L'UNIversiTÀ

Paolo Piredda

Inutile dirvi che fin da piccolo sognavo di fare il giornalista. Volevo fare il calciatore, il pompiere oppure l'operatore ecologico che sta appeso dietro il camion della spazzatura. Sono un po' permaloso, sono un sognatore e soprattutto sono incredibilmente meteoropatico, forse perchè il giorno in cui sono nato pioveva a dirotto. "Ricorro con una certa frequenza alle citazioni perchè ho una buona memoria e perchè ho bisogno di appoggi: c'è qualcuno al mondo che la pensava, o la pensa, come me" Enzo Biagi

Riti prima degli esami

C’è una linea di demarcazione che divide la scaramanzia dal disturbo ossessivo compulsivo. Quando sei in procinto di sostenere un esame universitario, però, quella linea diventa estremamente sottile non facendoti più capire in quale parte ti trovi.
Tutto ha inizio a ridosso dell’esame, quando cominci a seguire alcuni schemi che nel precedente appello avevano portato fortuna; e così, nella tua mente, pensi: “Beh, perché cambiare? Riproviamo!”.
E quindi la sera prima, carico di stress, ti ritrovi ad ordinare la stessa identica pizza dell’ultima volta, mettendo in scena un alquanto improbabile correlazione tra mozzarella di bufala, pomodorini e microeconomia.
Preso dal panico poi ti ricordi che quando la sera prima dell’ultimo esame avevi pulito la camera avevi portato a casa un bel 30; allora senza pensarci su due volte ti metti i guanti di gomma, tiri fuori il secchio dallo sgabuzzino e tiri a lucido la tua stanza così bene che se la vedesse tua madre richiederebbe una perizia psichiatrica.
Tutti gli studenti conoscono la leggenda del “non studiare o ripassare o il giorno prima dell’appello”, insomma lasciar riposare la mente. C’è chi ci crede fermamente e chi, in quell’ultimo giorno, cerca di stampare nella sua mente oltre 1000 pagine conscio del fatto che ricordarsi tutto sarebbe impossibile persino per Dustin Hoffman in Rain man.

Studente universitario che dá un ultimo sguardo agli appunti
Studente universitario che dá un ultimo sguardo agli appunti

Poi arriva la mattina dell’esame: ti svegli presto, vai a fare colazione e inizi a prepararti, il tutto sempre con gli appunti tra le mani; se da piccolo dormivi con il peluche, quando diventi uno studente universitario dormi abbracciando gli appunti.
Non appena arriva il momento di vestirsi la scelta diventa cruciale e, guardando i vestiti appesi nell’armadio, non vedi più i colori o il tipo di capo d’abbigliamento, ma solo il voto che hai preso quando l’hai indossato ad un esame.
Dopo aver fatto un’attenta media ponderata e un rapido calcolo delle probabilità degno del miglior John Nash in A Beautiful Mind, sei ufficialmente pronto per andare all’esame.
Studente universitario che calcola quale vestito ha la media più alta
Studente universitario che calcola quale vestito ha la media più alta

Tutto in discesa adesso? Neanche per scherzo! Già, perché la strada che hai preso l’altra volta per arrivare in facoltà ti ha portato dritto dritto verso un voto alto quindi, perché cambiarla? Allora ripercorri la stessa strada con una precisione tale che a fine esame, a prescindere da come sarà andato, verrai assunto da Google Maps.
Poi se l’esame è scritto ovviamente è immancabile la scelta della penna. C’è chi ha la sua preferita come Paolo Bitta e la sua quattrocolori e chi, invece, la cambia sempre.
Una volta finito l’esame sei provato fisicamente e psicologicamente.
E se non ha funzionato? Beh, si cambia: pizza, felpa, penna, strada e tutte le solite abitudini semplicemente per crearne delle nuove. Funzionerà?

