L'UNIversiTÀ

Ariele Di Mario

Nato vicino Roma, emigrato in Umbria, ora arrivato a Bologna per studiare Lettere Moderne. Nei vagheggiamenti di un lavoro sogna di fare qualcosa legato alle sue due maggiori passioni, la musica e la scrittura. Fosse per lui spenderebbe soldi unicamente per libri e concerti. Crede fermamente che ogni persona abbia una storia di vita da raccontare.

Muse, droni, cellulari ed emozioni

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Sabato 21 maggio mi sono ritrovato all’ultima data del concerto dei Muse al Mediolanum Forum di Milano. Il viaggio di ritorno in quei comodi pullman appositamente organizzati per portarti ai concerti, in mancanza di un cellulare abbastanza carico per addormentarsi con la musica, ha di certo stimolato varie riflessioni. Un concerto molto bello: i Muse sempre degli ottimi animali da palcoscenico, forse al giorno d’oggi una delle migliori band dal vivo. Eppure mi rimaneva una nota di amaro in bocca. Da cosa poteva essere scaturita? D’altronde la scaletta, di poco diversa rispetto a quella delle altre cinque date precedenti, non era stata per niente male. Drones è di certo un album che li riconnette un po’ alle orgini (of symmetry, per citare un loro vecchio album) ma che esce fuori anche dagli ultimi album più pop (vedi brani come Mercy o Revolt). La riflessione di fondo invece è partita da altro. La messa in scena è stata decisamente spaziale: maxischermi e teloni, palco girevole a 360 gradi, coriandoli, fumo e veri e propri droni volanti. Le sfere illuminate e la navicella spaziale hanno di certo sorpreso più di ogni altra cosa il pubblico, che ha gridato alla novità (seppure a far volare palloni aerostatici ci avevano già da tempo pensato i Pink Floyd). Di fronte a tutti questi effetti scenici perciò, l’entusiasmo del pubblico: ma un entusiasmo strano. Premetto di essermi forse -senza volerlo- trovato in un angolo del parterre un po’ apatico nonostante fosse incredibilmente vicino al palco. Pochi poghi visibili (che forse è anche un bene) ma anche poco movimento in generale. Di fronte alle mirabilie dello spettacolo la gente si fermava a guardare. Certo, concerti del genere ormai raccolgono gruppi eterogenei di persone, dai più incalliti rockettari alle famiglie tranquille, da antichi fan del gruppo a scelte occasionali. Perché: “Sì dai, mi hanno detto che è un bello spettacolo e poi conosco almeno due canzoni. Quasi quasi ci vado”. E ci sta. Ma la particolare circostanza di quell’angolo sfortunato, animatosi veramente tanto al solo passaggio del cantante vicino, mi ha fatto domandare: riusciamo veramente più ad emozionarci durante un concerto?
Perché, viziati come siamo da schermi ed effetti speciali, non ci accontentiamo che di luci sempre più grandi, di immagini che ci avvolgono a 360 gradi, di ottimi pasti per sbalordire i nostri occhi. Ma la musica non è questo. Ovvero può esserlo, se accompagnata da ottime atmosfere come quelle di un concerto dei Muse. Ma un concerto dei Muse è da vedere e anche da sentire, e di fronte a tutte le mirabilie ho visto più cellulari brillare che gambe saltare. Nulla di nuovo: è la nostra generazione, la nostra società, la nostra inintermittente connettività. Ma non è un po’ strano ritrovarsi in un concerto di maxischermi per poi riprenderlo con altri schermi (del proprio telefonino) grazie ai quali si potranno rivedere video e foto su altri schermi del pc (una volta condivisi su Facebook) o della vostra televisione (una volta che del concerto ne sarà uscito il cd con le riprese ufficiali)? Si è riusciti a viversi veramente quel concerto? In questa agonia di cristallizzare ogni attimo in una foto, di condividere e condividere i propri video su Facebook o Snapchat a costo di farlo durante il concerto stesso, si rischia di rivolgere più sguardi al proprio cellulare che a gesti della band sulla scena. Questo, solo per far sapere a tutti di esserci stati. Ma esserci stati in che modo? Dietro lo schermo sempre acceso di uno smartphone? I cellulari possono essere delle armi micidiali: sì, anche perché con tutti i loro flash possono da fastidio al gruppo (così come ha intimato la security a inizio concerto) ma anche perché, detto proprio banalmente, rischiano di farci cadere nell’alienazione, proprio quell’alienazione che i Muse hanno cantato nei loro brani. E allora forse, fantasticando su un’umanità futura popolata da freddi e omologati droni, ecco allora ci si riferiva proprio a noi del pubblico.
La mia è probabilmente una leggera esagerazione. E sta di fatto che ciascuno vive un concerto a modo suo e che può scegliere se relegare alle proprie dita il compito di fare delle corna rockettare o di tenere fermo lo schermo di un cellulare. Forse una sesta data in una settimana e mezzo rischia di raccogliere più gente eterogeneamente appassionata del gruppo. Non che persone che magari siano venute per passare una serata diversa senza essere grandi fan non dovessero farlo, per carità. Ma tutte quelle luci e immagini e droni forse hanno rischiato di togliere l’attenzione da un audio non del tutto perfetto. Sì, mi trovavo anche un angolo sfortunato forse, ma cosa ci veniamo a fare a un concerto se non per ascoltare? Probabilmente stiamo anche cambiando, società, gusti, interessi, e forse anche il nostro modo di intrattenerci. Il nostro sguardo si è raddoppiato: ha sempre più bisogno di sdoppiarsi anche dietro a uno schermo, come se i soli occhi non bastassero a registrare le sensazioni che viviamo. Perché per sentirlo veramente vivo un attimo, non dobbiamo per forza condividerlo sui social network. I Muse sembrano comunque riuscire a incontrare vecchi e nuovi tipi di intrattenimento, e riescono a farlo con molto stile e molta professionalità. Ma non posso evitare di chiedermi: riusciremo ancora in futuro ad emozionarci veramente per un concerto?

