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Ogni volta che vado a vedere un concerto mi sembra come se me lo abbia prescritto il medico. Perché? Perché la musica ci fa bene, ci trasforma, ci permette di alleviare i dolori o alimentare i nostri sentimenti. Figuriamoci l’andare ad un concerto, che può diventare una perfetta catarsi in mezzo al piattume della routine quotidiana, un modo per buttar fuori quell’insieme di energie represse o per dimenticarsi dei pesanti pensieri settimanali.
Così, andando a sentire i Fast Animals and Slow Kids al Locomotiv di Bologna, immagino di scartare la confezione di un utile medicinale mettendomi a guardare (come in teoria bisognerebbe sempre fare) il bugiardino informativo dei consigli e delle controindicazioni:

INDICAZIONI: i Fast Animals and Slow Kids sono una band di Perugia nata nel 2007 dall’unione di quattro musicisti amici. Il nome prende spunto da una puntata del cartone animato “I Griffin”, in particolare la scena dove Peter Griffin racconta di un reality show in cui bambini lenti e grassocci sono costretti a fuggire da belve feroci e rapide. Lo spunto demenziale rende palese l’iniziale intento del gruppo di non prendersi veramente sul serio, unico obiettivo quello del divertimento. Ma dopo la vittoria nell’estate 2010 del contest per gruppi emergenti di Arezzo Wave Festival e l’appoggio del cantante degli Zen Circus Appino per la pubblicazione del loro primo album (Cavalli), qualcosa sembra essergli andata storta…
COMPOSIZIONE: Aimone Romizi (chitarra, voce e percussioni), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria)
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: utile ad alleviare rabbia repressa grazie allo sfogo ottenuto dall’assistere ai loro concerti. Subitanea consapevolezza e conforto di essere tutti partecipi di una generazione che non può far altro che “combattere per l’incertezza”. Permette di accomunare ragazzine sedicenni a metallari intransigenti, cori da stadio rabbiosi a momenti di malinconia. Gruppo perfetto per chi adora pogare.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: munirsi di scarpe comode e spalle pesanti. Rischio di costole rotte o denti scheggiati nel corso degli svariati poghi di massa invocati a forza dal cantante. Attenzione ai frequenti stage diving di quest’ultimo (o vi ritroverete con un suo piede in testa). Se non sapete da dove vengono state sicuri che ve lo ricorderanno loro: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids… e veniamo da Perugia!”
DOSI CONSIGLIATE: Questo è un cioccolatino EP (2010, To Lose La Track), Cavalli (2011, Iceforeveryone), Hybris (2013, Woodworm), Alaska (2014, Woodworm). Prendere un album a scelta e fare attenzione al volume degli auricolari.
MODALITA’ D’USO: prendere le dosi consigliate e dirigersi verso uno dei loro concerti, come ad esempio quello del 29 gennaio al Locomotiv di Bologna.

