L'UNIversiTÀ

Sotto Sopra

In contrasto tra concreto e surreale, rivela il suo impeto esuberante e la sua introversa sostanza nella poesia, ispirata dal modo di sentire la vita, vissuta come un' eterna e toccante connessione.

COWSPIRACY COME SENSIBILIZZAZIONE VERSO IL PROBLEMA AMBIENTE

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“In nome del progresso, l’uomo sta trasformando il mondo in un luogo fetido e velenoso. Sta inquinando l’aria, l’acqua, il suolo, gli animali e se stesso, al punto che è legittimo domandarsi se, fra un centinaio d’anni, sarà ancora possibile vivere sulla terra”. Questa citazione di Erich Fromm rappresenta con schiettezza cosciente il problema principale ma nettamente deviato dalla società: l’abuso ambientale. Nel 2014 è stato pubblicato “Cowspiracy: the sustainability secret”, un documentario prodotto e diretto da Kip Andersen e Keegan Kuhn in cui viene illustrato l’impatto dell’allevamento e dell’industria animale sul pianeta. Secondo ciò che ci viene insegnato fin da bambini, bisognerebbe migliorarsi nel quotidiano, utilizzando l’automobile di rado, facendo docce brevi, spostandosi in bicicletta, ecc. Ma queste convinzioni furono spezzate quando Kip Andersen ricevette da un amico un rapporto delle Nazioni Unite, che affermava come le mucche producano più gas serra che l’intero settore dei trasporti, oltre ad un documento della Food and Agricolture Organization of US che illustra come l’inquinamento prodotto dai mezzi di trasporto ha un impatto ambientale minore di quello del bestiame, in quanto le mucche producono notevole quantità di metano tramite il loro processo digestivo. Quindi l’interrogativo sorge spontaneo: le varie azioni di ogni giorno non legate al campo agro-alimentare che ci vengono insegnate da sempre, per quanto siano importanti, possono ad oggi contribuire seriamente alla risoluzione del degenerato problema ambiente? La questione che desta più perplessità è che i dati raccolti dai produttori di Cowspiracy non sono diffusi nè pubblicizzati nelle campagne delle principali associazioni ambientaliste. I documenti di queste, appunto, e del governo statunitense sono incentrati sulle emissioni di gas naturale, petrolio e soprattutto fatturazione idrica, per l’aumento notevole della siccità. Ogni anno negli USA vengono usati più di 100 miliardi di galloni d’acqua dagli uomini, ma nulla in confronto all’acqua utilizzata per l’allevamento di mucche, che supera i 34 trilioni di galloni. Per questo i produttori hanno voluto intervistare enti ambientali ed esponenti governativi, interrogandoli sulla questione relativa agli allevamenti intensivi di bestiame e soprattutto sulle cause del silenzio legato all’argomento, in quanto nessuno avrebbe mai pensato che mangiare carne e derivati animali potesse essere più dannoso che utilizzare ogni giorno la propria automobile per andare a lavoro. Ogni interlocutore intervistato ha deviato il tema, e nel momento in cui gli veniva posta la domanda apposita, dietro ad un notevole alone di imbarazzo e timore, nessuna risposta.
Ciò che viene maggiormente violato per sostenere la produzione intensiva ed eccessiva di carne, latticini e uova, sono le foreste pluviali, i polmoni del mondo che assorbono CO2 e rilasciano ossigeno. Ogni secondo viengono abbattuti 4.047 m2 di foresta pluviale, con lo scopo principale di creare coltivazioni per produrre il mangime vegetale degli animali d’allevamento. Ma anche intorno a questo tema si è riscontrato l’imbarazzante silenzio di Lindsey Allen, la direttrice esecutiva di uno dei più grandi gruppi di protezione delle foreste, di fronte alla richiesta di informazioni. Amazon Wath è stata l’unica associazione che ha parlato semi-apertamente del problema, e ha detto a chiare lettere che il mercato di allevamento del bestiame è la principale causa dei problemi ambientali odierni. Ha anche parlato del tema riguardante gli assassini brutali di oltre 1.100 ambientalisti: in Brasile, dopo l’approvazione del Codice Forestale, le persone che si sono opposte alle lobby e agli interessi delle grandi imprese agro-alimentari sono state uccise, tutte persone che dicevano apertamente che gli allevamenti intensivi stavano distruggendo l’Amazzonia, come Dorothy Stang (1931-2005), una suora vissuta in Para che ha parlato apertamento del problema, uccisa a bruciapelo da un sicario assunto dall’industria del bestiame.
