L'UNIversiTÀ

Alessandro Milito

Questa persona, nata 24 anni fa a Crotone (in Calabria, in fondo a destra), generalmente è logorroica e difficilmente evita di parlare e gesticolare. Il suo principale problema è parlare di se stesso: ne è totalmente incapace. Potremmo dire che ha conseguito la Maturità classica e questo lo ha portato all'originale scelta di studiare Giurisprudenza a Bologna e laurearsi. Scrive sin da quando perse un giochino a sei anni (trovato negli ovetti di cioccolata): la ricerca di quell'oggetto fu il suo primo capolavoro letterario. Da allora condivide le sue paranoie e insofferenze così. Gli piace credersi di sinistra, se questo sia vero o no è un quesito che lascia ad altri.

Che guerra sarà

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Ricordo bene il mio 11 Settembre 2001. Ero seduto sul divano del soggiorno e attendevo il solito appuntamento del dopo-pranzo, l’immancabile “Melevisione” e i suoi cartoni su Rai Tre. Ricordo che la trasmissione si interruppe improvvisamente: la cosa non mi andò giù e protestai per qualche istante, vivendo quegli incerti ed innocenti secondi che ognuno di noi, quel giorno, ha trascorso prima di aprire un nuovo capitolo di Storia, quella con la S maiuscola.
Ricordo e ricorderò quella notte del Novembre 2015. Ricorderò quando, in un locale a Bologna, distrattamente lessi sullo smartphone quella notizia di un attacco a Parigi, con 17 morti. Una notizia che si faceva sempre più grande e sanguinosa con il passare delle ore, dei minuti. Alcuni dettagli verranno inevitabilmente rimossi, levigati e falsificati dalla memoria; altri entreranno a far parte della mia persona e, silenziosi, influenzeranno le mie idee, i miei pensieri e le mie posizioni in un futuro dibattito o commentando una notizia; nel leggere e nel rapportarmi con una situazione, con un problema, con una persona.
Generalmente non scrivo mai in prima persona, non qui, non su un giornale. Ho sempre creduto che la prima persona avesse un potere talmente forte e spiazzante da dover essere usata con parsimonia, con attenzione. La prima è sempre una scommessa, un raccontare rinunciando allo schermo rassicurante della più distaccata e “professionale” terza persona. Con la terza persona si cerca di affidare alle parole il crisma dell’analisi che si pretende oggettiva, il sigillo del commento addomesticato dallo stile.
Eppure è difficile, su questo finire del 2015, mantenere un distacco, rifugiarsi verso altri pensieri che non richiamino in gioco l’individualità e la persona di ognuno di noi. Difficile in questi giorni pensare ad altro che non sia scontro, conflitto, guerra.
Guerra: una parola potente che nel corso degli anni la nostra società ha cercato in tutti i modi di sminuire, terzomondizzare o, al contrario, usare con insistenza nelle più svariate e modeste situazioni, rendendola di fatto meno terribile proprio perché abusata. Una parola che si ripropone vestita di abiti nuovi ed inediti, almeno fino ad ora, a noi cittadini europei degli Anni 10. Ai giovani della cosiddetta generazione Erasmus, i figli dell’Europa senza frontiere interne e senza controlli.
Un evento è “grande”, è storico se riesce a catalizzare attorno a sé l’attenzione di mondi e sensibilità diverse; se riesce a rimpicciolire tutto ciò che, diverso da sé stesso, lo ha preceduto e lo segue; se riesce a cambiare il modo di far pensare e di rapportarsi ai problemi passati e futuri. I fatti accaduti quella notte parigina hanno immediatamente reso così distanti, piccoli e infinitamente superflui argomenti e problemi che, solo qualche giorno prima, sembravano fondamentali o insormontabili. Che fine hanno fatto, giusto per citare qualche esempio tra i tanti, tutte quelle “dichiarazioni di guerra” alla cosiddetta legge di stabilità? E il progetto del nuovo centrodestra salviniano dopo la manifestazione in Piazza Maggiore? Il nostro giardino italiano ci è parso immediatamente troppo piccolo e modesto ed è subito stato messo da parte di fronte all’irruenza del terribile nuovo.
