Antimafia bolognese e nazionale, ma non solo: una settimana impegnativa per tutta la società civile. All’indomani della presentazione in prima serata del libro di Salvo Riina sulla vita di suo padre, la Scuola di Giurisprudenza di Bologna inaugura la seconda parte seminariale del corso di Mafie e Antimafia tenuto dalla Prof.ssa Pellegrini , in cui il primo ospite l’illustre è stato Don Luigi Ciotti. Si è parlato e si continua a parlare dell’inopportunità con la quale un servizio pubblico come la RAI abbia permesso di dare spazio a questo imbarazzante tentativo di umanizzare la figura di uno stragista, un criminale, Totò Riina, che, compiaciuto, osservava snodarsi le stragi come da lui pianificate. L’altra sera è stata fatta pubblicità alla sua carriera criminale per lui comoda, per noi indelicata. Compiaciuti però non sono affatto i parenti delle vittime innocenti di mafie, che, anzi, solo grazie all’immenso lavoro di Don Luigi Ciotti e Libera hanno avuto un vero riconoscimento, una vera memoria: i loro nomi ogni anno sono scanditi a gran voce nelle piazze d’Italia, perché possano essere ricordati e perché possano risuonare nelle coscienze malate di chi considera l’intimidazione un’arma di potere e successo. “Etica, primo argine contro l’illegalità e nutrimento per la legalità”- queste le parole di Don Ciotti, agli studenti, a noi studenti, sul significato dei valori profondi che dovrebbero caratterizzare le figure professionali del domani: “non parliamo di etica delle professioni, ma di etica come professione”. Un discorso carico di pathos, carico di voglia di continuare a lottare, nonostante tutto. Una voglia di lotta che Don Ciotti ha trasmesso a tutti noi studenti, una voglia di lavorare affinchè il nostro Paese riconquisti credibilità a partire dalle Istituzioni. “Le mafie non sono un mondo a parte, ma parte del nostro mondo”- prosegue: ritenere i soprusi mafiosi come eventi lontani dalla nostra quotidianità è quanto di più errato si possa pensare, e per quanto possa essere difficile ammettere che anche in determinati contesti sociali del nord Italia la presenza delle mafie sia sempre più preponderante, dobbiamo trovare il coraggio e la forza di denuciarne l’esistenza.
C’è una mafiosità diffusa che è il vero patrimonio delle mafie”- aggiunge Don Ciotti, una mafiosità che consente alla criminalità di fare affari in tutto il nord in un sistema di commistione inquietante tra economie legali e illegali: “non stanno solo cercando di riciclare i soldi al nord, ma stanno cercando di conquistarlo”, questo riporta il Prof. Nando Dalla Chiesa, anche lui ospite nell’ambito dell’attività seminariale.
I luoghi di incontro di questi soggetti non sono lussuose suites di grattacieli milanesi, ma sono bar, ristoranti, al piano terra, perché “la ‘ndrangheta si muove dal basso”, e giova di quella mafiosità diffusa, terreno fertile per affari e relazioni. Nel milanese, uno studio condotto sulle uscite dei Vigili del Fuoco per incendi dolosi ha portato alla quantificazione di un incendio ogni due giorni: l’incendio, simbolo del linguaggio mafioso intimidatorio per eccellenza, affermazione di potere e controllo del territorio: “l’incendio è la falange con cui l’impresa mafiosa avanza” sostiene Dalla Chiesa, ma chi ne parla? Perché non riusciamo a collegare gli eventi di cronaca? O perché non ce lo consentono?
Di qui la grande responsabilità della stampa per riaffermare quel tipo di informazione che Enzo Biagi sognava così: “Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ‘vendicatore‘ capace di riparare torti e ingiustizie, ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo.
Il nostro mondo ha bisogno di vendicatori, ha bisogno di persone che non si spaventano e non si lasciano intimidire, perché la paura è l’arma di manipolazione più efficace e ci rende piccoli, deboli. Non possiamo più permettere che la nostra economia sia erosa dall’interno, affetta da parassitismo criminale: urge la concreta necessità di rinvigorire il concetto di bene comune, di solidarietà e di legalità. Ci fanno credere che il problema siamo noi, che siamo troppi per avere diritto a un lavoro giusto per noi e per la società, che non abbiamo possibilità di ospitare quei rifugiati che facciamo morire fuori le frontiere per il nostro egoismo, ci fanno credere che la mafia sia in qualche stanza nascosta, ci fanno credere che tutto sia sotto controllo, mentre l’ombra delle “terre dei fuochi” si abbatte prepotente e mentre gli affari delle mafie su cemento, lavori pubblici, ristoranti, pizzerie, alberghi, turismo proseguono a gonfie vele; ci fanno credere che i problemi siano altrove, al di fuori della nostra coscienza, ma è proprio lì che sono, all’interno di noi stessi.
Bisogna prendere posizioni nette, se vogliamo un mondo migliore, non perfetto, ma migliore: non possiamo demandare continuamente responsabilità ad altri, partiamo da noi stessi, miglioriamo noi, sdegniamo piccoli favoritismi, non sottomettiamoci al crimine organizzato, parliamo a gran voce di ciò che non ci va bene: “la democrazia si fonda su due doni: giustizia e dignità, ma ha bisogno di stare in piedi con l’impegno”.

