L'UNIversiTÀ

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Bologna, le cinque bazze per la matricola fuorisede

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Bologna è la città delle Torri, Bologna è la dotta e la grassa, Bologna è comunista. Ma Bologna è, prima di tutto, un’università.

Come ogni anno, a settembre, la città si riempie di energie nuove: arrivano i diciannovenni. Le matricole cercano una nuova casa. Possibilmente, dentro le mura. L’ideale sarebbe fra Strada Maggiore e via San Vitale, però se trovo qualcosa vicino alla facoltà non me lo faccio scappare.

Per tutti i fuorisede che cominciano una nuova vita in questa città, ecco alcuni piccoli consigli per vivere alla meglio in questa comunità che è un autentico melting pot in salsa italiana.

 

PRIMA BAZZA: LA BICICLETTA

“Bici?”.Ancora prima di un ciao o di un benvenuto, mettendo piede in piazza Verdi qualcuno vi proporrà di comprare una bici. Non è la sua bici, ovviamente.

Troppo grande per girarla a piedi, troppo stress per girarla in macchina. La dimensione ideale per vivere Bologna è quella delle due ruote. Le due ruote di una bicicletta.

La zona perfetta per acquistare una bici è quella di Porta San Donato: uno dopo l’altro, troverete fra la Porta e il ponte tre diversi negozi, con Grazielle, bici pieghevoli, sportive, bici nuove e bici usate, e tanti piccoli accessori che possono fare della vostra bicicletta un autentica bazza!

Altri negozi con bici veramente buone li potete trovare nei vicoletti fra via Belmeloro e via San Vitale.

E se la ruota si buca, il freno non va più, il manubrio si storce, il miglior meccanico resta pur sempre quello di via Petroni. La bici sarà la vostra dolce metà: trattatela con cura, e portatela solo da una persona di fiducia!
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SECONDA BAZZA: AULE STUDIO

Siete stati alle prime lezioni, e avete girato il resto della mattinata alla ricerca di una bici.

Avete messo qualcosa sotto i denti, ma ora volete rimettere in ordine gli appunti che avete preso a Diritto Costituzionale. Avete bisogno di un posto tranquillo: una sedia, un tavolo, e una presa dove mettere a caricare l’I-phone. Avete bisogno di un’aula studio.

Noi ragazzi degli ultimi anni siamo un po’ tutti orfani della Bigiavi.

Attualmente chiusa per lavori, la Biblioteca di Economia è a metà di via Belle Arti. Trovi sempre l’amico che fuma un drum all’ingresso. “Ehi vez, come va?”, e scambi due parole. Mai entrare al primo piano, che è solo per i dottorandi.

Noi giuristi, invece, siamo molto formali: al CICU ci sono tornelli e porte girevoli, e più che andare in aula studio sembra di fare un prelievo in banca. Se non sei di giurisprudenza, non puoi entrare. Il CICU non è una biblioteca. E’ un privè.

Per chi affronta gli esami come se fossero una campagna militare, Palazzo Paleotti è il posto ideale.

All’ingresso dovete dare un documento: vi verranno dati un pc, una card numerata ed un elmetto da battaglia. Ci vuole disciplina, porca puttana!

Una valida alternativa alla Bigiavi è la biblioteca di via Zamboni 36: a Lettere, si studia circondati da dizionari, libri di Pirandello e volumi di storia contemporanea. Il posto ideale per i cinefili: una delle più grandi raccolte di DVD della città. Potete prenderli in prestito: un’altra bazza!

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TERZA BAZZA: IL VERDE

Arrivati a sera, comincerete ad accusare un po’ di stanchezza.

Il modo migliore per rilassarsi dopo una giornata in aula studio è quello di prendere la bici ed arrivare fino ai giardini Margherita. Ideali per fare un po’ di jogging, o anche solamente per stendersi sull’erba, i giardini sono il punto di ritrovo di molti studenti fuorisede. Basta una coperta, qualche panino e qualche bibita, ed ecco organizzata una domenica in compagnia dei vostri amici della facoltà. In città non mancano anche altri posti dove passare qualche ora all’aria aperta: un altro giardino parecchio frequentato è quello di San Leo. In fondo a via Belmeloro, ci sono diversi tavolini dove mettersi a studiare, dove fare pausa pranzo, o anche semplicemente passare tempo in compagnia di qualche amico per fare due chiacchiere. Fate attenzione a non lasciare cartacce o bottiglie sui tavoli, o la signora Anna si incazza!

 

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QUARTA BAZZA: ASSOCIAZIONI STUDENTESCHE

Se siete stufi di passare tempo ai giardini, è giunto il momento di essere un po’ più attivi! L’università di Bologna è un ambiente vivace, non solo dal punto di vista della didattica e dello studio: L’Alma Mater conta varie associazioni studentesche. Per chi è un amante dello sport, è un’ottima scelta quella di iscriversi al CUSB, il centro sportivo dell’università.

Ci sono gruppi studenteschi che si occupano delle tematiche più disparate: dai laboratori teatrali al giornalismo, dalla rappresentanza studentesca alla materia dei diritti umani.

Ci sono numerosi gruppi di goliardia, legati a quelli di altre università italiane. Uno in particolare si ispira ad un famoso romanzo di Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo. Alcune associazioni hanno una fama quasi leggendaria: fra queste, la Corte dei Vecchi Poeti, una sorta di gruppo di intellettuali, a metà fra la Setta dei Poeti Estinti de L’attimo fuggente ed una massoneria della letteratura. Ogni membro avrebbe il nome di un poeta del passato, e sarebbe conosciuto con questo nome dagli altri membri dell’associazione.

 

QUINTA BAZZA: VITA NOTTURNA

E’ arrivata la sera. Ok, so che domani volete andare a lezione, ma è giusto passare un po’ di tempo fuori casa dopo cena. Almeno fino a quando la vostra spensieratezza di matricole non verrà spazzata via dai primi esami.

Passate le sette, chiude la maggior parte delle aule studio e delle facoltà, e via Zamboni cambia aspetto.

Lungo questa strada e nelle immediate vicinanze troverete numerosi pub e locali.

In alternativa, basta una chitarra, qualche birra, e potrete passare attimi di felicità sedendo in cerchio in piazza Verdi o in piazza San Francesco.

Un’altra via dove poter passare un’ottima serata è via del Pratello: famosa per le sue birrerie, è dall’altra parte del centro rispetto a via Zamboni. Fortunatamente, però, avete già comprato una bicicletta!

