L'UNIversiTÀ

Camilla Claudia Rossi

Sono nata a Bologna ma confinata nei meandri delle sue campagne, studio Giurisprudenza perché ho sempre desiderato farlo e non perché il mio segno zodiacale è la Bilancia. Il doppio nome altezzoso cela una personalità semplice: amo la musica anni Settanta, i tramonti, i miei cani, l'odore dei libri nuovi, il cinema e le serie TV ma non il buffering dello streaming.

Chi non rischia non vince

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Il 6 maggio 2014 andava in onda in prima TV su SkyGomorra-la Serie, ispirata all’omonimo romanzo di Roberto Saviano, e da lui stesso ideata. Così come hanno fatto discutere il libro e il seguente adattamento cinematografico del 2008 diretto da Matteo Garrone, anche la serie, seppur discostandosi per trama e costruzione dalle due opere anzidette, è stata al centro di dibattiti, probabilmente alla luce della maggiore risposta ricevuta dal pubblico.
I 12 episodi della prima stagione sono stati suddidivisi tra tre registi diversi: Stefano Sollima, già noto per l’ineccepibile lavoro fatto con “Romanzo Criminale- la serie“, Francesca Comencini e Claudio Cupellini. Ad ognuno di loro è stato affidato il compito di approfondire autonomamente le vicende dei singoli personaggi, creando così profili psicologici particolari e permettendo di coglierne le peculiarità, attraverso gli occhi diversi di ciascun regista.
Il merito principale da riconoscere alla serie è il realismo che padroneggia dialoghi e vicende, prima di tutto per l’ampio, talvolta esclusivo utilizzo del dialetto napoletano, ma soprattutto per le ambientazioni e i luoghi: Napoli infatti fa sì da sfondo, ma è essenziale al susseguirsi degli eventi. Ambientata principalmente qui, ha come protagonisti i clan camorristi dei Savastano e dei Conte, rivali nella gestione del traffico di armi e stupefacenti, non solo in Italia ma anche all’estero.
Il complesso ‘Sistema camorra‘ viene sviscerato in ogni sua forma ed espressione, mettendone in luce gli aspetti e le caratteristiche maggiori. Innanzitutto emerge il funzionamento dello spaccio nei quartieri popolari, quindi il traffico vero e proprio di stupefacenti, con il coinvolgimento di paesi esteri produttori e distributori di droga; poi affiora l’espansione al Nord Italia della camorra, che costituisce una presenza latente, in larga parte nell’ambito edilizio, dimostrando che nessuna regione risulta esserne immune, così come il mondo della politica non ne è estraneo e si sottolinea l’ingerenza camorrista nelle elezioni di persone selezionate e manovrate, attraverso la manipolazione delle votazioni; si evidenziano l’essenzialità e la funzionalità delle figure femminili nei clan, accentuando la centralità e la devozione per la famiglia, e infine le lotte esogene nonchè intestine allo stesso clan. Tutti questi fattori sono legati da una scia di violenza e da una crudeltà di fondo, che riportano la finzione romanzata alla drammatica realtà effettiva.
Quando si ha a che fare con la trattazione di temi così delicati, che toccano quotidianamente i nostri connazionali partenopei e non solo, il rischio che si corre è duplice: da un lato, descrivendo determinati eventi e personaggi si rischia di generalizzare, rendendo certe situazioni facilmente etichettabili in modo non veritiero da chi non appartiene a questa realtà o non conosce questi luoghi; dall’altro, quando i protagonisti sono dei criminali, è facile purtroppo esaltarli idealizzandoli nella finzione cinematografica, ed avendo avuto un impatto mediatico così forte soprattutto sui più giovani, si è rischiato di farli diventare dei modelli venerabili.
Tuttavia, la serie è riuscita poichè, sul filo del rasoio, ha evitato di cadere in questi cliché, perchè “chi non rischia non vince“, e Saviano e collaboratori hanno osato, senza strafare. La serie ha riscosso infatti un grande successo: oltre ad essere stata venduta in più di 50 paesi all’estero, ha meritato di essere trasmessa su Rai 3 anche l’anno seguente e poi nuovamente nelle sale cinematografiche italiane.
Successo da riconoscere non solo all’idea di Saviano, ma soprattutto agli attori che hanno saputo rivestire i ruoli da lui creati.
In primis il boss don Pietro Savastano, interpretato da Fortunato Cerlino, un uomo dall’aspetto ordinario, quasi innocuo, ma nei fatti un freddo e abile calcolatore, che confinato in carcere sotto il regime speciale del 41bis, si trova costretto a passare le redini materiali al resto della famiglia, rimanendo comunque in sordina il capo effettivo. Emergono quindi altri personaggi, come il figlio Gennaro (Salvatore Esposito), un ragazzo viziato e immaturo, estraneo alle faccende del clan, rispettato per semplice timore reverenziale nei confronti del padre, e solo dopo l’arresto di don Pietro comincia a rivestire un ruolo centrale, inserendosi nel meccanismo. Accanto a lui, assume rilievo Ciro “L’immortale” Di Marzio (Marco D’Amore), giovane tra gli uomini fidati del boss, che si ritrova a dover iniziare Genny al sistema e ad occuparsi del clan. Ma il capofamiglia è essenzialmente affiancato dalla moglie Donna Imma (Maria Pia Calzone), una donna sicura ed autoritaria, sua principale spalla e consigliera, che resta dietro le quinte guidando il figlio sino a partecipare attivamente agli affari in assenza del marito. Infine a capo del clan rivale si trova Salvatore Conte (Marco Palvetti), un soggetto inquietante, fortemente religioso e devoto, ma al contempo spietato e astuto, che in seguito ad aspri conflitti con i Savastano, si rifugia in Spagna per gestire autonomamente il proprio potente traffico di droga.
Accanto a questi anche gli attori non protagonisti hanno dato un valore aggiunto; ognuno di loro ha interpretato il proprio ruolo con grande professionalità e credibilità, mettendo in luce qualità’, elementi distintivi e psicologici di ogni personaggio, permettendo così allo spettatore di coglierne le sfaccettature e la maturazione nel corso della storia.
Probabilmente dopo l’omonimo romanzo, è il miglior lavoro realizzato dal giornalista, che nel 2006 ha detto: “il fatto che in questo momento ne stiamo parlando, che ne parlano tutti i giornali, che continuano ad uscire libri, che continuano a nascere documentari, è tutto questo che le organizzazioni criminali non vogliono, è l’attenzione su di loro, e soprattutto sui loro affari“. È quindi chiara ed emblematica la volontà di non smettere di denunciare questi fenomeni dilaganti, in ogni forma di comunicazione possibile, per l’amore viscerale che lui, come i suoi conterranei, provano per la città di Napoli.
In attesa dell’imminente uscita della seconda stagione, il consiglio per coloro che non l’avessero ancora vista e’ quello di rimediare per evitare di essere colti impreparati, e per gli appassionati di riguardarla per rinfrescare la memoria e poterne apprezzare il seguito appieno.