Catalogo dei significati di una donna

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Roberta, Piazza Santo Stefano, Bologna – foto di Giovanni Andreani

Impazienti, appassionate, rancorose. Si dispiacciono per cose a cui un altro non avrebbe fatto caso e non credono affatto che il caso sia solo casuale. Dietro tutto c’è un destino, un disegno, una rete intrecciata male o un lenzuolo che gli ricorda il letto di qualcuno con cui hanno fatto l’amore.
Si sentono capite in una maniera diversa da come si capiscono dentro. E la realtà sarà sempre uno specchio meno chiaro di quanto non lo sia il loro camerino interiore. Hanno tanta fretta di andare via dalla vita degli altri quando si accorgono che non ci potrà essere niente oltre il dolore, ma muoiono ogni volta che si rendono conto di non avere piantato radici dentro di loro.
Lavorano senza guardare l’orologio, e non ci sono calendari dove siano segnate ferie per i sentimenti, per i pensieri sul significato delle cose che vivono, per le analisi minuziose e amplissime sulla fragilità delle emozioni che non hanno scelto di provare.
Hanno figli, amiche, amici, madri, padri e sono tante volte sole anche quando hanno accanto una compagnia immensa intorno, associano sempre un silenzio alle parole urlate e non si abitueranno mai alla pochezza di alcuni gesti che continueranno a stridere anche quando poi diventeranno ricordi. Parlano al telefono e scompongono spesso la voce. Hanno il desiderio di raccontare tutto, anche più di quello che è accaduto.
Hanno fiducia nel futuro perché sanno che in parte dipende quanto decideranno di crederci. E non solo perché saranno loro a fare i figli, ma perché non se la sentono di non dare una possibilità a una cosa che ancora non conoscono.

Rimpiangono la mancanza di poesia nei discorsi degli uomini, e non riescono a rinunciare a costruire una realtà parallela dove creare e far vivere personaggi che non esisteranno mai completamente se non in quel nido, in quello spazio protetto.
Aspettano con ansia il giorno in cui qualcuno consegnerà loro la chiave per capire cosa c’è dietro il senso di ogni attesa e hanno come una malattia per la ricerca della felicità. Solo il tempo guarirà questa smania in un bisogno pacifico di una serenità che è già abbastanza.
Fanno politica, quella pubblica e quella privata. E sanno che gli altri non si convincono con comizi affrettati, ma più con i fatti. Con i sacrifici per prendersi cura di loro. Sono polemiche nei confronti del potere, anche quando lo posseggono esse stesse. Hanno consapevolezza di come sia una cosa molto grande, ma sempre assai minore rispetto al potere di criticarlo.
Hanno voglia di non perdersi niente di tutto il bene e di tutto il male. C’è una goccia piccolissima di volontà anche nel dolore che gli capita. E un’altra di masochismo nell’ affezionarsi ad allegrie e a momenti che esercitano fascino proprio perché esercitano dolore.
Se qualcuno le attacca, si difendono in una maniera che non replica le mosse dell’avversario. Coltivano strategie molto più sofisticate della paura che fanno le parole che feriscono.
Conversano con più di una persona alla volta. Sanno soppesare la rabbia con l’ironia, e l’intelligenza con la leggerezza. I discorsi conservano un volume anche quando finiscono e nessuna parola è andata per sempre sprecata.
Trovano nei posti ragioni essenziali per restare, e hanno l’abitudine di confessare al proprio bisogno di rimanere anche il proprio bisogno di andare via.