I produttori del documentario non si sono limitati a ciò, ma hanno anche intervistato e conosciuto proprietari di allevamenti definiti sostenibili, per esempio la fattoria di manzo Markegard in California, in cui lavora l’intera famiglia proprietaria, la quale illustra come produce direttamente carne e derivati animali senza causare danni ambientali. Ma le quantità prodotte in questo modo sono scarsissime, e considerando la notevole quantità di consumo di tali prodotti alimentari, non basterebbero a sfamare la popolazione occidentale abituata a uno stile di alimentazione eccessivo e ricco. Quindi se tutti vogliono mantenere il consumo attuale di prodotti animali, inevitabilmente il risultato è l’allevamento intensivo, perchè un modo sostenibile di produzione che possa garantire quantità esorbitanti non esiste.
La soluzione al problema suggerita da esperti ed onesti ambientalisti intervistati, è quella di adottare a livello quotidiano una dieta che elimini o riduca notevolmente il consumo di derivati di animali, in quanto tale consumo, oltre ad essere causa di problemi salutari all’essere umano, sta portando alla distruzione del mondo, che non supererebbe i 50 anni di vita se si continuasse questa spasmodica speculazione sul cibo.
Quando i produttori hanno ricevuto la notizia circa la sospensione dei finanziamenti per procedere col documentario, a causa del fatto che l’indagine stava diventando talmente delicata e approfondita da metterli in pericolo, essi sono andati a parlare con una vittima diretta del sistema, Howard Lyman, citato in giudizio da allevatori per aver detto la verità riguardo l’allevamento intensivo nel programma TV “The Ophra Winfrey”. Egli spiega come il causare interruzioni nei profitti dell’industria animale sia pericoloso, e Will Potter, autore di “Green is the new red” spiega che questi generi di campagne sono considerati dall’FBI come terrorismo interno, egli per esempio tramite la legge sulla libertà di parola è venuto a conoscenza di documenti dell’unità federale rivelatori del suo essere tenuto sotto controllo da tempo dall’unità anti-terrorismo.
La paura è il motivo per cui nessuno vuole parlare. Ma la paura non è nulla di fronte al fatto che l’82% dei bambini che muoiono di fame vivono nei luoghi in cui il cibo viene utilizzato per nutrire il bestiame allevato, ucciso e mangiato dalle popolazioni più ricche. Oggi potremmo nutrire tutte le persone del mondo se ci fosse una dieta adeguata ed equilibrata alla convivenza di 7 miliardi di persone e se prendessimo il cibo destinato agli animali e lo utilizzassimo per gli uomini.
Ma in tutto ciò non è stato ancora toccato un ulteriore tema etico di non poca importanza: per sostenere questo stile alimentare vengano sfruttati ed uccisi esseri viventi, fondamentali per il sistema che regge l’ambiente. Ad un medico vegano é stato chiesto se questa tipologia di dieta, forse unica radicale soluzione del problema ambiente, possa essere dannosa per l’uomo. La sua opinione è a favore della stessa, oltre che per un fattore etico, anche per un fattore salutare, in quanto il consumo smodato di derivati animali sta causando l’ insorgere di malattie legate all’alimentazione, e ciò porta anche ad un consumo eccessivo di farmaci a livello quotidiano, che migliorano lo stato salutare immediato, ma non vanno a colpire la vera causa della malattia; basti pensare all’aumento della vendita di farmaci per abbassare i livelli di colesterolo, diabete, pressione alta, ecc, che non risolvono in radice il problema – legato all’alimentazione – e che hanno effetti collaterali non irrilevanti.
Sono successivamente stati intervistati agricoltori bio-intensivi che spiegano come per nutrire una persona vegana siano sufficienti appena 688 m2 di terreno, per una persona vegetariana tre volte tanto, mentre per un onnivoro occorrano diciotto volte più terreno, oltre al risparmio enorme a livello di produzione di sostanze inquinanti e consumo di acqua.
Il discorso più importante per arrivare a risultati che consentano la valorizzazione della vita umana prima ancora che dell’ambiente è legato alla sensibilizzazione. Se ogni volta in cui un uomo mangia pensasse agli affetti collaterali su se stesso e sul prossimo, migliorerebbe senza dubbio le sue abitudini, non come costrizione, bensì come libertà. In Italia si assiste ad un rispetto quasi religioso della tradizione alimentare, un rapporto quasi di venerazione del cibo buono in ogni sua regione, ma anche qui si sta vivendo sempre più il distacco tra ciò che si mangia e la sua provenienza, e nonostante ciò non si assiste ad un cambiamento quotidiano, quanto piuttosto ad una sorta di chiusura mentale verso il nuovo necessario. Eccesso non è sinonimo di benessere, ma spesso è un falso sorriso, pieno di frustrazione creata appositamente da un sistema che contribuisce ad autofinanziarsi sulle spalle di uomini e pianeta. Abitudini migliori portano ad una connessione quasi spirituale in vari campi della vita, ma soprattutto il sorriso reale dato dal contribuire per una buona causa.