Ariele di Mario

IL BUGIARDINO MUSICALE: Tre Allegri Ragazzi Morti – Estragon, Bologna

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L’allegria è uno di quei sentimenti che sperimentiamo nelle situazioni più inaspettate e che rischiamo spesso di precluderci per colpa di piccole sciocchezze: paranoie, un evento fastidioso, una preoccupazione precoce. Come ritrovare un po’ di spensieratezza nascosta sotto il mantello dei pensieri negativi? Io ho scelto la medicina dei Tre Allegri Ragazzi Morti, l’altra sera in concerto all’Estragon di Bologna.

INDICAZIONI: La band nasce nel 1994 nella città di Pordenone. Il nome prende spunto dal fumetto Cinque allegri ragazzi morti di Davide Toffolo, che oltre a essere il cantante è anche un acclamato fumettista italiano. Nel 2000 inoltre il bassista Enrico Molteni fonda l’etichetta discografica La Tempesta, collettivo di musicisti indipendenti. Dopo una lunga carriera e la sperimentazione di tanti generi musicali (punk, rock, reggae, dub, swing) arrivano a presentare il loro ultimo abum Inumani.
COMPOSIZIONE: Davide Toffolo (chitarra e voce); Enrico Molteni (basso); Luca Masseroni (batteria e voce). In questo tour: Andrea Maglia (chitarra); Adriano Viterbini (chitarra, Bud Spencer Blues Explosion).
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: Essere morti dentro e allo stesso tempo rallegrarsi di questo è un ossimoro possibile se si ascoltano i TARM.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: Non potrete adeguarvi a nessun genere musicale, perchè dopo aver collaborato con Jovanotti di sicuro li hanno sperimentati tutti! Sì, sembra strano ma c’è gente che poga anche in brani tranquilli come Di che cosa parla veramente una canzone.
DOSI CONSIGLIATE: No ok, i cd sono troppi da elencare. Vi basti sapere che nel complesso sono undici e che l’ultimo album in studio è Il giardino dei fantasmi (2012, La Tempesta Dischi).
MODALITA’ D’USO: Direi che il catalogo sia piuttosto vasto, basta scegliere a piacimento musica e parole.