Virginia, Isola, Milano - foto di Giovanni Andreani
Virginia, Isola, Milano – foto di Giovanni Andreani

Camminano, fanno la spesa, viaggiano, con la stessa profondità con cui leggono un libro. Non sono cose uguali, ma in ogni azione banale c’è sempre il senso di una ricerca che va al di là del senso apparente. Il finale del libro, il luogo dove arrivano dopo una lunga passeggiata, sono sempre più che posti, sono cose da raggiungere senza smettere di guardare e di capire il resto.
Non credo siano esseri superiori. Nemmeno inferiori. Credo siano, esistano. Come gli altri, ma diversamente da loro.

Imporre la legalità, educare alla legalità: l’Alma Mater e il dibattito sulle ronde

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È stato vivace il dibattito in Senato accademico la mattina del 15 marzo, quando è stata sollevata la problematica della sicurezza all’interno della zona universitaria, o meglio, di come la questione è stata affrontata dall’Ateneo di Bologna. Domenica 6 marzo 2016, un articolo del Corriere della Sera riportava una notizia destinata a fare scalpore: l’Università di Bologna finanzia delle ronde armate nella zona universitaria, per salvaguardare la sicurezza del personale che ogni giorno lavora all’interno della più antica università del mondo occidentale (curioso come il Corriere parli solo dei lavoratori dell’università, senza ricordarsi del fatto che la stragrande maggioranza della popolazione dell’Alma Mater è composta da non lavoratori, ossia da studenti). Il rettore fin da subito ha difeso la sua scelta, affermando che non è giusto qualificare il servizio come ronda, ma piuttosto si dovrebbe parlare di guardiania. Un tipo di precauzione già attiva, in diversi palazzi dell’Ateneo, fra i quali il plesso di via Belmeloro, che ospita buona parte della popolazione studentesca della Scuola di Giurisprudenza, tanto da essere definita dal rettore stesso come una misura di ordinaria amministrazione.
Le voci critiche hanno fatto, giustamente, notare come la guardiania non abbia niente a che vedere con il provvedimento messo in campo da Unibo: le nuove guardie, infatti, non si limitano a presidiare gli edifici, ma pattugliano le strade di via Zamboni. D’altro canto, per quanto riguarda la palazzina di Belmeloro, il servizio si limita al cortile stesso dell’edificio, senza sconfinare sulla pubblica via o sulla pubblica piazza.
Il fatto che le nuove sentinelle dell’Alma Mater siano uomini armati è un controsenso evidente, dato che per legge non possono intervenire direttamente, ma devono limitarsi a segnalare certe situazioni alle forze dell’ordine.
E’ dei giorni scorsi la notizia che alcuni ragazzi dei collettivi che orbitano attorno alla Scuola di Lettere si siano, di fatto, scontrati con alcuni vigilantes, con tanto di lancio di uova e fortissimo clamore mediatico: di certo, il provvedimento non ha aiutato a distendere un clima già teso, per via di altre vicende tristemente note (leggasi, vicenda Panebianco) che non staremo qui ad affrontare, e sulle quali si potrebbero spendere fiumi di inchiostro.
Fatto sta che il messaggio passato con questo provvedimento non è accettabile, anche per il modo in cui la questione è stata posta dagli stessi giornali: leggere il nome della nostra università, associato ad una parola come ronde, è una pessima pubblicità per un Ateneo che dovrebbe avere fra i suoi principali obiettivi quello di garantire una didattica al passo coi tempi ed una ricerca di qualità.
Le ronde universitarie rappresentano il fallimento di un sistema d’istruzione che deve, in primis, educare alla legalità, non imporre la legalità. Sia ben chiaro: non è possibile negare l’esistenza di un problema di sicurezza all’interno della zona universitaria. Le criticità del quartiere sono sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, non deve essere l’università a fornire una soluzione al problema. Ci sono soggetti realmente competenti a garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, ossia le forze dell’ordine, le uniche titolate ad intervenire.
Il provvedimento, ad onor del vero, è stato adottato in via sperimentale: il periodo di prova andrà avanti per tre mesi, dopodichè si valuterà se dargli una prosecuzione o meno. Non ci resta che sperare in un ripensamento, o per lo meno in una rimodulazione del servizio: perchè quelle pistole inutili, nella zona uniersitaria, non le vogliamo proprio vedere.