Estate romana

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Il regista Matteo Garrone ripropone alla Cineteca di Bologna il suo film del 2000, autoprodotto con la collaborazione dell’Istituto Luce, che racconta un viaggio in una Roma diversa. È un omaggio al teatro d’avanguardia romano degli anni ’70 e protagonista è un’attrice, Rossella Or, che torna nella capitale per ritrovare amici e colleghi, in un momento di frenetica preparazione per ospitare l’imminente Giubileo, ma rimane sopraffatta da una città in cambiamento.
La solitudine e l’inquietudine del personaggio sono lo specchio della città stessa, perché i luoghi e i paesaggi non sono solo lo sfondo, ma sono i veri protagonisti. È una Roma atipica quasi irriconoscibile, spogliata della sua eleganza e vestita di impalcature, con la volontà di dare il senso di una città nascosta, impacchettata. Così come Rossella, una figura fragile e indifesa, spaesata di fronte ad una dimensione mutata.
È stato definito dal regista come un ‘poemetto libero‘ rispetto alla sceneggiatura, perché l’approccio con cui è stato girato è la manifestazione di una ‘incosciente’ libertà espressiva; la generazione è infatti quella appartenente al mondo stravagante di questo periodo teatrale, ma centrale per la cultura artistica.
All’epoca non è stato apprezzato da buona parte della critica, ma è probabilmente un lavoro che si comprende appieno a posteriori: descritto da Garrone come un incastro tra il lavoro di critico teatrale di suo padre e un racconto di Melville, ‘Bartelby lo scrivano‘, è sì un ossequio al Beat 72 – va menzionato il cameo di Victor Cavallo – ma è sopratutto uno sguardo ad una Roma in pieno mutamento, colta forse impreparata, attraverso gli occhi innocenti di una tormentata attrice, capaci però di mettere in luce ombre poco considerate della città eterna.