 

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ROBOT 08: Riconfermarsi è la cosa più difficile, tutte le volte che realizzi un qualcosa poi pensi, “ la volta dopo ? ”

Riconfermarsi è la cosa più difficile, tutte le volte che realizzi un qualcosa poi pensi, “ la volta dopo ? ”. Questo quesito gli organizzatori del Robot festival se lo saranno sicuramente posti. L’anno scorso sono entrati di diritto nel panorama dei festival internazionali con una 1442552696_12032064_1093213094029889_1902239121734553063_nedizione travolgente, visionaria, elegante; finita con mille persone alle 6 del mattino che provavano a toccare il cielo trascinate dal profeta dell’elettronica Sascha Ring (Apparat). Quest’anno è l’anno della riconferma e come diceva il buon Dave Barry che come da copione americano sintetizza la questione, “Non avere mai paura di tentare qualcosa di nuovo. Ricorda: dei dilettanti costruirono l’arca mentre il Titanic fu costruito da professionisti”.

I cambiamenti ci sono, meno elettronica, più apertura musicale per palazzo re Enzo. Quest’anno molto variopinto a tratti jazz (vedi i notevoli prefuse 73), a tratti etnico ( il sorprendente clap clap italiano, ma residente a Londra nel pieno del boom con l’uscita del suo album) o i tribali Nozinja, che dicano facciano balle anche i morti. Ovviamente il Robot non si dimentica della sua origine, dal Texas arriva Rabit, strano, possiamo dire, che si parta dalla musica industriale, drone, ma a va a tingersi

di hip hop, la spiegazione è semplice:  è pur sempre americano. Il Robot non si dimentica nemmeno della sua dedizione e ricerca nella arti visive: anche quest’anno  la sala degli atti sarà un mondo di scoperte, da Bora Bora all’epicità romantica e profonda di Morkebla.

Ovviamente Palazzo re Enzo è più adatto ad un pubblico di feticisti dell’elettronica, musica molto difficile che si presta a facili rifiuti come ogni canzone che cerca uno spazio specifico nel panorama musicale, quindi il boom molti (io no) se lo aspettano dalle due serate in zona fiera. Come ho già scritto, replicare l’anno scorso è molto difficile, alcune miei coetanei dicono sia impossibile. Può essere vero ma, scusate, guardate qua sabato sera, il Main stage sarà così: Holly Herndon – Siriusmodeselektor – Daphni b2b Floating Points – Tiga – Trentmoller. La sala Redbull invece così: Panoram – Dam Funk

– Nathan Fake – John Talabot – Clark – Martinez Brothers – Lory D.  Ci sono tutte le possibilità perché sabato sia memorabile e imprescindibile (la vera sera obbligatoria). Non ci resta che fare gli auguri agli organizzatori del Robot che anche quest’anno hanno creato i presupposti per un qualcosa di magnifico e che sono convinto non deluderanno le aspettative, vi salutiamo con una massima che in questo festival è il punto di partenza, “La logica vi porterà da A a B.

L’immaginazione vi porterà dappertutto”

Filippo Popoli.

L’antimafia non è finita dopo Falcone e Borsellino. Intervista a Pino Maniaci

Minchia. Ecco con quale parola sono accolto nella piccola Partinico, essa viene pronunciata da un signore magrolino e abbastanza ricurvo, il  cui viso corrucciato sembra farsi scudo dietro un grosso paio di baffi grigi, è seduto ad un tavolino dello storico bar Alessi e senza neanche esprimere un’ordinazione viene servito dal paffuto proprietario del bar, ingurgitato il proprio caffè amaro mi guarda fisso e mi chiede <<ma Bologna è in Emilia o in Romagna? No perché  devi stare attento, purtroppo Garibaldi si è scordato di fare gli italiani, quindi esistono ancora gli emiliani e i romagnoli. Comunque sia gli emiliani che i romagnoli devono capire che ora sono più cazzi loro che nostri. Pensa che in Emilia-Romagna ci sono associazioni come la Pio La Torre, lo zuccherificio, c’è Gaetano Alessi, che hanno fatto insieme le mappe delle mafie in E.R dividendo il territorio tra le famiglie della Mafia e della ‘ndragheta con nomi cognomi e indirizzo. Quindi incomincia ad esserci strutturazione.>> tali parole vengono interrotte dall’arrivo di una volante della polizia, i poliziotti sono venuti a salutare il signore, ma non è un saluto tra vecchi amici al bar, è il saluto tra la scorta e il proprio protetto, si perché quel signore baffuto è Pino Maniaci.

Inserito tra i 100 eroi del giornalismo da Reporters Sans Frontières (unico italiano insieme a Lirio Abbate) Pino sembra affrontare tutti gli atti intimidatori con leggerezza e passione per il proprio lavoro. Conoscendolo non penseresti mai che a quest’uomo hanno impiccato i cani, bruciato due macchine, fatto arrivare minacce di morte, non penseresti mai che i suoi occhi sono diventati neri molto spesso a causa dei pugni e degli schiaffi ricevuti. Pino conserva una freschezza simile a quella di Peppino Impastato, ammazzato a soli 19 km di distanza nella vicina Cinisi.

Il paragone con l’eroe dei 100 passi non è fuori luogo, anche Pino negli anni ha dovuto lottare contro il pesante clima che si era formato attorno a lui e alla sua emittente, anche lui ha denunciato e sbeffeggiato i mafiosi durante il lunghissimo tg quotidiano, famosi gli auguri che ogni anno Maniaci riservava a Bernardo Provenzano in occasione del compleanno dell’allora latitante “ auguri pezzo di merda, fai una cosa giusta nella tua inutile vita e consegnati”. Parole che potrebbero sembrare scontate in qualsiasi parte d’Italia ma non  a pochi km da Corleone, quando i familiari e i compagni di Provenzano li puoi incontrare in piazza o al bar.  L’impegno è stato costante e riconosciuto da tantissime personalità del giornalismo, su di lui ha scritto Saviano, la televisione francese ha girato un documentario, il palermitano PIF ha registrato una puntata della sua serie “il testimone” e ha condotto una puntata del telegiornale.

Passato il momento dei saluti con i poliziotti, Pino viene raggiunto da altri tre ragazzi, Marco di Modena e Luca e Michele, due ragazzi appena arrivati da Ravenna. I tre ragazzi come altri centinaia in questi anni hanno deciso di passare una settimana di stage presso Telejato, a portarli al bar è un furgoncino con lo stemma della piccola televisione guidato da Letizia, la figlia di Pino, una ragazza con un talento naturale per il giornalismo ( nel 2005 ha vinto il premio Maria Grazia Cutuli). Letizia è in compagnia della madre e moglie di Pino, anche essa ormai entrata in simbiosi con i ritmi della televisione partinicese.