Misure alternative alle carceri come strumento per la sicurezza sociale

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Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione“. Questa citazione di Voltaire è un’ottima base di partenza per trattare un tema urgente, attuale e vivo nel dibattito sociale e politico italiano: le condizioni incivili delle carceri.
Numerosi sono i richiami avvenuti da parte della Corte europea dei diritti umani, la quale nel 2009 condanna il nostro Paese a causa dei trattamenti inumani e degradanti che affliggono i detenuti, e nel 2013 emana la sentenza pilota relativa al caso Torrigiani, al quale è stato riconosciuto un risarcimento per le condizioni disumane nelle quali ha tergiversato durante lo sconto della sua pena.
Di fronte al sollecito europeo di porre un freno, nonché un netto miglioramento strutturale del sistema carcerario, l’Italia di primo acchito ha risposto tramite provvedimenti normativi volti a ridurre l’ingresso alle strutture, quindi minor numero di custodie cautelari oltre alla riduzione della detenzione di flusso.
Il carcere è un’istituzione storica volta all’espiazione della pena, ma la sua struttura, rassicurante per il popolo ed oggetto di propaganda politica polulista, è molto recente. Infatti, essa nasce al passo col modello di produzione capitalista, a livello di ossatura, ma soprattutto di scansione del tempo, in quanto assume valore nel momento in cui si sottraggono spazio e tempo al reo, nell’illusione di rieducare cittadini scorretti e riportarli all’interno della società e dei suoi valori. Ma questa idea malata di produzione è stata in parte superata, quindi non si vede il motivo per il quale continuare tale diabolico escamotage strutturale, volto all’allontanamento del soggetto “sbagliato” piuttosto che al suo inserimento. A livello europeo sono emerse correnti che sostengono l’abolizione del carcere, non per eliminarlo del tutto, ma piuttosto per superare tale stile istituzionale, così come è avvenuto per altri: basti pensare ai manicomi, benché al momento l’idea di eliminare una fonte sociale di sicurezza sembri impensabile.
Tale movimento è anche sostenuto all’interno del libro Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, edito da Chiarelettere.
Ma come conciliare tale corrente di pensiero con la necessità di tutela? Ciò che più rileva è che l’abolizionismo è un pensiero strutturato sulla base della protezione dei cittadini: infatti, i dati ministeriali rilevano che solo il 10% dei detenuti ha commesso reati particolarmente riprovevoli, mentre il restante 90% si trova nelle carceri principalmente per la commissione di reati legati ad uno status sociale di difficoltà materiali e psicologiche. E l’attuale condizione all’interno delle strutture è peggiorativa di tali condizioni, infatti il 70% dei detenuti sono recidivi. E’ stato effettuato uno studio secondo cui tale percentuale è scesa del 24% laddove siano state applicate misure alternative alla detenzione. L’ostacolo più grande alla promozione di tali varianti è dato dall’opinione pubblica, la quale