Incontro con Matteo Garrone

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Signore e signori, Matteo Garrone!
Inizia così l’incontro con il regista romano intervistato da un incalzante Gian Luca Farinelli.
“I negativi dei film di Matteo li teniamo a fianco a quelli di Fellini e Chaplin” scherza il direttore della Cineteca di Bologna, Matteo ride nell’ascoltarlo e inizia a raccontare.
Il percorso per diventare un cineasta passa prima per il tennis e poi per la pittura accompagnato in questo lungo viaggio dal noto direttore della fotografia e compagno della madre, Marco Onorato.
Garrone spiega che Marco ha curato la fotografia di tutti i suoi film e soprattutto si è assunto la grande responsabilità di fargli capire che la sua carriera non fosse il tennis e che non avrebbe mai sfondato in quel campo: “l’ho capito a malincuore” ammette Garrone.
“Il primo libro che ho letto? A 19 anni e mio padre , critico teatrale e appassionato di lettura, era disperato. Quando un giorno tornai a casa con un libro di Bevilacqua per lui fu il colpo di grazia”, scherza Matteo.
Quel libro comunque non l’ha mai letto e il primo è diventato una biografia di Che Guevara.
Dopo aver mollato il tennis racconta di aver iniziato a cimentarsi nella pittura ed è proprio così che è nata l’idea per il suo primo film: “Cercando dei paesaggi da dipingere ho visto una parte della periferia di Roma piena di prostitute dai colori sgargianti e dei loro clienti. Quelle immagini mi sono rimaste impresse, allora ci ho provato, pensando che in fondo non costasse nulla”.
Così a 26 anni dirige il suo primo film, “Silhouette” (1996), che racconta la giornata di alcune prostitute nigeriane nella periferia romana. Ad accompagnarlo sul set ci sono solamente Marco Onorato e il fonico: “Credo che non dimenticherò mai la faccia del casellante quando mi vide con le tre attrici travestiste da prostitute” dice ridendo. Questa prima opera la finanzia con i soldi guadagnati dal suo precedente lavoro in un locale romano da lui gestito.
Spiega come nella vita abbia corso molti rischi, specialmente in “Estate romana” (2000) in cui per fare il co-produttore ha dovuto ipotecare la sua casa, ma poi si è aggiudicato il premio qualità: “mi diedero 300 milioni di lire, mica male insomma!” – conclude sorridente.

Nel suo ultimo film “Il racconto dei racconti” (2015) ha avuto un difficile rapporto con gli effetti speciali, spiegando che non era abituato ad usarli con così tanta frequenza e che la presenza di tutto quel verde sul set – per creare gli effetti speciali si usano dei teli verdi, ndr – è stata veramente complicata.
Matteo rivela, inoltre, un rapporto molto complicato con Peter Suschitzky, direttore della fotografia che, tra gli altri, ha curato la fotografia di “Star Wars – L’impero colpisce ancora“.
Garrone racconta molti scontri sul set con Suschitzky perché Peter preferiva la camera fissa mentre lui seguire sempre l’attore.

Su questo aspetto riesco a fargli una domanda:
“Matteo, durante le riprese di “Vittime di guerra” due giovanissimi Sean Penn e Michael J. Fox si scontrarono molto sul set per via delle diverse personalità. Alla fine delle riprese, però, Michael J. Fox lasciò un biglietto dentro il camerino di Sean Penn con scritto: ‘lavorare con te non è stato un piacere, ma sicuramente è stato un onore‘. Anche lei e Peter alla fine avete fatto pace? ”
Matteo Garrone: “Si sì, c’è stata una grande rappacificazione! Sul set gli scontri erano dovuti alla grande passione che entrambi mettevamo nel nostro lavoro, ma alla fine siamo riusciti a venirci in contro”. Sorride.

L’incontro si chiude con una domanda di Farinelli: “Se ti dovessi chiedere qual è il tuo regista preferito?”
Garrone non ci pensa neanche per un secondo: “Paul Thomas Anderson.”

VISIONI ITALIANE ALLA CINETECA DI BOLOGNA

Schermata 2016-02-25 alle 14.11.23Potremmo iniziare con: “Ciak, azione!” ma sarebbe troppo banale. Allora partiamo così: “No, non scomodatevi, restate sulla sedia. Piacere mi presento, sono la commedia.”

Era il 1994, l’Italia stava per scoprire la figura di Silvio Berlusconi, Tom Hanks vinceva l’oscar per l’interpretazione in Philadelphia e in tutte le radio passava una certa The Rhythm of the Night di Corona.