Eppure sento che la nostra necessità principale debba essere proprio riappropriarci di quella piccolezza, di quel giardino fatto dei piccoli-grandi problemi della normale quotidianità. Questo clima teso e lugubre si riflette anche su ciò che scrivo, temendo che, quel (fisiologico) distacco temporale che intercorrerà tra il mio scrivere e la pubblicazione di questo pezzo, possa essere sfondo di un altro, totalizzante e micidiale evento; vanificando e rendendo inattuali pensieri e parole.
Che guerra sarà? Si potrà continuare a parlare di guerra o dovrà cambiare anche il nostro vocabolario, il nostro modo di raccontare e percepire le cose e gli eventi?
Dovremo scendere a compromessi, addentrarci in quel rischioso baratto tra libertà-diritti e sicurezza? Domande simili si susseguono nel dibattito pubblico e nel personale confronto che, ognuno di noi, con mezzi e modi diversi, intrattiene con la sua coscienza e i suoi valori. L’anno che verrà porterà con sé un mondo sempre più piccolo e interconnesso: il Medio-Oriente non è mai stato più vicino, i fatti di Parigi sembrano riguardare la nostra capitale e non quella di uno stato confinante, l’agire globale dell’Isis e dei suoi avversari comporta inevitabilmente riflessioni regionali ed internazionali. Un mondo (occidentale) che però non è mai sembrato, allo stesso tempo, così fragile e insicuro, con il rischio dietro l’angolo dell’erezione di nuove barriere fino ad oggi dimenticate.
Frontiere chiuse, controlli, coprifuoco, stato d’emergenza, legge eccezionale: sono solo alcuni dei termini che abbiamo imparato a (ri)conoscere in questo finire di 2015. Sono pezzi di un mondo che ancora non conosciamo ma che dobbiamo capire, senza perdere noi stessi.
Una delle critiche più frequenti verso la società occidentale e la sua gioventù sostiene che esse si sarebbero svuotate di ideali ed ideologie, divenendo società liquida, in continua evoluzione e discussione. Una società che dimostra tutta la sua fragilità proprio di fronte alle granitiche certezze dei fondamentalismi che la attaccano. Una prima dimostrazione la si può avere leggendo sui social network più frequentati, un modo banale (ma forse non troppo) di tastare il polso di una certa opinione pubblica, la “pancia” del web. I commenti che si leggono sono i più disparati e spaziano dal più duro e intransigente anti-islamismo alla critica verso la società occidentale e le sue contraddizioni (si prenda come esempio la “disparità di trattamento” tra i morti di Parigi e quelli delle innumerevoli tragedie in altre parti del mondo meno considerate e conosciute). Questi dibattiti, queste posizioni inconciliabili, queste autocritiche, dimostrano come sia impossibile parlare di un corpo sociale unito nei confronti di un “nemico” comune. Questa frammentazione si contrappone ad un soggetto, l’Isis, formato da giovani militanti fermamente convinti nella loro missione divina, così convinti da rinunciare alla loro stessa vita. L’asimmetria di questi due piani può spaventare ma, sinceramente, per certi aspetti mi rincuora.
Dopotutto, in un certo senso, è la stessa differenza che passa tra una persona che si interroga continuamente sulle sue scelte, che esercita una severa autocritica e che riflette su ogni sua azione e relativa conseguenza, e una persona mossa da una fede incrollabile che non lascia spazio ad alcun dubbio. Ho sempre ritenuto più maturo e in definitiva, più umano, il primo di questi atteggiamenti.
L’auspicio per il 2016 è che la nostra eterogenea fragilità rimanga il punto di forza della nostra società democratica e multiculturale.
Ascoltando e apprezzando le parole di Luciano De Crescenzo che nel suo bellissimo “Così parlò Bellavista” (libro e poi anche film), fa pronunciare al protagonista, professore di filosofia in pensione:
“Il bene è il dubbio, quando voi incontrate una persona che ha dei dubbi state tranquilli, vuol dire che è una brava persona, vuol dire che è democratico, che è tollerante, quando invece incontrate questi qui [Indicando il punto esclamativo disegnato sulla lavagna], quelli che hanno le certezze, la fede incrollabile, e allora stateve accorte, vi dovete mettere paura, perché ricordatevi quello che vi dico: la fede è violenza, la fede in qualsiasi cosa è sempre violenza.”
Che questo 2016 sia l’anno della fede nella nostra capacità di difendere i nostri dubbi.