A questo punto si consuma un piccolo show dal sapore siculo, Pino incomincia ad essere meta di pellegrinaggio da parte di tutti i vecchietti, ognuno di loro ha qualcosa di cui lamentarsi, lamentele che Pino asseconda con battute e prendendo appunti, mi guarda e mi dice << questo è fare giornalismo! Io l’ho detto allo scorso festival (del giornalismo), voi state celebrando un funerale.>> chiedo il perché di tale affermazione e lui mi dice << puoi parlare di giornalismo quando Mentana è vicino al PD, Santoro era di rifondazione Comunista, Vespa si accoda al potente di turno e Travaglio ormai dopo l’uscita di scena di Berlusconi è disoccupato?. Oggi si attacca Renzi per fare audience domani si attaccherà il movimento 5 stelle per lo stesso motivo.>>

Anche questa volta siamo interrotti, bisogna mettersi al lavoro, saliamo velocemente sul furgoncino con gli altri ragazzi e dopo 5 minuti ci ritroviamo davanti la distilleria Bertolino. Questa, come viene scherzosamente chiamata da Letizia, è la seconda casa della famiglia Maniaci. Pino ha infatti condotto numerose battaglie contro essa, il perché è lampante, oltre al malsano odore di cui è pregna l’intera città, si notano subito un’altra stortura, vinacce e scarti della produzione del vino ammassati in enormi montagne non coperte (come invece è previsto per legge).

<< è la nostra piccola Ilva, pensa che io sono stato denunciato centinaia di volte dagli avvocati della signora Bertolino, all’ennesima denuncia sono venuto qui davanti e mi sono spogliato di tutto, persino le mutande! Mi ha chiesto i danni economici e allora io ho voluto dare qualsiasi mio avere.>> mi dice Pino aspettando che Letizia si posizioni con la propria telecamera, i minuti che seguono sono a metà tra l’esilarante e il drammatico. Pino manda accuse a tutti, amministrazione comunale troppo accondiscendente nei confronti della multinazionale, agenzie che non controllano, forze dell’ordine che non agiscono, ci spostiamo quindi nella parte posteriore della distilleria (la più grande d’Europa), la puzza diventa ora penetrante, dobbiamo utilizzare dei fazzoletti per non respirare il tanfo che risale le alte ciminiere della fabbrica, li mi viene dato il compito di filmare gli scarti della lavorazione, anch’essi ammassati in cataste prive di copertura, il cui scolo rappresenta un’altra grande minaccia.

È l’ora di andare in redazione, ma solamente dopo essere passati a controllare se c’è qualche commissione riunita in municipio, poiché il municipio è deserto ci avviamo verso la casa adibita a redazione, nel tragitto scambio due parole con i ragazzi che stanno svolgendo il proprio stage << abbiamo conosciuto Pino tramite articoli e manifestazioni in cui era presente, ci siamo subito innamorati del suo modo di vivere e di pensare, e dopo aver mandato un’email in redazione abbiamo concordato un periodo di stage, ci danno vitto e alloggio e la possibilità di lavorare sul campo con lui.>> e infatti appena arrivati nella minuscola redazione (due camere, una adibita alla diretta, l’altra al montaggio il tutto sotto le gigantografie di Falcone e Borsellino e dei numerosi premi che la televisione ha ricevuto) i ragazzi si mettono all’opera, registrano servizi, montano i titoli e stampano i numerosi comunicati stampa che arrivano. Dopo poco arriva Pino, mi prende sottobraccio e mi porta nella stanza dove di solito riposa.

<< di solito parliamo di Mafia, ma l’antimafia come sta messa?>>  chiedo io pensando di fare una domanda scontata, alla quale la risposta è già nota, Pino invece alza gli occhi, si accende una sigaretta (credo la trentesima di quel giorno) e con uno sguardo che ho imparato a conoscere, quello che hanno tutti i siciliani quando stanno per parlare di qualcosa di pesante, di forte, mi osserva e poi comincia << stiamo portando avanti un’inchiesta molto delicata, in cui siamo rimasti soli. Parliamo della legge Rognoni-LaTorre, sui beni sequestrati e poi confiscati, questa è stata fatta trenta anni fa in emergenza, ma deve subire delle modifiche immediate, forse anche a seguito della nostra inchiesta il governo si sta muovendo. Ovviamente dobbiamo vedere a favore di chi andrà, sperando che non vada come al solito a favore di holding dell’antimafia: una fra tutte Libera.>> dopo queste frasi sento in cuore che Pino sta toccando un tasto delicatissimo e spinoso, lui forse allarmato dalla mia espressione puntualizza << Attenzione io non ho attriti con nessuno, ma come sai benissimo il mio mestiere è quello del giornalista, io pongo domande, faccio inchieste. Libera è un’associazione a livello nazionale che lancia messaggi bellissimi, positivi, che mi piacciono. E per questo vorrei risposte alle mie domande, come si spiega che i ragazzi che vengono a lavorare sui terreni confiscati debbano pagare 150 euro a settimana e poi ad esempio la pasta di Libera costi il quadruplo di quella Barilla? Non sarebbe un bellissimo messaggio fare costare la pasta molto meno della Barilla in modo da farla entrare nelle case delle famiglie più povere, non sarebbe un messaggio devastante? “ ( ribadiamo il virgolettato di queste affermazioni, non abbiamo voluto tagliare nulla, proprio per lasciare spazio alle parole di Pino. Ma si tratta è chiaro, di una considerazione personale. Davanti alla quale ci apriamo alla possibilità di repliche e contestazioni)

<< ovviamente il problema non è Libera, il problema è la nostra italietta. E ora non lo viviamo solo noi siciliani, anzi ora il problema, come ti dicevo, sta più a nord che a sud. Qui hanno succhiato tutto questi pezzi di merda, però contemporaneamente, anche a seguito delle stragi degli anni 90, sono nati gli anticorpi. La Sicilia non è più terra di mafia, stiamo cambiando volto! Le forze dell’ordine e i magistrati sono preparatissimi, e che fanno loro? Si spostano al Nord, dove questi anticorpi non esistono. La politica è connivente, il giornalismo queste cose dovrebbe denunciarle.  Io sono solo uno scassaminchia, non faccio niente di particolare, pensa che non avevo neanche il tesserino da giornalista, perché ovviamente in Italia per denunciare la mafia non ci vogliono due coglioni così, ma un tesserino! Lo vedi il sistema televisivo? La spartizione del CDA Rai? Di cosa stiamo parlando?>>

Pino s’infervora, spegne e accende una nuova sigaretta << siamo soggetti alla telecrazia, guardiamo le minchiate che sparano in tv. Scanzi, Vespa, Travaglio. Programmi demenziali, impornazione, distruzione delle menti. In tutto questo la mafia ci sguazza. Telejato, vuole essere un modello. Abbiamo aperto telejunior un canale totalmente gestito dai ragazzi che vengono a fare gli stage. Gli diamo una telecamera, un microfono e pedate nel culo.