non riesce a discostarsi dall’idea di carcere come spazio fisico in cui allontanare e punire soggetti di dubbio spessore morale.mTale timore viene poi raccolto dalle fazioni politiche prevalenti, che strumentalizzano disagi sociali e inculcano l’idea che per avere sicurezza occorra armarsi contro qualcuno, per lo più immigrati o tossicodipendenti, operando una propaganda politica che ha in parte causato quel 90% di detenuti per reati minori, quindi sovraffollamento.
Sicurezza non è accanimento, tantomeno deterrenza o esclusione, ed i dati sulla recidiva ne sono la prova concreta. Sicurezza è uguaglianza sostanziale, inclusione del reo nel mondo civilizzato, è realizzazione della tendenza alla rieducazione affermata dal terzo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione. Invece, l’aria stantia e rabbiosa respirata in un clima di restrizioni e sopravvivenza sta portando ad un aumento nel numero dei suicidi, non solo dei detenuti, ma anche della polizia penitenziaria, uccisa sul luogo di lavoro. Ambienti chiusi, con proprie regole e dinamiche, senza alcun controllo effettivo, in continua violazione di valori costituzionali, in cui ogni giono vengono compiuti reati mai denunciati.
Per far fronte a ciò è stato avanzato un disegno di legge sul reato di tortura, che è attualmente in sede di votazione, nonostante su tale tema vi sia il totale silenzio mediatico. Sono diversi i metodi alternativi adottabili dall’ordinamento per permettere lo sconto della pena nonchè la contemporanea risocializzazione del cittadino, come per esempio i lavori socialmenti utili, che consentono al reo un incontro educativo dall’interno, ma anche la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria, per i reati con minor disvalore. Si parla così di “depenalizzazione“, soprattutto per l’importanza che viene data oggi al denaro, creando una maggior carica deterrente a livello psicologico. Quindi, considerando che un detenuto costa allo stato una media di 125 euro al giorno, moltiplicato per i giorni in un anno e per il numero dei detenuti, tale ingente somma di denaro potrebbe essere in parte investita per promuovere un’esecuzione della pena più costruttiva, che possa giovare prima di tutto ai cittadini in generale e solo in secondo luogo al detenuto. Un trattamento disumano alimenta il disagio che porta la commissione della maggior parte del numero dei reati, i trattamenti disumani tolgono umanità alla persona. Per quanto possa sembrare impossibile, una visione alternativa e costituzionalmente orientata della pena potrebbe essere la giusta strada per un Paese sensibilmente e umanamente più sicuro. Numerose sono le grida all’interno delle storie di tortura e violazione della natura umana, minima è la sensibilità dimostrata dalla società nei confronti di un tema che ha un concreto impatto politico, sociale, culturale ed economico. Con immenso senso di appartenenza a questo mondo occorre,invece, muovere un passo che porti al reinvestimento di umanità e risorse verso ogni singola persona, sfruttando la sensbilità verso un obiettivo concreto.