Intanto in una Bologna anni ’90,  mai mainstream e sempre all’avanguardia nel campo delle arti, nasce l’idea di dare maggiore visibilità ai lavori dei giovani autori italiani che rimangono quasi invisibili al grande pubblico; opere come cortometraggi, documentari e film sperimentali.

A gettare il cuore oltre l’ostacolo, per dare spazio a queste produzioni, ci pensa la Cineteca di Bologna con il progetto Visioni Italiane. Lo fa in un periodo in cui in Italia ci sono diversi eventi di ambito cinematografico, quasi tutti però si interrompono dopo poche edizioni non riuscendo a dare quella continuità fondamentale agli autori.

Dal 1994 Visioni Italiane si staglia come un faro sulla costa, illuminando la via in mezzo ad un mare di produzioni cinematografiche, con la sola differenza che nel mare la cosa importante è stare a galla, nel cinema invece è emergere.

Ed è proprio da questo festival, che quest’anno si terrà dal 24 al 28 Febbraio al Cinema Lumiere, che sono partiti molti registi italiani. Personalità che negli ultimi anni si sono imposte con film di rilievo come Paolo Genovese con Immaturi, Matteo Garrone con Gomorra e Salvatore Mereu con Bellas Mariposas, solo per citarne alcuni.

Il festival è strutturato in varie sezioni: dai documentari ai temi legati all’ambiente, dai corto e mediometraggi italiani a quelli realizzati da giovani autori sardi, passando per le visioni urbane che trattano delle città contemporanee. Quest’anno avrà inoltre come ospite d’onore Matteo Garrone che sarà possibile incontrare venerdì 26 alle 17.

Se il festival ha acquisito così tanta rilevanza ed è riuscito a dare slancio a tanti registi lo si deve sicuramente alla direttrice Anna Di Martino che ha sempre creduto nel progetto dando grande importanza a lavori di nicchia come i cortometraggi. Noi l’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto alcune domande:

Anna, come è cambiato il festival dal 1994 ad oggi?

Più che il festival si può dire che è cambiata l’informazione ed il modo di farla. Basti pensare che quando siamo partiti 22 anni fa non c’erano praticamente cellulari e neanche internet. Tutto si basava sui VHS e ovviamente anche la qualità delle immagini era diversa. La cosa che è sempre (altro…)

Il ritorno del fuorisede – Christmas holiday edition

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Metti le ultime cose in valigia, le stringi dentro a fatica perché con tutte le provviste che ci hai messo ormai non ci stanno più neanche i sentimenti. Dai un ultimo sguardo alla tua stanza per vedere se hai preso tutto. Gli dai un ultimo sguardo perché come al solito il biglietto è di sola andata e non sai quando tornerai.
Guardi le vecchie foto appese al muro e pensi a quanto le cose siano cambiate, a quanto, senza accorgertene, sei diventato grande.
Imbracci la valigia, saluti mentalmente la casa, un bacio ai genitori e parti: una routine nostalgica che ti riporta nella città degli studi.
Il controesodo degli studenti fuori sede si divide in due tipi ben distinti, nessuno dei quali prevede che si studi durante le vacanze.
Se sei estremamente fortunato e non hai appelli ai primi di gennaio riesci a rimanere un po’ di più convincendo te e chi ti sta intorno che tanto anche durante le vacanze riuscirai a studiare. Gli amici fanno finta di crederti perché sono nella stessa situazione, i parenti come minimo ci sperano. La realtà è che con tutta probabilità i libri non usciranno neanche dalla valigia, ma il lato positivo è che mentre la prepari non devi fare fatica a rimetterli.
Nel secondo tipo non sei fortunato e il tuo professore ti ha fissato un appello il giorno dopo l’epifania; in questo caso parti il 2 o il 3 di gennaio con il viso ancora sporco di zucchero a velo e con la capacità di intendere e di volere di Maurizio Gasparri.
Prima di partire ovviamente cerchi di incontrare tutti gli amici per salutarli e il piccolo aperitivo che hai organizzato con due birre e un po’ di patatine si trasforma in una cafonata stile cinepanettone in cui il più sobrio ha il savoir faire di Gianluca Grignani.
Qui capisci quanto ti mancheranno l’aria di casa e gli amici di sempre, che vedi poco ma che con un paio di parole ti fanno sempre capire di essere lì con te.
Il momento di tornare poi arriva davvero e poco importa se quando sei arrivato lo vedevi lontano, una mattina ti svegli e scopri che lo scherzo è finito, devi ripartire.
Durante il viaggio ti passa nella mente l’intera compilation di cibo che hai mangiato durante le vacanze e in te si fa strada la drammatica consapevolezza che per mangiare di nuovo così bene dovrai aspettare un bel po’, a meno che non organizzino una puntata di Masterchef nella cucina di casa tua.
Ma soprattutto per la mente ti passa ogni singolo momento passato con i parenti e con gli amici; le risate, le cazzate, le sbronze e quella sana voglia di non voler crescere mai pur consapevoli di essere già cresciuti.
Allora premi il tasto pausa nella vita di casa sperando che tutto rimanga com’è, preparandoti a premere il tasto che fa partire quella musica chiamata vita da fuori sede e che, diciamocelo, ti fa ballare tanto. Allora metti le cuffie nelle orecchie, chiudi un po’ gli occhi e premi il tasto play.
“Casa è quel luogo che i nostri piedi possono lasciare, ma non i nostri cuori.” Oliver Wendell Holmes