Tutto seguendo due soli motti “io pagherei affinchè tu possa esprimere il tuo pensiero e le tue opinioni anche se io non li condivido” di Voltaire e il concetto etico del giornalismo di Pippo Fava “ una buona informazione incide e corregge, diventa determinante per un territorio,diventa un punto di riferimento e la voce di chi non ha voce” questa è Telejato. Noi facciamo solo quello che dovrebbero fare tutti i giornalisti, niente di speciale.>>

Colpito da queste parole faccio una domanda banale ma  che sento fondamentale <<c’è speranza?>> ma nello stesso momento bussano alla porta, sta iniziando la diretta, Pino si catapulta in studio ma prima mi indica i ragazzi al lavoro e mi grida <<non li vedi sti picciotti? Minchia!>>

Gabriele Maria MorroneManiaci-Pino

Le ragioni della fede

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In due anni e mezzo di pontificato Papa Francesco ha dimostrato di voler contribuire alla realizzazione di una comunità cristiana che sia effettivamente inserita nella società contemporanea e non parallela ad essa. Nonostante la comprensibile osservazione dei canoni religiosi e la fede nei dogmi da cui scaturisce l’approccio alle questioni mondane e ultramondane, è innegabile che l’attuale Vescovo di Roma abbia intrapreso un percorso di “laicizzazione” della società cristiana. Dall’emblematica scelta del nome papale continua a stupire con paradigmi di sobrietà comportamentale da cui si evince che egli è veramente una guida morale e spirituale. Il primo Papa appartenente all’ordine religioso dei gesuiti è generoso di primati: infatti, con la semplicità dei puri e l’audacia dei coraggiosi, pochi mesi dopo la sua elezione ha riformato lo IOR, ha disposto un sinodo straordinario sulla famiglia e indetto un Giubileo inconsueto nella tempistica sul tema della misericordia. L’inizio dell’Anno Santo, che verterà sulla compassione per la miseria morale e spirituale degli uomini, coinciderà con il 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. La portata di tale evento si è già palesata nel suo spessore – almeno mediaticamente – attraverso le righe che Francesco ha inviato al Mons.Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione e massimo referente organizzativo del prossimo Giubileo.
A chiare lettere ha evidenziato in essa l’attuale cambiamento del rapporto con la vita, la cui negazione o interruzione in qualsiasi forma è per la Chiesa peccato gravissimo. Tuttavia, ha deciso di concedere il perdono a chi abbia scelto e praticato l’aborto – in difformità eccezionale rispetto al canone 1398 che prevede la scomunica per la donna, per chi abbia procurato l’aborto o cooperato alla sua realizzazione, trattandosi di un reato contro la vita e la libertà dell’uomo.
Per l’Anno Giubilare che verrà, tale facoltà di elargire la remissione dal peccato sarà estesa a tutti i sacerdoti nei confronti dei pentiti di cuore che chiedano assoluzione. In realtà, secondo la laica e imperfetta opinione di chi scrive, proprio questa non sembrerebbe una rivoluzione copernicana dell’indulgenza, poiché il credente che abbia peccato e si sia ravveduto con sincerità nel profondo e al cospetto di Dio, è elevato al perdono a prescindere, grazie al sacramento della Confessione. Pertanto, il sentimento di compassione per la fragilità umana che induce a condotte peccaminose verrebbe, di fatto, solo esteso durante il Giubileo, poiché già persistente nello spirito stesso della Chiesa.
Dunque, così come la tassatività del Vangelo non può legittimare l’aborto, il perdono delle pene temporali dato in circostanze straordinarie non differirebbe da quello di cui il fedele redento beneficia in ogni momento del suo cammino di fede. Ma se questo “dramma esistenziale e morale” – come lo definisce il Papa nella missiva – trova definitiva indulgenza solo nell’intimistico rapporto con Dio, l’intervento della Chiesa è un passaggio che sfugge alla logica laica, che non condivide, ma comprende, il tentativo di giustificare la finitezza umana dinnanzi all’immensità della fede. Quindi piuttosto che interpretare questa scelta del Papa come un ulteriore gesto di raccordo fra le disarmoniche inclinazioni di atei e credenti, sarebbe più apprezzabile valutarla come una delle declinazioni della virtù morale della misericordia; assieme ad essa, egli ha accolto i Lefebvriani, non escludendoli dall’indulgenza plenaria ovvero ha accordato l’opportunità ad ogni diocesi di aprire una porta santa, autorizzazione inedita nella storia della Chiesa: infatti, il vescovo ne potrà istituire una in ogni cattedrale, santuario o chiesa da questi stabilita, perché ogni fedele impossibilitato a recarsi a Roma sia ugualmente partecipe – e protagonista – dell’anno giubilare.
Così, anche il preferire l’aborto ad altre colpe quale sostanza dell’indulgenza plenaria sembrerebbe essere connotato da valenza simbolica piuttosto che capitale, secondo il modesto pensiero dell’autrice. Ciò rappresenta ugualmente un’innovazione perché, manifestare tanto platealmente la tolleranza per una delle macchie più sporche della coscienza, evidenzia l’assenza di confini nella valle misericordiosa di Dio, per coloro che credono a queste ragioni.
Tuttavia, qualora si consideri coincidente con il peccato la scelta sofferta, dolorosa e matura di vivere l’indelebile esperienza dell’aborto e qualora se ne colga l’indicibile coinvolgimento emotivo e morale ad essa connesso, allora si può timidamente ipotizzare che l’interruzione di una gravidanza, ritenuta dono divino, non può che essere argomento soltanto di un dialogo silenzioso fra impari. In esso l’uomo cerca Dio, perché Egli soffi sulla nebbia fitta di questo dilemma profondissimo. Ma esula da ogni intermediazione giubilare o confessionale ciò che attiene allo scrigno della coscienza individuale, dove risiederà sempre e si risolve il senso di quella la cicatrice. Se si risolve.