Eccoci all’Estragon di Bologna: verso le nove il locale è gia piuttosto pieno e si è già formata la calca sotto palco. Ad aprire il concerto sono i Honeybird & the Monas, mentre verso le dieci arrivano i Tre Allegri Ragazzi Morti. Il gruppo presenta l’ultimo album Inumani pubblicato lo scorso marzo. L’idea di fondo sta nel rendersi conto del ricambio generazionale: “Questo è un momento di passaggio: la tecnologia ci sta trasformando. Non siamo più umani. Non come lo eravamo” dice lo stesso Davide Toffolo in un’intervista su Repubblica. Ma il disegno complessivo del disco non appare così omogeneo come altri album – Primitivi del futuro – è un insieme di suoni vecchi e nuovi senza un preciso filo conduttore, ma con vari picchi e discese in mezzo a testi tipici dei TARM ed altri in collaborazione con vari artisti del panorama italiano (ad esempio Jovanotti o Pietro Alosi del Pan del Diavolo).
Il concerto inizia con la lenta ballata di A un passo dalla luna, forse il pianeta preferito del songwriter dato che compare regolarmente in molti suoi brani. Le chitarre sferzano di rock nella successiva La più forte. Si susseguono altri quattro pezzi dell’ultimo album che dopotutto stanno presentando nel loro tour: Libera è sicuramente una delle migliore canzoni, un brano quasi funky-soul scritto per loro da Vasco Brondi de Le luci della centrale elettrica. Con un inizio un po’ fastidiosamente pop ma un finale più soddisfacente, Persi nel telefono sembra ricordare le premonizioni del cantante sull’uomo sempre più “inumano” a causa della tecnologia e di una società in continuo cambiamento. “Prima erano in cinque a scrivere canzoni che cantavan tutti/adesso tutti quanti scrivono canzoni che qualcuno canterà” dice il testo, ma il giudizio personale sembra soffermarsi su un ambiguo ottimismo, perché cambiamento non vuol dire per forza peggioramento. Arriva C’era una volta ed era bella, una ballata forse un po’ troppo smielata seppur nelle corde del gruppo: non che quest’ultimo non abbia mai trattato d’amore, tutt’altro, ma se si sente l’ultimo cd tutto di seguito sembra quasi che la band abbia strizzato l’occhiolino a quella parte del suo auditorio femminile più propiamente “pop”. Si passa a Ruggero (forse la seconda canzone migliore dell’album) e a sonorità più tipiche dei TARM di una volta. E’ qua che appare evidente il confronto con le generazioni passate: “E poi si guarda le mani/tutto è cambiato/quanti anni son passati/che gli vien da ridere“.
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Con il passato infatti devono ormai avere a che fare, perché per ora il pubblico si è divertito ma non scatenato così tanto come nel momento in cui compaiono le vecchie canzoni Quasi adatti, Il principe in bicicletta e la famosissima Occhi bassi. In seguito, è un piacere sentire La poesia e la merce e le sue parole colorate di anticonsumismo: “E sempre allegri bisogna stare/anche se si può solo comperare/la liberà non si compera/ma la possiamo cantare“. Si passa da un’acustica Ogni adolescenza per poi sfociare nel reggae di Puoi dirlo a tutti. Simili sonorità d’oltreoceano proseguono in La faccia della luna (che torna anche qui) e in due brani dell’ultimo album: E invece niente, scritta in collaborazione con la cantante Maria Antonietta e In questa grande città (la prima cumbia), primo singolo e discusso feautring con Jovanotti. Si ritorna al penultimo disco con I cacciatori (in versione semi acustica) e La via di casa.
All’arrivo di I miei occhi brillano non resisto più e mi butto nella mischia per pogare un po’. Il gruppo esce dal palco e il pubblico lo acclama. Non tutti sanno dei giochi di botta e risposta che avvengono col cantate in ogni loro concerto, così dopo qualche tira e molla di ringraziamenti e offese, la band ci concede un encore.
Si ritorna più carichi che mai anche grazie ai virtuosismi di Adriano Viterbini, membro dei Bud Spencer Blues Explosion, a mio parere uno dei più bravi chitarristi italiani. Ed ecco il ritornello di La mia vita senza te accompagnato dalle note favolistiche di Alle anime perse. Si torna a saltare e urlare con le canzoni Voglio e con la tanto acclamata Il mondo prima. Di che cosa parla veramente una canzone è il tema di tanti testi condivisi con il pubblico, una ballata tanto allegra quanto malinconica così come la politica della band, sempre propositiva verso il futuro e sempre debitrice del suo passato. Ma non si può non terminare con il motivetto de La tatuata bella, cantato all’unisono senza strumenti con la parte del pubblico che la conosce.
Il concerto è terminato. Davide Toffolo ringrazia i loro fan vecchi e nuovi: “E’ grazie a gente come voi che in questi anni abbiamo potuto suonare! Siete la meglio gioventù!“. Sicuramente non è una casualità quella citazione del suo adorato Pasolini. E sicuramente non è neanche un caso che, nel pullman di ritorno a casa, mi accorgo di essere decisamente molto più allegro di prima.