Tratti comuni della non comune sensibilità

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La sensibilità, benché assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l’uomo sensibile, sentendo più vivamente degli altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri”.
Questa citazione di Leopardi sembra cogliere in sé l’essenza stretta dell’essere sensibili: la sofferenza per l’estremo sentire la vita buttare addosso all’anima macigni, costantemente. Ma cosa comporta l’essere sensibile?
Nel momento in cui la sofferenza è stata esaltata, essa è perennemente in contatto con chi è dotato di questo modo di percepire il mondo. Qualsiasi dettaglio, da un’espressione ad un modo di gesticolare, nonché uno sguardo, un sorriso, un suono, ogni piccolo elemento viene percepito come un tuffo nel petto in grado di scatenare un vento tormentato, che ha come seguito una non indifferente forma di ansietà, una sorta di paranoia, uno squilibrio interiore e un’alienazione mentale.
Tutto ciò genera solitudine: l’essere sensibile fugge dal quotidiano di fronte a tale fardello, e può farlo in modo manifesto, rifiutando di compiere le azioni scandite dal ritmo della vita di ogni giorno, o in maniera nascosta, riempiendo le giornate di infinite favole, cosicché il tempo per subire sia riempito in ogni minuto, annullato. Poiché per il sensibile nulla è affare da poco: occorrono un rifugio sicuro ed un’apparenza dura, affinché il prossimo non sappia. Diffidare quindi di chi sbatte in faccia a chiunque sensibilità (fittizia), perché quella reale si nasconde negli angoli più remoti, teme di essere ferita. E spesso accade di bruciarsi al punto tale da rifiutare la vita, la mente non riesce più ad elaborare l’eccesso e va fuori di senno, fa scattare meccanismi di terrore che, per difesa, allontanano da ogni forma di vita: assenza di reazioni, malattia, afflizione di chi eccessivamente subisce il sapere che arriva dal sensibile, profondo, spontaneo, non cercato, che assale in silenzio.
Però c’è dell’altro: il sensibile che riesce a farsi forza coglie le sfumature più intense ed interessanti dell’esistenza, vede la bellezza profonda del tutto, il dettaglio che fa del nulla una favola da raccontare, la comicità nascosta che rende lo scorrere del tempo una risata, ma soprattutto l’empatia silenziosa con le persone, la comprensione che avvicina al prossimo e dona profondità nei rapporti umani.
Auguro ad ogni persona sensibile di riuscire a vincere il pessimismo dato dal dolore, di controllare la propria mente senza lasciarsi trasportare irrazionalmente dalla distruzione del troppo sentire, ma in particolar modo di cercare in sé la forza di usare tale dono per cogliere la bellezza e donarla a chi gli sta intorno.