Bologna, 25 Settembre 2015
Anna Rita Francesca Maìno

Quando uno studente di Bologna cambia casa: resoconto emozionale di un trasloco tipo.

Cosa vuol dire cambiare casa per uno studente? Io ne  ho cambiate tre, anzi, quattro. E poche ore mi dividono dal prossimo trasloco. Troppo piccole, troppo grandi. Troppo lontane, troppo vicine. Alcune con le finestre della camera che davano sulla strada, altre sul cortile interno. Eh sì, perché questo è un particolare importante. Per chi vuole dormire. Ma chi vuole dormire? Piano terzo, primo piano. Che nome c’è scritto sul campanello? No, non suonare, che ti apro io. Senza ascensore. Solo per correre su e giù per le scale. I contratti con le pareti da imbiancare quando si va via. Noi che abbiamo scritto sulla parete della cucina perfino il testamento morale che vogliamo lasciare al gatto. No, animali no. Erasmus si, li prendiamo. A patto che stiano minimo 6 mesi.

 

Ogni casa, piccola o grande che sia, diventa l’unico pezzo di mondo possibile dentro il mondo più grande di Bologna. E impariamo a viverla come tale. Come un nascondiglio o come una prigione. Come una grande comune comunista o come un salotto finto borghese dove preparare l’aperitivo per gli amici. E indipendentemente da come l’’abbiamo vissuta, trattata o maltrattata, lasciarla è come lasciarci. È come lasciare la ragazza, è fare gli scatoloni e metterci  i propri souvenir emotivi, provando a tracciare le fila di quanto siamo stati noi dentro quell’anno. I poster di un concerto che abbiamo visto all’Unipol , i biglietti di un film in bianco e nero che davano alla Cineteca,  e anche quelli di quando siamo andati a Venezia, una sera, con l’intercity notturno, per fare una cosa diversa. Le foto in serie che ci siamo fatti con la polaroid dell’amico pseudo-fotografo  che abbiamo. Tutti ne abbiamo uno. Una copia dell’Internazionale. Una copia del nostro ego intellettuale.

E poi i coinquilini, quelli che lasciamo nella casa da cui andiamo via, e quelli che portiamo con noi, in un’altra casa o solo nei ricordi. Compagni funambolici di giornate tra l’ordinario e lo straordinario. Veri conoscitori della nostra personalità domestica.  Gli unici a sapere nell’autentico come reagiamo di fronte all’ubriachezza, e di quanto, proprio nelle occasioni più disparate, i nostri discorsi possano mostrarsi così versatili da abbracciare sia riflessioni oniriche sull’amore che sulla crisi economica greca.  Empatici, o poco simpatici, di sicuro  testimoni oculari dei nostri sbalzi umorali, gli unici a sapere la velocità dei momenti che separano la nostra iperattività dalla nostra fragilità.

Insomma, cambiare casa non è come cambiare stanza d’albergo. Lo si fa spesso, sì. Ma ogni casa è un racconto a parte. Un libro con il suo alfabeto, la sua routine. Ti affacci dalla tua finestra e devi ogni giorno ricordarti e ri-innamorarti delle ragioni che ti fanno essere in un posto che non è il tuo. E avere appesa nella stanza la custodia del disco autografato di un gruppo che sei andato a sentire al Bolognetti, ti aiuta a rintracciare i momenti in cui sei cambiato e in cui hai dato peso al tuo cambiamento. Sei arrivato a Bologna che eri diverso, con la tua visione delle cose, con il sogno di scene  immaginarie che poi non sono accadute e con altre che ti sono successe mentre eri impegnato a vivere un’altra cosa ancora. E in ogni casa in cui sei andato a vivere, hai potuto dare un indirizzo alla tua voglia di rivoluzione e un numero civico diverso al tuo bisogno di essere solo te stesso.

Auguri, per i vostri pacchi. E per tutti gli scatoli dove imballerete il prezzo delle cose che avete amato, odiato, non capito, o soltanto troppo vissuto.

Alessandra ariniBike-&-arcade

Un Paese che aggiorna l’immagine profilo, ma non la sua immagine civile.

“L’antichità di un pregiudizio non è una buona ragione per la sua sopravvivenza”, così la Corte Costituzionale del Sud Africa si pronuncia rispetto ai matrimoni fra persone dello stesso sesso. È curioso come, invece, in uno Stato, quale quello italiano, siamo ancora molto lontani dall’avere un tale sentimento comune. Siamo il Paese del family day, il Paese nel quale le persone, anziché lottare per l’affermazione dei diritti civili, si battono perché tali diritti non siano riconosciuti nei confronti di determinate coppie. In Italia risulta forte l’esigenza di confrontarsi e di lavorare perché i pregiudizi siano un ricordo lontano in quanto non degno di una società che possa definirsi civile, almeno secondo la sua accezione nel XXI secolo. Ritengo il Gay Pride  una manifestazione esemplare dell’amore nella sua totalità, il luogo ideale per dimostrarlo e chiederne il riconoscimento. Un contesto piacevole in cui, contemporaneamente, ci si divertente fra danze, sorrisi, risate, un’occasione per affermare a gran voce che i sentimenti sono di tanti tipi e di tanti colori così come gli uomini. La città di Bologna, anche quest’anno, come ogni anno, ha dimostrato di essere molto sensibile rispetto a questa tematica ed infatti la partecipazione è stata tantissima. Un fiume di persone che tutte insieme, a gran voce, chiedevano solamente una cosa al nostro Paese: crescita ed emancipazione. Quando capiremo che l’amore è amore, a prescindere dal sesso di chi si ama, che il riconoscimento dei diritti verso alcuni non comporta una rinuncia per gli altri e che a questo mondo siamo tutti uguali, saremo già in ritardo ma lo siamo già ed è la Storia a ricordarcelo: lo siamo stati quando le donne hanno conquistato il diritto di voto, o quando abbiamo ottenuto il divorzio. Nel frattempo, nella speranza che anche da noi le cose cambino, coloriamo dei colori dell’arcobaleno le nostre immagini del profilo su facebook, gioendo delle conquiste altrui e coltivando la convinzione che, prima o poi, il buon senso colpirà anche il nostro legislatore e che i tanti atti, bellissimi ma purtroppo destinati a rimanere simbolici, posti in essere da alcuni Sindaci e amministratori locali, non siano vani.290613_Gay pride in piazza Nettuno.Foto Ruggeri_Benvenuti

YES, EQUALITY! Voci dal referendum irlandese

L’Irlanda – scrive Charles Haughey – è il posto in cui cominciano favole strane, e ogni lieto fine è possibile. Ce l’ha fatta, “history has been made” lo scorso 22 maggio, quando per la prima volta al mondo il voto popolare ha acconsentito al riconoscimento costituzionale (art. 41) dell’istituto del matrimonio al di là di ogni discriminazione di sesso. Ho concluso il mio Erasmus a Dublino un giorno dopo, con tutto l’orgoglio e l’emozione di aver lasciato un paese migliore di quello che avevo trovato nove mesi prima.
Dare giustizia alla portata rivoluzionaria dell’evento è possibile solo raccontandolo attraverso la voce di Rory O’Connell, 21 anni, studente di lingue, amico e collega presso il Trinity College. Senza filtri e pregiudizi, un’intervista a Bologna, dove lui stesso ha trascorso l’Erasmus qualche anno fa, una prospettiva interna su cosa è cambiato e cosa cambierà, in Irlanda e nel mondo.