Il G8 di Genova con le parole di un padre

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C’è una costante nella mia quotidianità che, in questi giorni, si palesa spesso: la dignità del dolore. Io, questa dignità del dolore, l’ho rivista anche ieri sera, nell’aula II della Facoltà di Lettere e Filosofia di Via Zamboni 38. L’ho rivista nelle parole, negli atteggiamenti e in quel sarcasmo sottile di Giuliano Giuliani, padre di Carlo Giuliani, giovane ragazzo ucciso con un colpo di beretta durante gli scontri del 20 luglio 2001, a Genova, in occasione del G8. Avevo sei anni nel 2001, quindi ricordo a stento i miei primi quaderni di italiano, pieni di lettere da ricopiare in bella copia. Non posso assolutamente ricordare ciò che i tg dell’epoca dissero, in merito alla vicenda. Posso, però, ricordare un film: Diaz. Ricordo che si parlava di ciò che accadde in quella scuola genovese, nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001. La polizia massacra di botte 93 ragazzi, giustificando tale massacro con l’appellativo di “perquisizione legittima“.
Stando a quanto la Polizia afferma, era giunta in questura una soffiata secondo la quale, in quella scuola, vi era possesso di molotov da parte dei ragazzi che, per il codice penale, è un reato di terrorismo, punito fino a quattordici anni di carcere. “Macelleria messicana” è stato, in un secondo momento, il modo in cui i tribunali, i telegiornali e l’opinione pubblica hanno definito ciò che successe davvero tra quelle mura. “Uno schifo” sembra a Giuliano Giuliani, il modo più corretto, giusto, appropriato, veritiero per definirlo. Non voglio soffermarmi sulla repressione effettuata dalla polizia per eliminare un movimento nato nel 1999 e chiamato “Il popolo di Seattle“, che aveva come scopo quello di opporsi alla globalizzazione e di creare un vero e proprio “Parlamento mondiale” fatto da gente comune e contrapposto ai Parlamenti in cui i potenti decidono le sorti di un Paese; non voglio soffermarmi sul ruolo delle intelligence che già un paio di anni prima del G8 organizzavano tale repressione; né mi soffermerò sul precedente di Goteborg dello stesso anno, in cui la polizia attuò tali violenze con le stesse modalità che, qualche mese dopo, si sono ripetute nel capoluogo ligure; né dirò delle forze dell’ordine che, nella mattina del 20 luglio, benché fossero a distanza di 100 m dai cosiddetti “black block”, decisero di non intervenire, preferendo, invece, caricare e massacrare: ci sono anche telefonate registrate di cittadini comuni che esortano la polizia ad intervenire, perché nei loro quartieri le tute nere erano particolarmente attive. Superando ogni logica giuridica e prima di tutto umana, sono state usate anche spranghe di ferro contro i manifestanti pacifici, alcuni dei quali avevano i palmi delle mani colorate di bianco, segno di resa. Non darò voce allo sdegno nel sapere che i poliziotti implicati nella vicenda e nell’omicidio di Giuliani, non solo non sono stati puniti, bensì hanno anche avuto una carriera brillante. No.
Io voglio soffermarmi sulla figura di un padre addolorato, straziato, a cui hanno ucciso un figlio non una, bensì due volte con l’insabbiamento delle prove e la liquidazione della vicenda, ma che decide di imparare ad usare programmi tecnologici per sviscerare, sminuzzare, analizzare ogni conversazione telefonica, ogni foto, ogni video di quegli otto secondi fatali per il figlio, come se si fosse preso l’incarico di lustrare il volto macchiato di sangue e menzogne della giustizia italiana, che in quel momento decise di non vedere. Anzi no, fece una cosa peggiore: vide con indifferenza quel corpo a terra, ancora pulsante di vita e finito da un sasso lanciato da un poliziotto, ma fu scettica quanto basta; poi, preferì girare i tacchi e andare a sedersi comodamente in poltrona, archiviando il caso. Come, però, ha detto Giuliani: “Bisogna fare i nomi, ragazzi, non generalizzare, perché non tutti sono così marci“. Certo, non tutti. Giusto quelli da inserire nel nuovo cerchio degli ignavi del XXI secolo.

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