Elogio dell’artista della reinvenzione

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10 gennaio 2016, due giorni esatti dopo il compimento del suo sessantanovesimo compleanno, l’artista David Bowie muore. L’ennesimo articolo dovuto per celebrare un pilastro della musica nonchè dell’arte in generale, che ha condizionato e accompagnato il mondo da decenni a questa parte. Di David Bowie sarebbe inutile elencare i successi dell’immensa carriera musicale, mentre riveste importanza particolare alimentare e ricordare la sua immagine, come esempio della scoperta perenne di se stessi. Stoica infatti è stata la sua capacità di reinventarsi e adeguarsi ad un mondo occidentale in piena evoluzione, dal punto di vista stilistico, culturale e sentimentale, invincibile nel suo talento nell’abbracciare il nuovo, il giovane, condizionato fortemente dai suoi trasferimenti nelle capitali europee che sono tutt’ora culle della civiltà, fino all’America.
Un ricordo particolare va al Bowie di Berlino, citato non a caso nel famosissimo film “I ragazzi dello zoo di Berlino”, come emblema di una città che ai tempi necessitava di reinventarsi, riprendersi, connettersi al popolo, ma anche come emblema di una società giovanile colpita dalla droga nel pieno petto degli anni ’80. Abuso che ha colpito anche l’artista in questione come tanti altri artisti, nonostante occorra riconoscere come ad un’anima tale, l’eccesso abbia sviluppato un lato eccentrico che permette di ammirare il suo trasformismo, il flusso dell’estetica che lo ha portato a rivisitare il suo personaggio con forte determinazione, ma anche con la contraddittorietà riflessa nei suoi occhi diversi, pieni di dura espressività.
Basti pensare al conflitto d’immagine che separa il Bowie berlinese a quello degli anni ’90, berlinese al quale forse tutti ci ricolleghiamo se pensiamo alla sua grandezza, evolutasi anche nel periodo successivo, quando ormai la musica elettronica stava iniziando a spopolare. Lui si aprì anche a questa, nonostante l’affezione di tutti noi sia maggiormente rivolta a quel Bowie truccato, colorato, forte, con significato contraddittoriamente malinconico e doloroso.
Artista magico, in primis per la sua canzone, piena di trasporto verso emozioni di stomaco, dolorose per lo più, proprio per ricordare che la più grande arte nasce dal male e dal dolore, al quale però egli ha dato anche la sua immagine, immagine piena di vivace colore e shok, enigma del flusso di coscienza che accompagna qualsiasi sensibilità toccata dalla vita vissuta appieno, contrastante col testo, proprio per colpire l’occhio, primo tramite di comunicazione, per poi arrivare dentro, nell’anima nascosta dell’artista che è in ogni persona.
Documentari, articoli, telegiornali, tante cose celebrano la sua mancanza, ricordano la sua grandezza, la grandezza di un colosso rappresentativo di varie generazioni, a partire da quella dei miei genitori fino ad arrivare a quella attuale. Infatti una memoria particolare va verso la sua dedizione che dovrebbe essere d’insegnamento, dedizione alla musica che gli ha permesso di rinnovarsi e rinnovare, per continuare a svolgere la sua carriera con forza titanica. Lui era in ogni retroscena evolutivo.
La memoria più grande va al Bowie di Heroes, piacevolmente malinconico, tristemente colorato, amaramente tossicodipendente, totalmente connesso alla Berlino e quindi a tutta l’Europa e ai giovani underground del tempo, malinconici, colorati e tossicodipendenti, come lui. Questo perchè un personaggio che sia grande, deve saper comprendere e farsi portatore dei valori del suo tempo, ed è stata questa la sua forza: il vivere i valori alternativi degli anni della sua carriera, renderli arte e donarli. Un uomo che ha saputo raccogliere il peggio, per renderlo arte e bellezza.
Ciao David.

Gabbia d’oro

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Assordante battito
rimbombo di un bussare
proveniente dall’interno

L’uomo è dentro le sue mura
dimora immacolata
senilità del non vissuto

Non un velo di polvere
nulla fuori posto
vuota perfezione dello spazio non condiviso
L’uomo consapevole soffre
teme la sordità
non ricorda la leggerezza di un sussurro ardente

Non ha il coraggio di aprire la porta
sbatte violentemente i pugni
affinché qualcuno là fuori senta.

Se un passante percepisse
e sfondasse il muro
mi salverebbe la vita,
sarei libero

Ma nessuno ascolta
gli atoni gridi di aiuto
di un uomo rinchiuso in una gabbia d’oro.

Nessun suono giunge all’esterno
assenza di espressione
anima alcuna in grado di udire

L’uomo disperato
mai aprì la porta
mai determinato, ci provò.

Dopo le grida strazianti
si siede sul divano attento a non sgualcirlo
poggia le mani composte sulle ginocchia

Moltissimi anni trascorse a contemplare
la via di fuga,
brama dell’attesa altrui

L’uomo non fu.

Respiro

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Lacerante
peso al petto,
paranoia.

Solitaria
nell’introspezione,
rifugio.

Celebrale
essenza masochista,
taglia l’aria.

Sospiro
vecchi tormenti
stipati nell’umido.

Odore grigio
niente ossigeno
o fresca brezza.

Sapore amaro
del trattenuto,
rumino respiro.

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