Caro Rory, si dice che il ritmo che l’Irlanda ha impresso alla promozione dei diritti civili non abbia eguali nel resto dei paesi liberali in Europa. L’opinione pubblica è cambiata davvero così radicalmente in così poco tempo?
Effettivamente sì, le cose cambiano rapidamente in una piccola isola come come la nostra.
Solo nel 1993 omosessualità era un reato penale, e lo stesso divorzio fu istituito nel 1996 quando il referendum legislativo passò con uno stretto margine. Per le coppie omossessuali è riconosciuta dal 2010 la civil partnership, e per allora era tutto ciò che il mondo gay potesse ottenere. Credo che se il referendum dello scorso maggio fosse stato fatto solo cinque anni fa, difficilmente la proposta sarebbe passata. Gli stessi sondaggi erano sfavorevoli per più del 60%: nell’arco di pochissimi anni, come è evidente, le cifre si sono praticamente invertite.

Come spieghi un cambiamento così radicale nell’isola che, come l’Italia, è un paese fortemente cattolico?
In realtà anche il rapporto con la Chiesa Cattolica è cambiato nel corso degli ultimi vent’anni.
Negli primi anni novanta è esplosa un’ondata di risentimento e disillusione nei confronti del clero. In quel periodo vennero alla luce notizie di pratiche di discutibile eticità legate al mondo ecclesiastico, primo tra tutti un’usanza generale di rinchiudere segretamente in istituti simili a prigioni donne che lì avrebbero dovuto portare avanti le gravidanze al di fuori del matrimonio, o episodi di abusi sessuali ormai noti anche altrove. Abbiamo smesso di accettare aprioristicamente ogni verità professata dai prima intoccabili “uomini di Dio” quando l’Irlanda ha iniziato ad aprirsi al mondo, il commercio è diventato internazionale e con più soldi nelle tasche gli irlandesi prima emigranti hanno iniziato a investire di più in cultura e istruzione. E’ stata un pò una sfida, quella di mostrarsi al mondo come qualcosa di differente dall’ immaginario mondo rurale, fatto di contadini e pastori, e culturalmente sempre più di un passo indietro rispetto a un Europa che avanzava.

Gli anni novanta hanno quindi evidentemente preparato il terreno per le rivoluzioni sui diritti civili e politici degli ultimi tempi. Ricordo di esser stata particolarmente sorpresa dalla reazione del vescovo di Dublino, qualche giorno prima del referendum, nei confronti della campagna “YES EQUALITY”…
Esatto! Lui aveva pubblicamente abbracciato un potenziale esito positivo come un “wake up call” per la chiesa irlandese. Anche questo, vedi, è un chiaro segno del bisogno di ripulire un’immagine infangata dai recenti scandali, tanto che persino numerose suore e preti hanno espressamente incoraggiato la causa. Onestamente, non credo che per la gente di Dublino, e dell’Irlanda in genere sia stato il cattolicesimo l’elemento determinante per la scelta.

Tu sei nato e vissuto in Irlanda, e hai conosciuto bene l’Italia per il tuo anno in Erasmus e altre esperienze nel Bel Paese. I tratti in comune, specie in materia religiosa, sono tanti, eppure i risultati in termini di equità di genere non dicono lo stesso…
In Irlanda, specie nelle grandi città come Dublino, la fiducia nelle istituzioni clericali è andata gradualmente dissolvendosi, e nessuno più presta particolarmente attenzione alle proibizioni e alle condanne di atteggiamenti amorali. Si crede semplicemente alla dottrina, un pò per spiritualità, un pò per attitudine sociale. L’Irlanda ha rotto i ponti con la sua tradizione anglosassone dalla guerra civile e la Dichiarazione di Indipendenza dal Regno Unito nel 1922. E’ relativamente recente, la sua gente notorialmente più giovane e per la sua posizione geografica ed economica, incentivata a rinnovarsi per preservare l’autonomia e la centralità conquistata nemmeno un secolo fa. Lo dimostra il fatto che la stessa proposta di referendum nell’Irlanda del Nord è stata rigettata dal parlamento di Belfast (Regno Unito) che è ancora troppo segnata dalle cicatrici delle diatribe religiose e politiche interne per occuparsi di un tema così divisivo e sensibile.

Quali sono i freni al cambiamento in Italia allora?
L’Italia ha senza’altro una sua storia più fortemente radicata nella tradizione e nella cultura cattolica, è quindi geneticamente meno avvezza al cambiamento e alla rivoluzione, e, cosa decisiva in questo caso particolare, il tasso di invecchiamento della popolazione è sempre più alto, scoraggiando inevitabilmente il rinnovamento. In Italia ogni cambiamento in italia prende più tempo. E il cattolicesimo c’entra poco. Il problema sono i giovani.
Ad esempio, trovo che una città come Bologna sia tanto liberale quanto Dublino da questo punto di vista, mentre magari spostandoci altrove le cose cambiano.
Inoltre, gli stessi ragazzi italiani in Irlanda, nei gruppi su Facebook quali “Sopravvivendo a Dublino” avevano espresso il pieno sostegno alla causa.
E infine, la politica ha il suo peso. Come in altri grandi paesi, seppur liberali come Francia e Regno Unito, è più probabile riscontrare l’estremismo nelle propagande populiste, mentre L’Irlanda è per costituzione centrista e moderata, il conflitto contemporaneo non si è generato attorno a un nemico interno ma nei confronti dell’Inghilterra, antica dominatrice. Il senso nazionale è più coeso, le differenze tra le regioni non sono marcate come altrove.