THE HATEFUL EIGHT- L’ottavo film di Quentin Tarantino

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La Cineteca di Bologna, insieme al cinema Arcadia di Melzo di Milano e al Teatro 5 Cinecittà di Roma, ha avuto la possibilità di trasmettere in anteprima in versione 70mm (durata di 187 min) e in lingua originale l’ultimo lavoro del regista Quentin Tarantino, che uscirà nelle sale italiane il prossimo 4 febbraio. La cosiddetta versione “Ultra-Panavision 70” è un formato di pellicola che garantisce un’immagine più dettagliata, e nel corso della storia del cinema solo pochi film sono stati girati e trasmessi in questa versione (come Ben Hur). Ispirandosi alla tradizione del ‘roadshow’ rispetto alla versione che verrà trasmessa doppiata, questa prima proiezione in sala è più lunga: è preceduta da un intro musicale (Overture), ha un intervallo tra il primo e il secondo tempo, che riprende con un riepilogo fatto dalla inconfondibile voce fuoricampo del regista stesso e infine contiene alcuni dialoghi poi tagliati nella versione generale. La singolare scelta operata dal regista è stata quella di ritornare sul grande schermo in modo grandioso riproponendo tecniche desuete, e data la sua risaputa passione per gli ‘Spaghetti western’, come il penultimo film Django Unchained, anche questo ottavo lavoro intende omaggiare il genere.
La storia è ambientata pochi anni dopo la guerra civile americana, nelle sperdute montagne del Wyoming, dove il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) è diretto su una diligenza a Red Rock per consegnare la prigioniera latitante Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), e farla giustiziare, ottenendo la ricompensa della taglia sulla sua testa pari a 10 mila dollari. Attanagliati da una bufera di neve, sulla strada intrecciano i loro destini con quelli del maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), divenuto anche lui cacciatore di taglie, e del sedicente neosceriffo Chris Mannix (Walton Goggins). I quattro con il loro cocchiere O.B. per trovare riparo si rifugiano all’emporio di Minnie, dove ad attenderli non c’è la rispettiva proprietaria ma altri quattro soggetti sconosciuti. Bob, un messicano che gestisce l’emporio in assenza di Minnie, il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e il generale Sandford Sandy Smithers. Da questo momento gli otto cominciano a conoscersi, volenti o nolenti, consapevoli di dover passare lì tutto il tempo necessario in attesa che la bufera smetta, ma la situazione subisce qualche colpo di scena che ribalta completamente i piani.
I tre quarti del film, a parte l’inizio e qualche sporadico flashback, sono ambientati nella stessa stanza, richiamando fortemente lo spettacolo teatrale. Il dialogo fa da padrone e in alcuni momenti la scena è abbastanza statica, sino a quando non assume tinte noir ma infine pulp, poiché si tratta pur sempre del pungente Tarantino. Di certo infatti non mancano i suoi tocchi inconfondibili: a partire dai caratteri in grassetto giallo dei titoli di testo e di coda, la suddivisione in capitoli, le inquadrature dal basso, l’attenzione posta ai dettagli, sino ai dialoghi sprezzanti e paradossalmente comici che hanno la sua firma. E soprattutto il cast, formato da alcuni dei suoi prediletti. Primo fra tutti Samuel L. Jackson, protagonista impeccabile, che è alla sua sesta collaborazione con il regista; poi Jennifer Jason Leigh, Michael Madsen e Tim Roth, che ricorda vagamente nell’abbigliamento e nella gestualità il dr. King Schultz di ‘Django Unchianed’. Ma troviamo anche Kurt Russel, che non compariva in un suo film da ‘Grindhouse – A prova di morte’ (2007).
La volontà di lasciare il segno è data anche dal fatto che, dopo 40 anni di assenza dal western, la colonna sonora è stata composta da Ennio Morricone (insignito di un Oscar alla carriera e quest’anno di un Golden Globe), che scandisce alcuni momenti di tensione in modo originale.
Non è stato all’altezza delle aspettative perché rispetto ai suoi film precedenti crea suspance e attesa ma alla fine l’intreccio narrativo è sostanzialmente ordinario. Col titolo del film si dà anche l’illusione che i personaggi siano posti sullo stesso piano e siano tutti protagonisti, come generalmente avviene nei suoi film, ma in realtà l’impressione che si ha è che ci sia un ruolo centrale dato ad un paio di attori, le cui rispettive storie vengono maggiormente approfondite, mentre gli altri restano essenzialmente in disparte. Ad ogni modo non delude per la sua singolare e assurda comicità, ed è apprezzabile l’ambientazione quasi teatrale, nonostante il ritmo lento e claustrofobico che così assume la storia, tenendo conto che verso la fine non manca l’azione tipica tarantiniana. La voce originale ha comunque dato un valore aggiunto, ed è stato un privilegio vederlo sul grande schermo in questo formato senza doppiaggio. È più consigliabile agli amanti del pulp che a quelli del western e, al di là della ricercatezza delle tecniche con cui è stato girato, non è eclatante a livello contenutistico. Ha cercato di evolversi e di distinguere il suo lavoro in modo originale, ma forse i suoi fan sono abituati ad un Tarantino diverso: non è detto che il cambiamento sia comunque da biasimare.