IL BUGIARDINO MUSICALE: Umberto Maria Giardini + Enolibrì, TPO (Bologna)

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La malinconia a volte è una compagna inaspettata o indesiderata, ma non possiamo evitare la sua presenza in tutte quelle situazioni in cui il nostro masochistico gusto per ciò che è stato e ciò che non c’è più prende il sopravvento sul nostro animo. Allora, come mantenersi in quella sfera positiva della malinconia senza cadere nella diabolica attrattiva della depressione? Mi serviva una medicina: così ieri sera ho guardato bene nel mio cassetto di opportunità e ho scelto di andare a vedere Umberto Maria Giardini al TPO di Bologna.

INDICAZIONI: Umberto Maria Giardini è un cantautore italiano attivo sin dal 1999 sotto lo pseudonimo Moltheni. Dopo una carriera durata undici anni, una prematura partecipazione a Sanremo (per sua fortuna non ripetuta), molte collaborazioni importanti (Battiato, Verdena) e otto album pubblicati, decide di ritirarsi definitivamente dalle scene. Ma nel 2012 torna in campo con un progetto che porta il suo nome reale e pubblica tre album, per la gioia di grandi e piccini.
COMPOSIZIONE: Umberto Maria Giardini (voce e chitarra); Marco Marzo Maracas (chitarra elettrica); Giulio Martinelli (batteria); Michele Zanni (tastiere, synth, basso).
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: Infonde fiducia nel poter sentire in Italia bellissime musicalità unite a testi poeticamente visionari. A volte basterebbe semplicemente spegnere la radio o Mtv.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: Meglio qualche secondo di silenzio che un minuto di imbarazzo: a causa di molte pause e sospensioni all’interno dei brani, chi non conosce le canzoni rischia di sfociare in applausi tremendamente fastidiosi nel bel mezzo delle strofe, come ho potuto notare durante la serata.
DOSI CONSIGLIATE: La dieta dell’imperatrice (2012, La Tempesta/ Woodworm/ Venus); Ognuno di noi è un po’ Anticristo EP (2013, Woodworm); Protestantesima (2015, La Tempesta Dischi).
MODALITA’ D’USO: Dirigersi in collina al tramonto, in un balcone vista mare, sotto un portico o ad un suo concerto, chiudere gli occhi e prendere le dosi consigliate. Se queste non bastassero risfogliare il precedente catalogolo musicale sotto il nome di Moltheni.