This must be the place. O forse no.

IMG_6933Le mie nuove vecchie abitudini.

Quando sono in procinto di rientrare per le vacanze gli ultimi giorni li vivo in maniera molto distesa. Tanto manca solo 1 giorno 23 ore, 56 minuti e 11 secondi. Ma chi li conta?
Non appena arriva il giorno, nonostante abbia ricontrollato mille volte, esco di casa convinto di aver dimenticato qualcosa e sicuramente qualcosa l’ho dimenticata. Ma tranquilli, lo scoprirò quando sarà ormai troppo tardi.
Poco importa però, sto tornando a casa, sto tornando nella mia Sardegna.
Metto le cuffie, afferro la valigia e prendo l’aereo. Poi, una volta atterrato, vado incontro ad una delle parti più belle del rientro, l’area degli arrivi.
Quel posto è come avvolto da un’atmosfera magica, esco dalla porta e vedo i volti sorridenti delle persone che attendono qualcuno. Che tu sia via da molto tempo o da poco tempo non importa, arrivi e ad attenderti c’è un sorriso. Forse è questo che mi piace tanto.
Il primo giorno a casa è sempre meraviglioso. I miei genitori non mi vedono da mesi quindi tendono un po’ a viziarmi, sembra quasi che sia tornato da una missione in Afghanistan. Certo, devo ammettere che i buffet dell’aperitivo a Bologna sono un territorio di guerra abbastanza aspro, ma non credo che si possano paragonare.
Io comunque ci marcio un po’ sopra, allora in maniera molto vaga esprimo i miei desideri con frasi tipo: “ci vorrebbe proprio una cena di pesce, a Bologna non lo mangio mai” o cose simili. Lo so, starete pensando che sono una brutta persona, ma non mi vedono da tanto, viziarmi fa piacere anche a loro. O almeno credo.
Quando vedo mia nonna avviene il più classico dei clichet, mi chiede se ho mangiato.
Per non so quale motivo vive con la strana convinzione che nella città in cui abito non mangio a sufficienza, così prova a integrare in qualche giorno quello che, secondo lei, non ho mangiato per mesi. Con il risultato che il bagno al mare lo potrò fare direttamente l’estate prossima.
Come ogni volta che rientro mi fa sempre un effetto strano tornare a dormire nella mia camera. Per molti studenti fuori sede questa è una situazione particolare perchè quella che è sempre stata la tua camera può aver subito delle trasformazioni da quando non ci sei.
Nella migliore delle ipotesi è rimasta uguale a come l’hai lasciata con la sola differenza che adesso è ordinata e non ci sono più i vestiti sulla sedia. So che è dura vivere con tutto questo ordine ma tranquilli, in appena un paio di giorni sono sicuro che sarete riusciti a far tornare tutto come prima.
Nella peggiore delle ipotesi, invece, tuo fratello/sorella sta cercando di usucapirla per farla diventare la sua. Ciò vuol dire che ti tocca essere ospite in quella che un tempo era la tua camera e, come se non bastasse, devi anche stare attento a non fare casino perchè sennò ti prendi pure i rimproveri.
In mezzo a queste due possibilità c’è comunque una via di mezzo, che è anche quella in cui mi trovo io.
La tua stanza all’apparenza è rimasta uguale. Stesse foto sui muri, stessi biglietti di concerti appiccicati alle pareti, stessi fumetti sugli scaffali, ma in realtà è tutto un bluff.
Vai ad aprire gli armadi e dentro ci trovi solo ed esclusivamente vestiti di tua madre e tua sorella. Nella scarpiera la stessa cosa. Cassetti, idem.
Complimenti, la tua stanza è appena diventata una fantastica cabina armadio!
Mi sembra di essere in una puntata di Sex and the city ma con molto meno sex.
Comunque cerco di farmene una ragione e vado a letto, alla fine i primi giorni sono già un po’ traumatici di loro, cerco sempre di andare al mare la mattina ma ho sempre delle ore di sonno da recuperare o mille commissioni da sbrigare quindi finisco per andarci solo nel tardo pomeriggio.
Con un sole che ormai non abbronza più mi appresto a sfoggiare la mia fantastica abbronzatura da biblioteca. 50 sfumature di bianco.
Prima di tornare per le vacanze il mio professore mi ha detto: “vai ad abbronzarti che ti vedo un po’ bianchiccio”. Lì ho capito che la situazione era alquanto grave.
La sera, dopo il mare, scatta l’aperitivo e con un po’ di amici ci troviamo sul lungomare per una birretta.
Tutti insieme cerchiamo di metterci d’accordo per decidere in qual spiaggia andare il giorno successivo. Soprattutto ci concentriamo molto sulla puntualità e sul fatto che partiremo al massimo alle 11. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è.
Ecco, non ci sarà nessuno.
La sera è diventata notte e “una birretta” sono diventate dieci o dodici. L’abbiamo chiusa alle 5 di mattina tutti sbronzi. Se tutto va bene il primo che si sveglia lo fa all’una. Mi sa che anche oggi ci abbronziamo domani.