Pensare, ripensare: scrivere!


 

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Pensare, ripensare, arrabbiarsi un po’, spingersi oltre: scrivere. Lasciare che un pensiero si faccia lettera e poi pagina, comporta una certa responsabilità e perché no: una certa arroganza. Esprimere una propria opinione, farla uscire dal perimetro della propria riflessione personale e renderla idea pubblica è indice di presunzione. La presunzione, più o meno velata ma sempre presente, che ciò che venga scritto possa essere letto, riletto e apprezzato. O criticato, ma comunque ritenuto meritevole di attenzione. E niente è più bello che soddisfare questo desiderio nascosto (ma neanche troppo) e stringere un patto con i propri lettori: scrivere per questa rubrica di opinioni con sincerità e onestà intellettuale, senza dimenticare di divertirsi un po’.

Il bello di “navigare” (mai come in certi casi il verbo è così adeguato) per il web e, in particolare, per i mari tormentati di Facebook, è che capita di imbattersi in alcune terre abitate da strani e vivaci abitanti. Terre straniere in cui si rimane subito affascinati dalla forza e dal calore dei pensieri e delle opinioni sparati sotto forma di commento, proprio lì, in fondo ad una foto o ad un link. Oggi questo allegro navigare mi ha portato nella terra di Vittorio Sgarbi, re incontrastato di un reame molto particolare. L’argomento di “discussione” erano dei…beh, qui devo dare ragione a Re Vittorio: dei nonsocosa dietro le Torri. Promettendomi di andare di persona a vedere queste nuove opere d’arte sotto le carissime Garisenda e Asinelli, mi sono avventurato nella giungla dei commenti, armato di (in ordine sparso): una notevole nullafacenza, una pesante dose di masochismo e un po’ di sana e sincera curiosità.

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Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?

“Ma cos’è la Destra, cos’è la Sinistra?” si chiedeva Gaber qualche anno fa, con una canzone che potrebbe benissimo essere accostata alle analisi politiche più raffinate.

Solo un grande artista come il signor G., con la sua ironica e intelligente sensibilità, è stato ed è in grado di farci sorridere, ma anche riflettere, su un argomento che ha ben poco di divertente: la crisi della Politica.

E qui è necessario fare una precisazione: non si tratta del solito discorso autocritico, incentrato interamente sul Paese Italia. Questa crisi coinvolge le principali democrazie rappresentative occidentali, gli stati governati attraverso lo strumento del Parlamento, mai come oggi delegittimato.

La domanda si ripresenta puntuale e insistente dal 1989 e dalla caduta del Muro: che senso hanno concetti come Destra e Sinistra? Serve ancora utilizzare queste etichette sbiadite?

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Per cercare di trovare un senso in tutto ciò, è utile analizzare alcune delle critiche rivolte verso questa contrapposizione ideologica.

Una delle obiezioni che si sentono nel momento in cui si cerca di impostare un discorso “ideologico”, andando a delimitare i campi secondo quelle coordinate, è che questo modo di fare non serve a risolvere “i veri problemi del Paese”. Ancora: si assume che non importa di che tipo sia la ricetta, se di Destra o di Sinistra, l’importante è che funzioni. Altri ancora sostengono che Destra e Sinistra “non esistono più” (lasciando intendere che prima esistessero) e che oggi questa distinzione si sarebbe dissolta in un corrotto e grigio magna-magna (dove magna non sta per “grande”).