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Cercando informazioni sull’inizio del concerto scopro che quest’ultimo in realtà fa parte di un evento più grande: Enolibrì, quattro giorni (dal 17 al 20 marzo) di mercato per dare spazio alle produzioni di editori e vignaioli indipendenti. Il tutto accompagnato da musica, dibattiti, assaggi, e al costo di solo 1 euro!
La location è il TPO (Teatro Polivalente Occupato) di Bologna: in fondo il bancone con il vino e gli aperitivi, al centro gli stand degli editori con libri e fumetti, dall’altro lato il palco con le presentazioni e la musica.
Quest’ultima inizia intorno alle 22:30 con Daniele Celona, bravissimo cantautore dell’energia unica, una piccola scoperta a inizio serata.
Un’oretta dopo arriva Umberto Maria Giardini: si presenta da solo alla chitarra, mentre mano a mano dalle quinte arriva il resto del gruppo. Come per rivendicare le proprie radici musicali si iniza subito con una canzone del passato Moltheni: L’attimo celeste (prima dell’apocalisse). Si capisce all’istante che il pubblico verrà trasportato in un’altra dimensione. Le chitarre tagliano l’aria introducento la marziale Urania, brano dell’ultimo album compagno di quel lato sofferto della malinconia (“Oggi è un altro giorno vuoto/oggi è un altro giorno in cui ti invoco“). Si passa con Amare male in un crescendo di sensazioni che sfociano nel lungo finale e nel lirismo del cantautore (“Chi digerisce i miei no per le colpe che non ho“). Un altro finale capiente è quello del brano successivo Tutto è Anticristo, pezzo molto strumentale che fa navigare tra i meandri della psichedelia e che riflette tutta la bravura dei musicisti all’opera. A questo filone di sensazioni si ricollega un altro brano dello stesso EP (Ognuno di noi è un po’ Anticristo) ovvero Omega. E’ il momento dell’omonima traccia dell’ultimo album: Protestantesima, potente e rockeggiante, è un inno alla sincerità tipica di una persona come Umberto che di certo non ha peli sulla lingua. La frase “I preti e gli operai le chiavi dei miei guai” mi ricorda tanto la poesia di MontalePiccolo testamento” in cui l’autore rivendica una propria coerenza personale che “Non è lume di chiesa o d’officina/che alimenti/chierico rosso, o nero“. Anni luce arriva splendida come sempre, un tunnel che sembra veramente condurci “lontano anni luce”, fuori dal tempo, fuori da noi stessi. Chiudo gli occhi e mi accorgo che è proprio così. Durante un classico momento di sospensione del brano successivo, Molteplici e riflessi, si ripete una situazione imbarazzante, ma ora giunta dai fonici dietro il palco che, parlando troppo ad alta voce, nell’attimo di silenzio vengono inevitabilmente sentiti. Umberto si gira sorridendo verso di loro e riesce a passarci sopra. Ma effettivamente l’unico punto negativo dell’evento è che essendoci molta gente dall’altra parte del TPO intenta a fare altro (tra vino e libri) non si riesce ad avere un silenzio completo che richiederebbero canzoni riflessive e delicate come quelle del cantautore.
Si riparte con Il vaso di Pandora, invettiva verso una Milano sempre più cocainomane. Anche qui Umberto si allontana dal mainstream “E se è vero che tutto si compra e il denaro rincuora/resto pulito e raro/e chi se ne frega” in tutta la sua purezza musicale. A seguire la perlacea Sibilla e la meditativa Quasi Nirvana. Continua con un altro brano del primo album La dieta dell’imperatrice: il trionfo dei tuoi occhi, sempre molto visionario tra impressioni nostalgiche e parole metaforiche.
Torna il passato Moltheni e arriva Educazione all’inverso. Poi il cantautore si sofferma un attimo: “Chi mi conosce sa che non mi piace parlare molto sul palco. Non mi piace la gente che lo fa. Lo evito per non dire troppe… cazzate” e in questa semplice frase si rivela tutta la filosofia di un autore come lui, sintetico, incentrato sull’unica cosa importante per il suo lavoro ovvero la qualità della sua stessa musica. Ed è per questo che musicalità come le sue, nonostante meriterebbero un maggiore successo, possono continuare a vivere solo in ambienti più intimi, al di lá delle orecchie viziate dal pop più banale e da testi asciutti di contenuto. Questa invece è poesia.

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Il discorso continua: “Dirò solo che la prossima è una canzone col tempo rivelatasi molto importante per me, per quello che faccio e per quello che continuerò a fare. Voglio dedicarla a mio fratello”. Il brano è Saga. Dopo altri vari ringraziamenti e un saluto finale, il concerto termina con un brano dell’ultimo album Pregando gli alberi in un ottobre da non dimenticare.
Ci ringrazia ancora, ci riguarda tutti, compreso me, intento a battere le mani davanti al palco assieme ad un mio amico. Alla fine decido: compro il suo cd e me lo faccio autografare.
La malinconia si è prosciugata nelle emozioni di una serata stellare e di un evento come Enolibrì che, a mio parere, è stato molto ben organizzato in tutte le sue sfumature artistico-culinarie e culturali. Ed è proprio in ambienti come questi che nasce e si diffonde la poesia. Ed è proprio per questo che consiglio vivamente di andarci anche questa sera, ultima data del festival che vedrà anche la partecipazione del particolare dj Don Pasta e del cantautore Pierpaolo Capovilla.