Quello che non ho è quel che non mi manca.

Passano i giorni ed inizio a prendere un colorito umano, intanto cerco di mettere in pratica tutte le idee di viaggio che ho avuto nei mesi in cui ero a Bologna. Escursioni, gite in canoa, trekking; nella lista mi manca solo uno degli 8000, ma ci stiamo lavorando.
Da 5 anni con alcuni amici abbiamo una tradizione; fare un’escursione di un giorno nella zona del golfo di Orosei. Siamo partiti il primo anno con Cala Goloritzè in cui il percorso è molto semplice, quest’anno però abbiamo voluto alzare il tiro, Cala Mariolu.
Il percorso è di circa 12km andata e ritorno con punta di altezza massima di 588 metri sul livello del mare, i sentieri sono poco segnalati ed è etichettato come un tracciato per escursionisti esperti. Ci tengo a dire che il più atletico del nostro gruppo si era appena laureato e stava svolgendo una severa preparazione atletica a base di birra e vino.
Non vi racconterò il percorso perchè va vissuto sulla pelle, vi dirò solamente che ci siamo persi ma che ci siamo anche ritrovati, che abbiamo gioito come bambini quando abbiamo visto il mare dopo 4 ore di cammino, ma soprattutto che abbiamo visto un posto così:

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Le mie vacanze dopo questa avventura fanno il giro di boa perchè stiamo entrando nella settimana di ferragosto.
Questa data è come le due facce di una medaglia, da un lato il periodo più bello dell’anno, dall’altro, invece, ti fa capire che le tue vacanze stanno per finire.
Ormai sono a casa da un paio di settimane e ho ripreso le vecchie abitudini, quindi giustamente arrivano le cazziate da parte di mia madre per cose tipo il disordine, le ore piccole e tanto altro.
Purtroppo è svanita la magia del “sono appena tornato”. Prima o poi doveva succedere.
La settimana di Ferragosto la facciamo tutta d’un fiato con il mio coinquilino di Modena arrivato a trovarmi in Sardegna. L’ultimo giorno azzardiamo con un altro clichet: “Beh da oggi basta bere per un bel po’”. Tutte balle.
Chiudo l’estate con una settimana di relax in cui cerco di fare tutte quelle cose che, causa vari impegni, non sono riuscito a fare fino a quel momento. Ovviamente non ci riuscirò e non appena tornato a Bologna inizierò subito a viaggiare con la mente e a pianificarle per il prossimo ritorno.
Saluto tutti gli amici sapendo che è come se stessi premendo il tasto pausa di un registratore, consapevole che non appena tornerò andrò a schiacciare il tasto play e tutto ripartirà da dove l’abbiamo lasciato, stessi rapporti, stessa amicizia. Perchè con gli amici veri funziona così.
Vivo gli ultimi giorni di vacanza con un misto tra nostalgia e voglia di voler rimanere, anche solo un giorno in più. Ma non si può.
Penso sempre più spesso a dove sarà la mia vita quando avrò un lavoro. L’ho sempre immaginata nella mia città, non lontano da lì. Eppure da un po’ di tempo le cose sono cambiate, la vedo più distante, come se il mio futuro lavorativo fosse lontano da casa.