NARCOS: PLATA o PLOMO

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Si è parlato a lungo del recente approdo in Italia della piattaforma statunitense di streaming Netflix che vanta la produzione di serie TV del calibro di quelle partorite dalla rinomata HBO. Una di queste è sicuramente Narcos, la cui prima stagione da dieci episodi è ideale per chi non ama le serie interminabili e prolisse, e che si distingue dalle solite biografie sui criminali.
Tutto ruota intorno alla figura del più famoso narcotrafficante della storia, il colombiano Pablo Emilio Escobar Gaviria (interpretato da Wagner Moura). Le vicende che hanno portato un semplice contrabbandiere di Rio Negro ad insinuarsi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, nelle maggiori sfere del potere internazionale diventando il più ricco e temuto produttore e trafficante di cocaina, sono narrate in modo realistico e fedele dalla efficace voce fuoricampo dell’agente della DEA -Agenzia Federale Antidroga statunitense- Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook). Questi, insieme all’agente Javier Pena (Pedro Pascal) fa parte del ‘Bloque de Busqueda’, un’unità speciale della polizia colombiana, la quale rappresenta l’unica speranza che all’epoca ci fosse qualcuno di onesto effettivamente intenzionato a porre fine all’espansione di Escobar.
Ciò che affascina è innanzitutto l’autenticità dei dialoghi, ottenuta mantenendo la recitazione in lingua originale (Spagnolo) e doppiando unicamente le parti in principio in Inglese. La veridicità è inoltre garantita dalla ricostruzione delle ambientazioni e dall’alternanza di fiction e di immagini o video autentici risalenti a quel periodo, i quali permettono allo spettatore di non dimenticarsi che si tratta di fatti realmente accaduti, così evitando il rischio di cadere nel frequente cliché di mitizzare o idealizzare criminali, talvolta consentito dalla finzione cinematografica.
Il potere ottenuto da Escobar e dal suo cartello di Medellín in così breve tempo -deteneva l’80% della produzione di cocaina e il 30% delle armi che circolavano illegalmente, incassando circa 60 milioni al giorno- si spiega con la sconvolgente e dilagante corruzione di politici e forze di polizia, che gli ha consentito di eliminare qualsiasi ostacolo alla costruzione del suo miliardario impero della droga, permettendogli di crearsi un’immagine popolare di benefattore (storico il suo appellativo di “Robin Hood”) e di farsi eleggere anche deputato del partito liberale, nonostante la sua responsabilità in numerosi assassini di ufficiali, agenti, politici e civili.
Contemporaneamente allo sviluppo delle vicende della sua vita, tra le guerre contro il cartello rivale di Cali e la DEA e la sua lotta volta ad abolire l’estradizione negli USA (“meglio una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti”), si sviluppa anche la storia della Colombia stessa, attanagliata dai frequenti rapimenti ad opera dei guerriglieri comunisti facenti parte dell’organizzazione M-19, che legandosi per un periodo anche al narcotraffico e a don Pablo, si sono resi complici di attacchi e stragi.
Il ritmo della storia alterna momenti rilassati ad altri incalzanti e concitati, e la stessa figura di Escobar è costruita in modo complesso: è un criminale spregiudicato e non mancano scene crude di omicidi od esecuzioni a sangue freddo; ma allo stesso tempo è una persona in cerca di riscatto, fortemente legato alla sua terra e alla sua famiglia, che ha costruito le sue ricchezze dal nulla e ha cercato di comprare tutto, persone comprese, per guadagnarsi rispetto e riconoscenza.
Tutto il cast di attori è il risultato di una scelta azzeccata, a partire dagli agenti federali (già noto ai più Pedro Pascal ne “il Trono di Spade”) sino agli altri patrònes del cartello nonché ai personaggi politici coinvolti, ma gioca un ruolo essenziale l’impeccabile interpretazione di Wagner Moura, la cui collaborazione con il regista Josè Padilha aveva dato i suoi frutti già in passato (“Tropa de Elite”, Orso d’Oro per il miglior film al Festival di Berlino del 2008). È decisamente una serie ben riuscita che permette di figurarsi un quadro veritiero sull’origine del narcotraffico e sulla storia di un paese segnato dalla sua influenza.

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