Il bugiardino musicale: Fast Animals and Slow Kids – Locomotiv, Bologna

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Ogni volta che vado a vedere un concerto mi sembra come se me lo abbia prescritto il medico. Perché? Perché la musica ci fa bene, ci trasforma, ci permette di alleviare i dolori o alimentare i nostri sentimenti. Figuriamoci l’andare ad un concerto, che può diventare una perfetta catarsi in mezzo al piattume della routine quotidiana, un modo per buttar fuori quell’insieme di energie represse o per dimenticarsi dei pesanti pensieri settimanali.
Così, andando a sentire i Fast Animals and Slow Kids al Locomotiv di Bologna, immagino di scartare la confezione di un utile medicinale mettendomi a guardare (come in teoria bisognerebbe sempre fare) il bugiardino informativo dei consigli e delle controindicazioni:

INDICAZIONI: i Fast Animals and Slow Kids sono una band di Perugia nata nel 2007 dall’unione di quattro musicisti amici. Il nome prende spunto da una puntata del cartone animato “I Griffin”, in particolare la scena dove Peter Griffin racconta di un reality show in cui bambini lenti e grassocci sono costretti a fuggire da belve feroci e rapide. Lo spunto demenziale rende palese l’iniziale intento del gruppo di non prendersi veramente sul serio, unico obiettivo quello del divertimento. Ma dopo la vittoria nell’estate 2010 del contest per gruppi emergenti di Arezzo Wave Festival e l’appoggio del cantante degli Zen Circus Appino per la pubblicazione del loro primo album (Cavalli), qualcosa sembra essergli andata storta…
COMPOSIZIONE: Aimone Romizi (chitarra, voce e percussioni), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria)
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: utile ad alleviare rabbia repressa grazie allo sfogo ottenuto dall’assistere ai loro concerti. Subitanea consapevolezza e conforto di essere tutti partecipi di una generazione che non può far altro che “combattere per l’incertezza”. Permette di accomunare ragazzine sedicenni a metallari intransigenti, cori da stadio rabbiosi a momenti di malinconia. Gruppo perfetto per chi adora pogare.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: munirsi di scarpe comode e spalle pesanti. Rischio di costole rotte o denti scheggiati nel corso degli svariati poghi di massa invocati a forza dal cantante. Attenzione ai frequenti stage diving di quest’ultimo (o vi ritroverete con un suo piede in testa). Se non sapete da dove vengono state sicuri che ve lo ricorderanno loro: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids… e veniamo da Perugia!”
DOSI CONSIGLIATE: Questo è un cioccolatino EP (2010, To Lose La Track), Cavalli (2011, Iceforeveryone), Hybris (2013, Woodworm), Alaska (2014, Woodworm). Prendere un album a scelta e fare attenzione al volume degli auricolari.
MODALITA’ D’USO: prendere le dosi consigliate e dirigersi verso uno dei loro concerti, come ad esempio quello del 29 gennaio al Locomotiv di Bologna.