Ai livelli più alti, nei luoghi in cui si esprime il potere o si cerca di indirizzarlo, si suggerisce che, per  fronteggiare la Crisi, esistono delle riforme da effettuare in ogni caso e al di là del colore politico del governo nazionale di turno.

Tutte queste critiche possono essere accomunate dalla presunta neutralità che vorrebbero esprimere, il loro essere politicamente non schierate. Esse lasciano intendere che esistono delle risposte, delle ricette che devono essere seguite e che mettono d’accordo tutti sulla loro utilità.

In realtà, chi sostiene che “i problemi del Paese sono altri”, dietro l’apparente neutralità, nasconde una gerarchia di idee, preferenze e proposte che vorrebbe vedere attuate. Queste preferenze nascono dalla situazione del singolo, da quella fitta trama di interessi privati, situazione economica e familiare, attitudini culturali e religiose che rendono un essere umano una coscienza.

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La fauna della Biblioteca

“Io non mi trovo bene a studiare in biblioteca, ho bisogno di ripetere a voce”.

Chi pronuncia questa frase probabilmente intende studiare per davvero ma, così facendo, rinuncia ad uno spaccato di umanità incredibile e a tanti aneddoti da aggiungere al proprio repertorio.

La Biblioteca, prima di essere un edificio con tanti libri e qualche posto a sedere, è un habitat in cui prosperano le specie più diverse e i personaggi più strani.

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Biblioteca dell’Archiginnasio

Nel corso dei suoi matti e disperatissimi studi, l’universitario impara a distinguere le varie specie, il suo istinto di sopravvivenza gli suggerisce quali evitare e quali frequentare.

Questo processo di selezione è essenziale per non rischiare di cadere in trappole spiacevoli e per mantenere una vita studentesca sana e dignitosa (tradotto: difendere la già precaria salute mentale).

E quindi, è con gran piacere che L’UNIversiTÀ è lieta di fornirvi una guida essenziale per riconoscere alcuni degli esemplari più rappresentativi, personaggi topici con i quali prima o poi si avrà a che fare.

Parlavamo di posti a sedere e proprio la ricerca di questi ci conduce direttamente al primo, fondamentale personaggio: l’Esploratore.

L’Esploratore è la prima linea, l’avanguardia, il coraggioso mandato in avanscoperta a svolgere un compito essenziale: occupare una postazione (o più) da difendere a tutti i costi. I suoi nemici principali sono gli altri esploratori (la concorrenza è agguerrita) e le paroline magiche, esplosive e pericolose: “è libero questo?”. Per la sua missione, l’Esploratore è dotato di un armamentario di tutto rispetto: libri, foglietti, codici, giubbotti e una certa dose di faccia tosta.

Basta spostarsi di qualche posto e subito balza fuori un altro esemplare, anch’esso presente sin dall’apertura della biblioteca: il Sapientone.

Questa pericolosissima razza è composta molto spesso da dottorandi e ricercatori, gente che è oltre, che hagiàvistotutto e satutto. Il Sapientone si muove alla perfezione fra i libri e i corridoi della biblioteca lo esaltano come una pista da ballo; avendo venduto l’anima e abbandonato qualsiasi autentico rapporto umano, il Sapientone respira pagine, si nutre di saccenteria, unico carburante in grado di mantenerlo in vita. La macchinetta del caffè, indiscusso totem per ogni specie, è il suo luogo prediletto: qui lo si può ascoltare mentre sottolinea il fascino della caparra confirmatoria di un contratto del 1245 (il Sapientone “giurista” è semplicemente devastante).