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Lette le istruzioni, posso finalmente prendere la mia medicina. Mi dirigo al Locomotiv a pochi passi dalla stazione accompagnato da due amiche. Il locale dalle pareti rosse si presenta non proprio grandissimo per colpa del bar che si insinua a metà del centro della sala, e le persone sono sempre più in aumento (all’entrata avevo sentito che mancavano solo tre biglietti per il sold out), ma alla fine si riesce ad avere un discreto spazio indivuale. Decido di posare il giaccone nel guardaroba per non fare il masochista e diventare letteralmente un bagno di sudore, poi vado ad aspettare vicino al palco la band tanto attesa, mentre l’ultima canzone del gruppo di apertura, i Capra, sta sul punto di terminare. Il concerto inizia alle undici meno un quarto. Il tour di sette date intrapreso dai Fask agli inizi di gennaio rispecchia i sette anni in cui questi quattro ragazzi stanno suonando insieme. “Gran Final Tour 2016” (ora terminato nell’ultima data di sabato 8 febbraio all’Alcatraz di Milano) è il coronamento di una carriera piena di sorprese e un saluto finale prima di una lunga pausa che li terrà impegnati alla realizzazione del loro futuro nuovo album. Con loro c’è anche il bravissimo Nicola Manzan del progetto Bologna Violenta in veste di chitarrista e violinista, gà in collaborazione con la band riguardo ai loro ultimi due album. Ma questo tour non è altro che il proseguimento e il termine del loro “Alaska Tour”, partito in seguito alla pubblicazione del loro ultimo disco che gli ha permesso veramente di coronare il loro successo nella penisola, tanto che nel giro di poche ore Alaska è stato il disco “alternative” su Itunes più venduto in Italia. Ma bando alle ciance e ai pensieri di attesa, finalmente i quattro ragazzi di Perugia arrivano sul palco. Si comincia con OVERTURE, effettivamente primo brano del loro ultimo album. Molto suggestivo grazie a Manzan al violino, lascia trascinare il pubblico verso emozioni malinconiche che ricordano paesaggi lontani e copiosamente innevati come l’Alaska. “Scusa, mi lascio andare un po’… ora, dopo ritornerò” la frase cantilentante prosegue in coro finché non si dissolve nelle chitarre di svolta e nell’urlo di Aimone. Il primo pogo è ovviamente avviato. Poi è il turno di CALCI IN FACCIA, grido di battaglia teso a non arrendersi mai di fronte a tutte le sciagure che la vita ci riserva. “
Datemi l’ennesimo calcio in faccia, che da un occhio ci vedo ancora” ed effettivamente tutti i loro concerti sono un continuo superamento dei propri limiti, una necessaria esigenza di metterci tutto sé stessi, loro sul palco e noi nei cori e nel pogo. Arriva un’altra canzone dell’ultimo album, forse la più bella: Il mare davanti che è un grido di libertà e autodistruzione tanto quanto aveva annunciato la canzone precedente. Le emozioni scorrono veloci e rispecchiano gli stessi colori che Alaska può trasmette a qualsiasi ascoltatore. Si ritorna al disco precedente: di Hybris compaiono CANZONE PER UN ABETE II, TRENO e COMBATTERE PER L’INCERTEZZA. Quest’ultima racconta di quell’istinto combattivo e allo stesso tempo completamente complessato da tutti i dubbi adolescenziali, quella “hybris” (furore) che solo accettando se stessi permette di essere mitigata e trasformata. Aimone canta: “Accetto me stesso e ciò che destabilizzo” e “Io avevo paura di esser diverso, lo sento, ma ora divento più grande e cambio le sorti del mondo“. Credere in sé stessi, coltivare le proprie passioni, accettare le proprie debolezze, sfogarsi nella giusta maniera. E i vari spazi circolari dedicati al pogo, che durante queste canzoni si formano, a mio avviso sono un buon modo per scaricarsi, sempre per chi può permettersi di avere due spalle belle dure. Le mie non reggono, e mi discosto un po’. Nel mentre degli spintoni e dei continui crowd surfing della gente (durante il concerto ce ne saranno stati quasi una quindicina) era apparsa TE LO PROMETTO che il cantante ha dedicato ironicamente a tutti i loro amici. Poi IL VINCENTE permette di riposarsi dal prolungato movimento di gomiti e ginocchia, e tra il violino di Manzan e la voce sentita di Aimone c’è anche modo di intravedere qualche sprazzo di commozione per chi, come me, ha vissuto i loro album intensamente e li ha appiccicati alle emozioni che ha offerto il loro percorso di vita. Arriva poi COPERTA, canzone che parla di una relazione ormai prolungata allo sfinimento e ultimo singolo uscito da Alaska accompagnato da un video. Subito dopo mi fanno un regalo e buttano fuori la mia canzone preferita del loro secondo album, CALCE, tra pause e cadenze da stadio, tra cori e salti di gruppo. Si continua con quella che in letteratura si chiamerebbe una dichiarazione poetica: ODIO SUONARE ricorda al pubblico l’aspetto relativo di tutte le verità che possono essere estrapolate dai loro testi e rimette sullo stesso piano pubblico e cantante. Questo canta: “Non ho certezze per me stesso, perché dovrei averne per voi?”