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Lette le istruzioni, posso finalmente prendere la mia medicina. Mi dirigo al Locomotiv a pochi passi dalla stazione accompagnato da due amiche. Il locale dalle pareti rosse si presenta non proprio grandissimo per colpa del bar che si insinua a metà del centro della sala, e le persone sono sempre più in aumento (all’entrata avevo sentito che mancavano solo tre biglietti per il sold out), ma alla fine si riesce ad avere un discreto spazio indivuale. Decido di posare il giaccone nel guardaroba per non fare il masochista e diventare letteralmente un bagno di sudore, poi vado ad aspettare vicino al palco la band tanto attesa, mentre l’ultima canzone del gruppo di apertura, i Capra, sta sul punto di terminare. Il concerto inizia alle undici meno un quarto. Il tour di sette date intrapreso dai Fask agli inizi di gennaio rispecchia i sette anni in cui questi quattro ragazzi stanno suonando insieme. “Gran Final Tour 2016” (ora terminato nell’ultima data di sabato 8 febbraio all’Alcatraz di Milano) è il coronamento di una carriera piena di sorprese e un saluto finale prima di una lunga pausa che li terrà impegnati alla realizzazione del loro futuro nuovo album. Con loro c’è anche il bravissimo Nicola Manzan del progetto Bologna Violenta in veste di chitarrista e violinista, gà in collaborazione con la band riguardo ai loro ultimi due album. Ma questo tour non è altro che il proseguimento e il termine del loro “Alaska Tour”, partito in seguito alla pubblicazione del loro ultimo disco che gli ha permesso veramente di coronare il loro successo nella penisola, tanto che nel giro di poche ore Alaska è stato il disco “alternative” su Itunes più venduto in Italia. Ma bando alle ciance e ai pensieri di attesa, finalmente i quattro ragazzi di Perugia arrivano sul palco. Si comincia con OVERTURE, effettivamente primo brano del loro ultimo album. Molto suggestivo grazie a Manzan al violino, lascia trascinare il pubblico verso emozioni malinconiche che ricordano paesaggi lontani e copiosamente innevati come l’Alaska. “Scusa, mi lascio andare un po’… ora, dopo ritornerò” la frase cantilentante prosegue in coro finché non si dissolve nelle chitarre di svolta e nell’urlo di Aimone. Il primo pogo è ovviamente avviato. Poi è il turno di CALCI IN FACCIA, grido di battaglia teso a non arrendersi mai di fronte a tutte le sciagure che la vita ci riserva. “
Datemi l’ennesimo calcio in faccia, che da un occhio ci vedo ancora” ed effettivamente tutti i loro concerti sono un continuo superamento dei propri limiti, una necessaria esigenza di metterci tutto sé stessi, loro sul palco e noi nei cori e nel pogo. Arriva un’altra canzone dell’ultimo album, forse la più bella: Il mare davanti che è un grido di libertà e autodistruzione tanto quanto aveva annunciato la canzone precedente. Le emozioni scorrono veloci e rispecchiano gli stessi colori che Alaska può trasmette a qualsiasi ascoltatore. Si ritorna al disco precedente: di Hybris compaiono CANZONE PER UN ABETE II, TRENO e COMBATTERE PER L’INCERTEZZA. Quest’ultima racconta di quell’istinto combattivo e allo stesso tempo completamente complessato da tutti i dubbi adolescenziali, quella “hybris” (furore) che solo accettando se stessi permette di essere mitigata e trasformata. Aimone canta: “Accetto me stesso e ciò che destabilizzo” e “Io avevo paura di esser diverso, lo sento, ma ora divento più grande e cambio le sorti del mondo“. Credere in sé stessi, coltivare le proprie passioni, accettare le proprie debolezze, sfogarsi nella giusta maniera. E i vari spazi circolari dedicati al pogo, che durante queste canzoni si formano, a mio avviso sono un buon modo per scaricarsi, sempre per chi può permettersi di avere due spalle belle dure. Le mie non reggono, e mi discosto un po’. Nel mentre degli spintoni e dei continui crowd surfing della gente (durante il concerto ce ne saranno stati quasi una quindicina) era apparsa TE LO PROMETTO che il cantante ha dedicato ironicamente a tutti i loro amici. Poi IL VINCENTE permette di riposarsi dal prolungato movimento di gomiti e ginocchia, e tra il violino di Manzan e la voce sentita di Aimone c’è anche modo di intravedere qualche sprazzo di commozione per chi, come me, ha vissuto i loro album intensamente e li ha appiccicati alle emozioni che ha offerto il loro percorso di vita. Arriva poi COPERTA, canzone che parla di una relazione ormai prolungata allo sfinimento e ultimo singolo uscito da Alaska accompagnato da un video. Subito dopo mi fanno un regalo e buttano fuori la mia canzone preferita del loro secondo album, CALCE, tra pause e cadenze da stadio, tra cori e salti di gruppo. Si continua con quella che in letteratura si chiamerebbe una dichiarazione poetica: ODIO SUONARE ricorda al pubblico l’aspetto relativo di tutte le verità che possono essere estrapolate dai loro testi e rimette sullo stesso piano pubblico e cantante. Questo canta: “Non ho certezze per me stesso, perché dovrei averne per voi?”