Eppure la stessa Irlanda ha espresso il suo NO referendario all’aborto. Se guardiamo alla conquista dei dirititi civili come un percorso progressivo, è difficile non accorgersi delle ambiguità dell’attitudine del popolo irlandese nei confronti del cambiamento sul fronte del diritto alla libera scelta..
Ecco, l’aborto. Questo è un altro punto particolarmente controverso, è vero, e molti di noi si sono chiesti ripetutamente perche molti siano pronti ad accettare i matrimoni gay e negare l’aborto. Credo fortemente che la differenza sia da ritrovare nella profonda diversità delle due campagne in termini di comunicazione. La campagna per il YES era tutta basata sul concetto di equality, love, e quindi è chiaro che un messaggio positivo risulti più efficace e più di impatto rispetto allo slogan “give people a choice” attorno a cui si raccoglievano i sostenitori della legalizzazione dell’aborto. Le promesse in gioco erano decisamente meno ridondanti di un disegno di società tollerante e aperta, che è poi l’immagine che la nuova Irlanda vuole trasmettere di sé.

Mentre dall’altra parte le bandiere multicolore sventolavano in nome dell’equità, di diritti e responsabilità della società civile, gli oppositori della nuova svolta hanno a stento raggiunto il 38% del sostegno popolare. Perché i NO claimers si sono rivelati incapaci di porre un freno al percorso di sensibilizzazione del paese alla causa omosessuale? In termini pratici, era davvero radicale il cambiamento che si ostinavano a combattere?
Sostanzialmente, nulla è cambiato, se non un riconoscimento formale in Costituzione del matrimonio in quanto legittima unione civile a prescindere dal genere. Difatti, le civil partnership consentivano per legge già alle coppie omosessuali di intraprendere le procedure di adozione, svuotando di credibilità tutte le campagne che facevano leva sulla necessità di difendere il ruolo tradizionale della famiglia e di contrastarne le ripercussioni sull’educazione infantile. Risollevavano cioè tematiche già superate, tentando – con scarsi risultati – di mettere in discussione conquiste che persino i più scettici avevano ormai imparato a tollerare.

E i risultati hanno soddisfatto le aspettative pre-elettorali?
In generale, l’affluenza alle urne è stata eccezionalmente enorme tanto che molti giovani anche sopra i 18 hanno esercitato il loro diritto di voto per la prima volta, registrandosi appositamente per l’occasione (a differenza dell’Italia, il diritto di voto non è esercitabile automaticamente al compimento della maggiore età). C’era da aspettarselo: a differenza dei temi più strettamente economici e istituzionali, le questioni relative ai diritti civili hanno, più o meno direttamente, un forte impatto sulla everyday life di ogni cittadino. Il risultato del 62% è stato sensazionale, di gran lunga superiore a qualsiasi altra iniziativa elettorale negli ultimi tempi. C’era grande fiducia, ma nessuno immaginava, specie a pochi giorni prima del voto, che il gap tra i si e i no fosse così ampio.

Irlanda e Italia: che impatto avrà il cambiamento nella cultura dell’isola, e al di fuori?
Ovviamente in Irlanda, nel breve termine, non ci si può aspettare che l’intolleranza possa essere del tutto estirpata. Siamo ancora lontani, e la gente continuerà a non accettare ciò che non riesce a comprendere. Ma è stato un grande passo, un precedente con una forza propulsiva enorme, una sfida che tocca alle nuove generazioni cogliere.

The fight to spread the love has just started. Everywhere, now, it is time to change. E’ questo, imparando la lezione irlandese, il grande augurio da rivolgerci tutti.

Joe Caslin, murales pro referendum in George Street, Dublin.
Joe Caslin, street art pro-referendum in George Street, Dublin.

 

“Transalpina solitudo mea iocundissima”

Quando a Bologsorrentinona inizia ad arrivare il caldo torrenziale, una delle migliori alternative che ci fornisce questa città è il cinema, e con il pretesto del ritorno sul grande schermo di Paolo Sorrentino e –coincidenza- lo sconto studenti settimanale che offrono molti cinemini in zona ho deciso di andare a vedere “Youth-la giovinezza”. Un primo commento a freddo potrebbe essere: “Con questo film il regista conferma la sua posizione, la solidità del suo genere e colma le mancanze che furono criticate nel precedente film”. Si, perché le critiche che ha ricevuto “La grande bellezza” non mi erano sembrate tanto fondate e dopotutto Paolo Sorrentino ha riportato dopo quindici anni in Italia la più famosa statuetta d’oro grazie ad un gran bel film con uno stile e degli attori totalmente made in Italy. Il regista partenopeo è tornato a illustrare il grande schermo nel migliore dei modi: cast internazionale (tornando con questa scelta sui passi del suo antecedente capolavoro “This must be the place”) e colonna sonora da colossal affermando il suo più che inedito e particolare stile. Se nel precedente film sin dalle prime scene poneva già la domanda su quale sia la vera grande bellezza tra il silenzioso e disarmante giro turistico tra i capolavori di Roma e i grotteschi festini della vita mondana della capitale, nel nuovo film, ambientato in un lussuoso albergo sulle alpi svizzere, bisogna aspettare il finale per capire quale sia la vera giovinezza.

Il protagonista è un anziano e celebre direttore d’orchestra ormai lontano dalla sua vita professionale in vacanza con la figlia in questo paradiso alpino dove alberga anche un suo storico amico regista che al contrario si trova lì per concludere la sceneggiatura del film che a suo dire sarà il proprio “testamento cinematografico”. Il film è un susseguirsi di dialoghi molto fini dal punto di vista della sceneggiatura tra i due amici che si alternano con la storia d’amore fallita della figlia del protagonista e quella di un attore hollywoodiano che prepara la parte per il suo prossimo film. Come al solito c’è un’immensa fotografia che combacia perfettamente con le pause e i silenzi tipici del regista, degna di nota la scena dell’orchestra naturale composta dai campanacci delle mucche, dagli stormi di uccelli, dal vento e soprattutto dal silenzio. Fa un ritratto delle Alpi splendido, che mi ha ricordato quel famoso manoscritto appartenuto a Petrarca della “Naturalis Historia” di Plinio il vecchio dove il poeta nel punto in cui viene citata la zona della sua cara Valchiusa scrive a piè di pagina una postilla: “Transalpina solitudo mea iocundissima”. Il manoscritto passerà anche tra le mani del Boccaccio che accanto alla postilla farà un disegno del “locus amoenus”.