. Noto un collegamento con i Pearl Jam e mi ricordo come nella canzone Leash Eddie Vedder cercava di eliminare quel fantoccio da idolo di una generazione che i mass media avevano cercato di affibiargli (“I am lost, I’m no guide, but I’m by your side”). MARIA ANTONIETTA non si fa attendere ed è accolta calorosamente dal pubblico, anche perché tra le canzoni più conosciute della band. Il pogo continua e io vengo sballottato avanti nelle prime file (quelle più coraggiose) perdendo di vista le mie due amiche già molto spesso divise dal pubblico. Ci si riposa un’altra volta, e la chitarra di Alessandro introduce il brano di chiusura del loro ultimo album, GRAN FINAL. “Padre salvami, dalle molte piaghe”, da sempre la parte iniziale mi ricorda l’inizio di una canzone dello stessa band a cui avevo pensato prima, i Pearl Jam, e per l’esattezza Release, in cui il cantante invoca sempre il padre in cerca di una redenzione (“Oh dear dead, can you see me now?… Release me”). Ma breve è la pausa di respiro per il pubblico, perché come sempre la musica dei Fask è un continuo spostamento tra attimi di attesa e momenti di esplosione. Gran Final è un inno all’adolescenza ormai sul punto di terminare, un continuo slancio di volontà di autoespressione verso un futuro che appare sempre più incerto per tutti. Non prendersi sul serio è comunque la lezione da cui è partito il gruppo e quella con cui questo ultimo album finisce, perché “Finchè rido resto in piedi, al futuro sputo in faccia“. E alla fine non rimane che rendersi consapevoli di essere tutti sulla stessa barca, ciascuno con le “sue corde da sciogliere“, e presenti lì, come ci dicono gli stessi Fask, “Sarai uno di noi”. E sì, sono proprio uno di loro, questo penso ormai racchiuso tra schiene più alte di me e scapole altrui che aderiscono al mio petto, sempre più davanti a quel palco, mentre vedo Aimone fondersi con la sua stessa chitarra nel riff e nell’inno finale. Un istinto di felicità mi fa rendere conto di come veramente loro abbiano usato “ogni goccia di sudore” per noi, come lo stesso cantante dichiara nel corso del concerto. Dopo qualche minuto di pausa (anche per loro cinque che si dirigono dietro il palco) la musica ritorna. Da qui comincia ad instaurarsi un collegamento sempre più diretto tra band e pubblico. Il cantante chiede cortesemente al pubblico di intonare la prossima canzone (TROIA) che, dopo i quattro riff di chitarre ben riconoscibili, esplode nel coro e nel pogo.
Il rapporto con la gente in sala si fa ancora più diretto nel momento in cui Aimone decide di dilungarsi in una breve chiacchierata di ringraziamento a tutto lo staff, a loro stessi, ai fan, per poi ritornare con la formula ormai consolidata nella frase: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids, e veniamo da Perugia!”, seguita da un carnevale di applausi chiesti gentilmente in precedenza. Aimone ringrazia ancora una volta, abbracciando i suoi colleghi, umile come un bambino, quasi sempre incredulo di un successo arrivato a loro così inaspettatamente (ma a mio avviso tutto ben meritato sullo sfondo della musica contemporanea italiana). Si prosegue con la famosa A COSA CI SERVE ed il primo singolo di Alaska: COME REAGIRE AL PRESENTE. “Ricordatevi di noi fra trent’anni, che avremo bisogno di voi” cita il ritornello della canzone. Ma se questa è la richiesta del gruppo, noi non possiamo far altro che riproporgliela affinché non ci facciano aspettare troppo prima che si facciano rivedere sui palchi. Per fargli sapere che siamo soprattutto noi ora ad aver bisogno di loro. Aimone finisce la canzone non in stage diving (come invece ha fatto durante altre due o tre brani) ma allungandosi verso il pubblico stringendo mani di gratitudine. Mi ci metto anch’io e stringo forte la sua, semplice nel contatto, così umana. Seppur non abbiano fatto nessuna canzone del loro primo album, la band umbra non ha deluso le mie aspettative.
Torno a casa sudato e completamente distrutto, assieme alle mie due amiche. Ma mi sento rinnovato, pronto ad affrontare il ritorno alla pesante routine di tutti i giorni. Sembra proprio che la medicina abbia fatto il suo effetto.

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Ariele Di Mario

Ariele Di Mario

Nato vicino Roma, emigrato in Umbria, ora arrivato a Bologna per studiare Lettere Moderne. Nei vagheggiamenti di un lavoro sogna di fare qualcosa legato alle sue due maggiori passioni, la musica e la scrittura. Fosse per lui spenderebbe soldi unicamente per libri e concerti. Crede fermamente che ogni persona abbia una storia di vita da raccontare.

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