Altri incontri alla macchinetta del caffè
Altri incontri alla macchinetta del caffè

Ma anche la carne vuole la sua parte e i cacciatori non mancano nemmeno in biblioteca. Anzi: prosperano. Il Cacciatore entra in sala studio e subito cerca con sguardo felino la preda da ghermire. Poco importa che vi siano posti liberi se questi non sono situati davanti o affianco l’obiettivo. Il Cacciatore lancia occhiate taglienti come coltelli, a volte si avventura nel terreno incerto del “piedino” e, se tutto va bene, azzarda anche il tivauncaffè?

Queste battute di caccia avvengono sotto il costante e deciso ticchettio dei Dattilografi, esemplari che scaricano la loro frustrazione sugli inermi tasti dei loro pc portatili (noncuranti che questo bombardamento possa infastidire qualcuno).

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Piazza Verdi: amore, odio o semplicemente Università?

 

Piazza Verdi
Piazza Verdi

Studiare a Bologna comporta una serie di regole scritte e non scritte da seguire, alcuni personaggi topici da incontrare e certi totem da scoprire.

Piazza Verdi è il primo, vero confronto a cui si è chiamati subito dopo aver ottenuto il badge universitario (con tanto di foto indecente che si conserverà a futura memoria).

Ma cerchiamo di capire che cosa sia questa piazza, questo simbolo della Bologna universitaria, croce e delizia della “vecchia signora dai fianchi un po’ molli”.

Sua maestà della saggezza a portata di click (meglio nota come “Wikipedia”) non ci è di grande aiuto. Alla voce “Piazza Verdi (Bologna)” l’Oracolo si limita a ricordarci che “Piazza Verdi, dedicata al musicista italiano Giuseppe Verdi, è una piazza di Bologna e si trova nel cuore della zona universitaria.” per poi aggiungere qualche altra indicazione stradale e un timidissimoLa Piazza, soprattutto in periodo estivo, è utilizzata per manifestazioni culturali all’aperto.” Stop. Nient’altro. Nulla riguardo alle quotidiane, e non solo estive, manifestazioni di umanità che quest’angolo di Bologna può offrire.

E allora torniamo alla domanda iniziale: che cos’è Piazza Verdi?

E il bello viene proprio qui: Piazza Verdi non esiste, esistono tante piazze, tante immagini che ognuno di noi tiene stampate in mente e che riappaiono immediatamente non appena si passa da quelle parti, si cita quel luogo.

Provate a chiudere gli occhi e pensate alla piazza: che cosa vedete?

Qualcuno potrebbe vedere branchi di enormi bestioni al guinzaglio o con birra di ogni tipo alle mani. Potrebbe condire il tutto con alcuni effetti speciali (come certi odorini non proprio raccomandabili).

Qualcuno dalla mentalità più pragmatica potrebbe pensare alla birra venduta anche a tarda notte e a basso costo (ma qui ci sono varie interpretazioni) da impavidi “commercianti” improvvisati che, sfidando le ordinanze del fu sceriffo Cofferati, sono la dimostrazione vivente di come le leggi della domanda e dell’offerta muovano il mondo. Birra ma non solo: audaci professionisti dell’accordo cercano in tutti i modi di rifilarti una bici o comunque qualsiasi altra cosa che ti faccia “viaggiare”, in tutti i sensi.

Qualcun altro ancora potrebbe obiettare che ahimé, anche nel 2015 la birra lascia dietro di sé una bottiglia: e questa non sparisce da sola se non la si butta nel cestino. E tante sono le bottiglie di vetro che tappezzano la nostra cara piazza subito dopo l’Apocalisse serale.

Altri più clementi potrebbero vedere in Piazza Verdi il punto di incontro per eccellenza, l’oasi di rifugio dopo tante ore passate in aula studio, con tanto di caffè liberatorio in compagnia.

Insomma: questa Piazza è nella mente di chi la osserva e prende forma, così come “gli abitanti” che la popolano, in maniera diversa in base alle esperienze personali e agli che ognuno le collega.  (altro…)

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