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Un vocabolo impegnativo

Ognuno vive i suoi giorni in armonia con il tempo che attraversa, seguendo una linea immaginaria, autonoma, spesso inconsapevole che è tracciata dal nostro Io interiore. Non possiamo definire concretamente cosa significhi vivere, perché la vita è composta da istanti memorabili e da ore anonime, entrambi fugaci, ma dilatare la durata dei primi a scapito delle seconde è un’impresa che ci vede protagonisti. E’ come un respiro necessario e sistematico, ma mentre questo può essere frenato solo per qualche secondo, la vita può divenire apatica senza confine. Essa procede incalzante e imprevedibile, bendata dal destino è al contempo fra le nostre dita. Infatti è un’illusione asserire che ci appartenga del tutto e che sia una tela candida sulla quale facciamo scivolare il colore delle pennellate dei nostri anni; la sorte è caotica, il futuro incerto, il passato è storia, eppure, il presente ci spetta: possiamo provare ad essere complici del nostro destino appena acquisiamo la consapevolezza di quale sia, fra le infinite sfumature, il pigmento che si abbina di più all’abito che indossiamo. Desiderare di vivere in tale maniera è una scelta di coraggio, la parte che determina il tutto e per realizzare questo proposito occorre “riflettere” nella doppia, profonda accezione espressa qualche sera fa da Concita De Gregorio, durante la presentazione del libro “Coraggio” di Umberto Ambrosoli, organizzata da “il Mulino” presso l’idilliaco chiostro di San Domenico a Bologna. Così come lo specchio riflette la nostra immagine esteriore, quella interiore emerge dialogando con noi stessi, pensandoci. E’ coraggioso essere se stessi, dopo aver riflettuto e, appunto, essersi rispecchiati e pensati; come è coraggioso (ri)cercare veramente la propria identità per poi manifestare all’esterno questa virtuosa bellezza trovata. Ciascuno dà un’interpretazione personale alle faccende della vita, ad esempio l’”eroismo quotidiano” è inteso da Ambrosoli come “l’essere fermamente rispettosi della legge” e dunque il coraggio civile si coniuga con l’esercizio della propria responsabilità, anche a costo di essere impopolari, ma giusti. In verità, il coraggio è per definizione un moto irrazionale, perché è veicolato dal cuore che accetta l’esposizione al pericolo, al dubbio, alla potenziale sofferenza. Laddove i più si fermerebbero, i coraggiosi procedono nonostante le intimidazioni e le incertezze delle conseguenze. Esercitare tale virtù non equivale all’assecondare il folle impulso: si ragiona con coraggio quando quella che è fra le più nobili capacità dell’animo orienta verso scelte e azioni che non tutti affronterebbero. Può accadere che non ci si renda conto di incedere sulle rive del coraggio e che l’impegno per un interesse pubblico sia riconosciuto come tale da un giudizio altrui, alle volte anche posteriore alla vita stessa. Invece proprio in questa silenziosa autonomia risiede il coraggio autentico che è talmente radicato nello spirito da non necessitare di un plauso o supporto esteriore per concretizzarsi. Al di là di ogni illustre riferimento ad emblematici uomini del presente e del passato che hanno dimostrato e dimostrano ammirevole fedeltà a questa umana virtù, è già appagante riconoscere individualmente la coerenza ovvero il coraggio di voler essere se stessi. Qualora vi siano questi presupposti, si intende e spera che vi sia una naturale propensione alla condotta virtuosa nell’affrontare le vicissitudini della vita; inoltre, è egualmente logico rapportarsi con il sentimento avverso della paura che è tanto umana quanto contrastabile, se non vincibile. E’ già coraggioso colui che percepisce intimamente la paura e la affronta a testa alta seppure nella ragionevole esitazione, dettata dalla oggettiva finitezza umana. Il discrimine fra un comune essere umano e un Uomo è la dignità con cui questi decide di camminare a schiena dritta nella vita senza bisogno di solidarietà diffusa. C’è molta libertà nell’animo dei coraggiosi, perché scegliere di voler adempiere ad un dovere di coscienza è la perfetta sintesi di una filosofia ponderata, certa di conferire alla propria vita quel senso di pienezza gioiosa e soddisfatta. Comunque vada, provare ad essere Uomini è ossigeno meraviglioso.

Bologna, 12 Giugno 2015

Anna Rita Francesca Maìnoimage

Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?

“Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?” si chiedeva Gaber qualche anno fa, con una canzone che potrebbe benissimo essere accostata alle analisi politiche più raffinate.

Solo un grande artista come il signor G., con la sua ironica e intelligente sensibilità, è stato ed è in grado di farci sorridere, ma anche riflettere, su un argomento che ha ben poco di divertente: la crisi della Politica.

E qui è necessario fare una precisazione: non si tratta del solito discorso autocritico, incentrato interamente sul Paese Italia. Questa crisi coinvolge le principali democrazie rappresentative occidentali, gli stati governati attraverso lo strumento del Parlamento, mai come oggi delegittimato.

La domanda si ripresenta puntuale e insistente dal 1989 e dalla caduta del Muro: che senso hanno concetti come Destra e Sinistra? Serve ancora utilizzare queste etichette sbiadite?

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Per cercare di trovare un senso in tutto ciò, è utile analizzare alcune delle critiche rivolte verso questa contrapposizione ideologica.

Una delle obiezioni che si sentono nel momento in cui si cerca di impostare un discorso “ideologico”, andando a delimitare i campi secondo quelle coordinate, è che questo modo di fare non serve a risolvere “i veri problemi del Paese”. Ancora: si assume che non importa di che tipo sia la ricetta, se di Destra o di Sinistra, l’importante è che funzioni. Altri ancora sostengono che Destra e Sinistra “non esistono più” (lasciando intendere che prima esistessero) e che oggi questa distinzione si sarebbe dissolta in un corrotto e grigio magna-magna (dove magna non sta per “grande”).

Ai livelli più alti, nei luoghi in cui si esprime il potere o si cerca di indirizzarlo, si suggerisce che, per  fronteggiare la Crisi, esistono delle riforme da effettuare in ogni caso e al di là del colore politico del governo nazionale di turno.

Tutte queste critiche possono essere accomunate dalla presunta neutralità che vorrebbero esprimere, il loro essere politicamente non schierate. Esse lasciano intendere che esistono delle risposte, delle ricette che devono essere seguite e che mettono d’accordo tutti sulla loro utilità.

In realtà, chi sostiene che “i problemi del Paese sono altri”, dietro l’apparente neutralità, nasconde una gerarchia di idee, preferenze e proposte che vorrebbe vedere attuate. Queste preferenze nascono dalla situazione del singolo, da quella fitta trama di interessi privati, situazione economica e familiare, attitudini culturali e religiose che rendono un essere umano una coscienza.

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