Vorrei dire “This Must Be The Place” come cantavano i Talking Heads. Vorrei dire “Feet in the ground, Head in the sky”, piedi nella mia terra e testa sotto il mio cielo. Ma la realtà è che non so quale sarà il mio posto. So quale dovrebbe essere ma non quale sarà.
Allora rimetto le cuffie, afferro nuovamente la valigia e riprendo l’aereo sapendo che stavolta non ci sarà nessun sorriso ad attendermi all’aeroporto, ma va bene cosi.
Va bene perchè sono stato con la famiglia, ho visto le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo, ho girato dei posti meravigliosi che ho cucito nel cuore, ho visto molte albe e tantissimi tramonti, ho fatto le cazzate con gli amici e ho fatto le 9 di mattina insieme a loro per poi scoprire che è semplicemente “Late to bed and early to rise”, troppo tardi per andare a dormire e troppo presto per essere svegli. Ma che bello.

Un viaggio tra i fornelli di Masterchef. L’intervista a Stefano Callegaro

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Fuori c’è una pioggia fitta ed io sono davanti alla porta d’ingresso, mi sposto un attimo per fare un giro nella sala verde della Montagnola poi mi riavvicino alla porta, a quel punto vedo spuntare Stefano sotto un ombrello giallo. Entra, mi guarda e prima ancora che potessi salutarlo mi porge la mano e si presenta: “piacere, Stefano!”.
Già da questo gesto capisco la persona che ho davanti, parola d’ordine: umiltà.
Scatta qualche foto e scrive delle dediche sul suo libro di cucina appena uscito “Alla ricerca del gusto” poi si parte con l’intervista.

Stefano, com’è cambiata la tua vita con la vittoria di Masterchef?
«Allora, inizio col dire che se quest’anno l’avessi diviso in 6 parti mi sarebbero usciti fuori 6 anni belli intensi (ride). Spesso dopo la vittoria mi è capitato di sentirmi dire che sono una fonte d’ispirazione. Ti dico che Martin Luther King è una fonte di ispirazione, io al massimo posso ispirare nell’ambito culinario».

Qual è il giudice più buono e quale il più cattivo all’interno della competizione?
«Sono 3 persone dai caratteri molto diversi. Chef Cracco e chef Barbieri sono un po’ spigolosi negli atteggiamenti ma ogni giorno ti offrono spunti per migliorare e per crescere. Lo chef Berbieri tra i fornelli ricorda il ballerino Rudolf Nureyev, sembra danzare in cucina. Ha una precisione incredibile.Masterchef 9
Chef Carlo Cracco da buon veneto di montagna parla poco e quando lo fa le sue parole tagliano però ogni suo consiglio è estremamente prezioso. A telecamere spente mi disse: “sii curioso e sii critico con te stesso per poter migliorare sempre”.
Joe Bastianich è un grande imprenditore mischiato ad un ragazzo di 18 anni che si vuole divertire. Una persona speciale alla quale sono molto legato. Se mi sentisse dire queste cose mi ucciderebbe (ride)».