. Noto un collegamento con i Pearl Jam e mi ricordo come nella canzone Leash Eddie Vedder cercava di eliminare quel fantoccio da idolo di una generazione che i mass media avevano cercato di affibiargli (“I am lost, I’m no guide, but I’m by your side”). MARIA ANTONIETTA non si fa attendere ed è accolta calorosamente dal pubblico, anche perché tra le canzoni più conosciute della band. Il pogo continua e io vengo sballottato avanti nelle prime file (quelle più coraggiose) perdendo di vista le mie due amiche già molto spesso divise dal pubblico. Ci si riposa un’altra volta, e la chitarra di Alessandro introduce il brano di chiusura del loro ultimo album, GRAN FINAL. “Padre salvami, dalle molte piaghe”, da sempre la parte iniziale mi ricorda l’inizio di una canzone dello stessa band a cui avevo pensato prima, i Pearl Jam, e per l’esattezza Release, in cui il cantante invoca sempre il padre in cerca di una redenzione (“Oh dear dead, can you see me now?… Release me”). Ma breve è la pausa di respiro per il pubblico, perché come sempre la musica dei Fask è un continuo spostamento tra attimi di attesa e momenti di esplosione. Gran Final è un inno all’adolescenza ormai sul punto di terminare, un continuo slancio di volontà di autoespressione verso un futuro che appare sempre più incerto per tutti. Non prendersi sul serio è comunque la lezione da cui è partito il gruppo e quella con cui questo ultimo album finisce, perché “Finchè rido resto in piedi, al futuro sputo in faccia“. E alla fine non rimane che rendersi consapevoli di essere tutti sulla stessa barca, ciascuno con le “sue corde da sciogliere“, e presenti lì, come ci dicono gli stessi Fask, “Sarai uno di noi”. E sì, sono proprio uno di loro, questo penso ormai racchiuso tra schiene più alte di me e scapole altrui che aderiscono al mio petto, sempre più davanti a quel palco, mentre vedo Aimone fondersi con la sua stessa chitarra nel riff e nell’inno finale. Un istinto di felicità mi fa rendere conto di come veramente loro abbiano usato “ogni goccia di sudore” per noi, come lo stesso cantante dichiara nel corso del concerto. Dopo qualche minuto di pausa (anche per loro cinque che si dirigono dietro il palco) la musica ritorna. Da qui comincia ad instaurarsi un collegamento sempre più diretto tra band e pubblico. Il cantante chiede cortesemente al pubblico di intonare la prossima canzone (TROIA) che, dopo i quattro riff di chitarre ben riconoscibili, esplode nel coro e nel pogo.
Il rapporto con la gente in sala si fa ancora più diretto nel momento in cui Aimone decide di dilungarsi in una breve chiacchierata di ringraziamento a tutto lo staff, a loro stessi, ai fan, per poi ritornare con la formula ormai consolidata nella frase: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids, e veniamo da Perugia!”, seguita da un carnevale di applausi chiesti gentilmente in precedenza. Aimone ringrazia ancora una volta, abbracciando i suoi colleghi, umile come un bambino, quasi sempre incredulo di un successo arrivato a loro così inaspettatamente (ma a mio avviso tutto ben meritato sullo sfondo della musica contemporanea italiana). Si prosegue con la famosa A COSA CI SERVE ed il primo singolo di Alaska: COME REAGIRE AL PRESENTE. “Ricordatevi di noi fra trent’anni, che avremo bisogno di voi” cita il ritornello della canzone. Ma se questa è la richiesta del gruppo, noi non possiamo far altro che riproporgliela affinché non ci facciano aspettare troppo prima che si facciano rivedere sui palchi. Per fargli sapere che siamo soprattutto noi ora ad aver bisogno di loro. Aimone finisce la canzone non in stage diving (come invece ha fatto durante altre due o tre brani) ma allungandosi verso il pubblico stringendo mani di gratitudine. Mi ci metto anch’io e stringo forte la sua, semplice nel contatto, così umana. Seppur non abbiano fatto nessuna canzone del loro primo album, la band umbra non ha deluso le mie aspettative.
Torno a casa sudato e completamente distrutto, assieme alle mie due amiche. Ma mi sento rinnovato, pronto ad affrontare il ritorno alla pesante routine di tutti i giorni. Sembra proprio che la medicina abbia fatto il suo effetto.

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