Le antiche leggende sui lepricani, folletti abitanti dei boschi delle terre irlandesi, narrano di grandi tesori nascosti e custoditi alla sorgente degli arcobaleni che accompagnano le frequenti piogge. Quello che il mito non racconta, e che chiunque abbia vissuto quei posti il tempo necessario a coglierne l’incanto sa, è quanto la realtà, in questa piccola, verde isola superi l’immaginazione.
Perchè l’Irlanda non nasconde niente, e mostra, pur discreta, la meraviglia dei suoi paesaggi e della vita che racchiude a ogni viaggiatore l’abbia incrociata sul suo cammino.
Descriverne la magia attraverso gli occhi di uno studente Erasmus non rende giustizia alla pienezza di ogni esperienza che qui si vive. Ogni tentativo di non risultare banale è come scattare una fotografia di quegli spettacoli in cui la natura si oppone a ogni riproducibilità, e come una fotografia, il ricordo e il valore è proporzionale al tempo e alla distanza che la separa dall’istante che cattura.
Raccontare l’Irlanda oggi, mentre la vivo, mentre i giorni scorrono, è parlare a metà di un’avventura ancora non finita, guardare indietro e realizzare a pieno, solo adesso per davvero, che bisognerebbe esser folli a lasciarsela sfuggire, almeno prima di aver condiviso con lei il tempo di due semestri accademici nella città che dell’Irlanda è l’anima.


A Dublino il multiculturalismo che si respira è frutto delle migrazioni che dal passato decennio hanno contribuito a plasmarne il volto. Mentre nei tipici villaggi irlandesi del nord il tasso di popolazione indigena è elevatissimo e la cultura tradizionale è ancora intatta, nella capitale la varietà del mondo ha lasciato un impronta dovunque: le distillerie di whisky e i negozi di musica celtica si mescolano in ogni angolo di strada a ristoranti brasiliani e catene di burritos. Distante una manciata di chilometri di mare – e neanche un secolo d’indipendenza – dagli inglesi, il popolo irlandese conserva in questa babele il dono di un’immensa, silente cordialità. Di una specie diversa dalla nostra, calorosa – a volte eccentrica – propensione all’ospitalità, è fatta di disponibilità, pazienza, e un sorriso sempre pronto ad accompagnarsi a catene instancabili di “sorry” and “thank you” anche in circostanze che non richiederebbero, per i nostri italici gusti, esibizioni di tanta politeness.Senza scadere nel narcisistico orgoglio nazionalista, l’identità di popolo è forte. Un esempio tra tutti è l’utilizzo, sui tram, dell’idioma tradizionale – il gaelico – accanto all’inglese, emblema di una città che sta adeguandosi ai ritmi e alle forme della metropoli, senza scommetterci l’umanità, senza perderci il cuore.
Parlare di tradizione a Dublino significa passeggiare per Grafton Street sulle note degli artisti di strada, è attraversare il fiume Liffey sul Samuel Beckett’s Bridge, il celebre ponte ad arpa, simbolo tradizionale, per ritrovarsi, come il James Joyce della statua di O’Connell Street, a immaginare le storie dei suoi Dubliners. E’ perdere lo sguardo sul tramonto all’orizzonte al di là del Grand Canal mentre, tra un Irish Coffee e le Guinness nei pub di Temple Bar, dimentichi per una sera le fatiche accademiche e l’onere che l’onore di varcare l’Arch del prestigioso Trinity College porta con sè.
Con I suoi edifici di potteriana memoria e le lezioni impartite da docenti provenienti da Harvard, vivere il college è, letteralmente, un’esperienza mozzafiato: le eccitanti opportunità che offre in termini di ambiente accademico, sport, viaggi e attività di ogni genere promosse dal sistema così anglosassone delle “societies” vanno di pari passo a un incredibile impegno richiesto nella didattica, il cui taglio orientato alla ricerca rende valutazioni di essays e di esame fondate sulle capacità critiche piuttosto che su un puro e sterile nozionismo. Tutto questo, nel bene e nel male, può disorientare particolarmente chi proviene da tradizioni accademiche agli antipodi, quella italiana in primis.
Non è stato facile, all’inizio. Non quando tutto sembra più grande di te, insormontabile, il paese straniero, l’accento – così incomprensibile – e il tuo inglese troppo inadeguato, troppo scolastico, troppo italiano. Un anno, a ventun anni, sembra davvero un’infinità di tempo, che pure è volato, assieme alle mie paure di lasciare la Bologna che per due anni mi ha coccolata, e che, come in “Eskimo” di Guccini, credevo, camminando per i suoi portici, fosse davvero mia.
Auguro a tutti gli studenti il coraggio di gettarsi in un’ esperienza del genere, così totalizzante, a tratti alienante, ma che riesce ad aprire mondi e culture che, rinchiusi nella zona di comfort, faremmo altrimenti fatica a conoscere. Auguro un pò meno a tutti di assistere all’eresia dei coinquilini brasiliani nel mettere il ketchup sulle lasagne. D’altronde, è Erasmus anche questo, anche a Dublino.

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Angela Nicolazzo

22 anni, di cui 3 trascorsi nella giungla delle Scienze Politiche, Angela, tra le altre cose, affronta il perenne jet lag emotivo e psicologico tra Bologna e Dublino grazie alla musica e alla scrittura.

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