Un piatto al quale sei particolarmente legato?
«La minestra con i piselli, il risi e bisi in Veneto, che nella mia zona (il polesano ndr.) ha salvato tante persone nei periodi di difficoltà. Questo è un piatto che la domenica a casa mia non manca quasi mai. Poi devo ammettere che sono un consumatore seriale di tortellini e voglio precisare che vengo sempre a prenderli a Bologna (sorride)».

Un consiglio per gli appassionati di cucina.
«Toccate il cibo, annusatelo, passatevelo tra le mani. Il cibo ci parla, si racconta. Ogni taglio di carne, ad esempio, è diverso dall’altro e ha una sua storia. I guanti lasciamoli ai chirurghi perchè in cucina il cibo va trattato a mani nude».

Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina e come l’hai coltivata?
«La mia mamma oltre ad essere appassionata di cucina è un’ottima cuoca e mi ha trasmesso l’amore che mette in cucina, io poi vivo fuori di casa da quando avevo 18 anni quindi imparare a cucinare oltre ad essere una passione è stata una necessità».

Cos’è per te la cucina?
«Non voglio fare il filosofo (ride) ma per me la cucina è una metafora della vita, il raggiungimento della felicità per tentativi. Quando cucini cerchi la perfezione del piatto tentando diverse combinazioni così come nella vita si cercano diverse combinazioni per arrivare ad essere felici.
Ve la spiego con 4 aggettivi: amore, passione, disciplina e rispetto».

Qualche domanda sulla tua avventura a Masterchef. Raccontaci della svolta ai fornelli avvenuta quando a sorpresa è arrivata tua madre nel programma.
«Va detto innanzitutto che quando partecipi a Masterchef non vedi i tuoi cari per tutta la durata del programma (2 mesi e mezzo/3 ndr.) e in tutto ciò abbiamo avuto solo una mezza giornata libera. La puntata che voi vedevate il giovedì era la contrazione di una settimana di riprese. Sono arrivato nella cucina con tanti difetti, dubbi e insicurezze ma quando in quella Mistery Box gigante ho visto mia mamma mi si sono illuminati gli occhi. Da quel punto è come se mi fossi tolto dei pesi».

Con chi hai legato di più tra i tuoi compagni di avventura e chi hai visto maggiormente come uno sfidante?
«La persona che più mi è rimasta nel cuore è sicuramente Simone (Finetti ndr.). Per me è come un fratello. Invece ho visto maggiormente come uno sfidante Nicolò che mi ha impressionato molto per una passione ed una tenacia che a vent’anni davvero in pochi hanno».

Concludendo. C’è una frase che dice: “si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare”. Ho rivisto molto il tuo percorso a Masterchef in queste parole. Mi confermi che per preparare un buon piatto si deve sempre pensare a qualcuno?
«Ti ringrazio per la bellissima domanda (sorride). Sono assolutamente d’accordo, il mio percorso nella cucina di Masterchef si è intrecciato molto con queste parole. Ho sempre cercato di mettere nei miei piatti me stesso e soprattutto le persone a cui tengo. La mia spinta in più anche nella finale, che non mi aspettavo assolutamente di vincere, credo sia stata proprio questa. Secondo me per creare un buon piatto è importantissimo pensare a qualcuno».

Perugia A/R. La nona edizione del Festival del Giornalismo

70a4f48abc55cee1b7084e3I buoni giornalisti scrivono ciò che pensano, i migliori quello che dovrebbero pensare i loro lettori.”
Come per dire che il giornalista dev’essere anche una professione volta ad educare. Si perchè, un po’ come un insegnante, il giornalista deve portare il lettore a volersi informare, deve dare una propria visione delle cose su ogni fatto ma allo stesso tempo fornire una chiave di lettura che riesca a far formare delle opinioni indipendenti a chi legge.

I buoni giornalisti scrivono ciò che pensano, i migliori quello che dovrebbero pensare i loro lettori.”


Dal 15 al 19 aprile si terrà il Festival Internazionale del Giornalismo o International Journalism Festival arrivato quest’anno alla sua nona edizione.

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