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“La luna e i falò” è un romanzo ambientato nelle Langhe che Cesare Pavese scrisse nel 1950. La storia, narrata dal protagonista denominato Anguilla, un emigrante tornato dall’America dopo la Liberazione, ha come tema centrale i ricordi del personaggio, dal momento in cui egli era stato adottato. Anguilla parla della sua infanzia passata a lavorare come contadino fino a quando non aveva deciso di partire per l’America,e ne parla con Nuto, suo fidato amico. Connotato di affetto e tenerezza è anche il rapporto d’amicizia che Anguilla stringe con Cinto, un ragazzino inconsapevole del mondo che vi è fuori dal paese, che sicuramente gli ricorda se stesso da giovane. Valori come la famiglia, l’amore per la propria terra, l’amicizia risaltano in primo piano, come se stessimo guardando un quadro, e contrastano con lo sfondo di guerra e miseria che Pavese ci narra, con mano sensibile ma decisa, come solo lui sa fare. Su tutto, emerge il desiderio del personaggio principale di andare via, per migliorarsi prima di tutto come persona. Accade di desiderare cose del genere, a quell’età e non solo. La realtà di paese è una realtà semplice, fatta di poche pretese se non il vestito nuovo da sfoggiare alla festa patronale; è una realtà di sagre popolari, folklore, chiese che pullulano di gente non solo a Natale o Pasqua ma ogni domenica perché si sa, la realtà di paese è una realtà religiosa, tra le varie cose. Tu, però, non ti rassegni che la tua realtà debba finire tra le mura benedette, né debba essere relegata al campo di calcio dell’oratorio. Quando ho letto questo romanzo, ho pensato che quelle parole fossero state scritte solo per me, per un’unica lettrice. Quelle parole squarciavano e rompevano il silenzio e la monotonia ben scandita dall’orologio del comune. Andare via era, per me, una boccata d’aria pulita. Un sentirsi finalmente padrona di me stessa:non ero più un’anonima ragazzina che trascinava se stessa tra inverni senza fine passati sempre nel solito bar ed estati caratterizzate dalle chiacchiere delle comari sedute in cerchio davanti all’uscio di casa, alle sette di sera. Gli amici, la famiglia me li portavo sempre dentro, inutile dirlo; erano quei pezzi di cuore mobili, che partivano con me per Bologna in una macchina carica di troppe ansie materne e troppo cibo. Non pensavo a quello che diceva Cesare Pavese, saggiamente. A me non “serviva” un paese, perché per me alla definizione “paese” c’era l’indossare i paraocchi, così come facevano i miei compaesani su molte cose. C’è una cosa, però, che fino a qualche tempo fa non volevo ammettere, per stupido orgoglio. Poi però,siccome tutto capita sempre per caso e noi diamo un senso a ciò che accade, o almeno ci proviamo, ecco che mi ricapita di leggere quel passo famoso de “La luna è i falò”. Io ora non so se si chiami “senso di appartenenza a un qualcosa” o se, più semplicemente, si tratti di nostalgia; so di essermi sentita parte di qualcosa, che non aveva nulla a che fare con Bologna, con la me di adesso. Ho ripensato alle vecchie case bianche, al sole che batte forte sulle pietre,alle tracce lasciate dalla storia e a quanto la mia terra fosse povera e falsamente ossequiosa per sopravvivenza (e ogni tanto lo è ancora). Ho ricordato tutta la mia infanzia, la campana che segna i pasti,il dialetto delle comari che, in cerchio, spettegolano si, ma un saluto non te lo negano mai e se ti fermi a scambiare quattro chiacchiere sta’ pur certo che di te parleranno bene. Ho ripensato al valore dell’ospitalità,che è più un valore di contenuto che di forma; alle feste un po’ rumorose ma coloratissime; alla banda di paese, ai matrimoni che sono sempre i migliori perché tutto è migliore, pure l’aria anche se è sporca a causa recente apertura di una discarica, diventa migliore,secondo il nostro migliore punto di vista. Allora ho dato ragione a Pavese, completamente. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andare via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Quel paese aveva aspettato Anguilla in silenzio per tanto tempo, fiducioso di un suo ritorno. Anche il luogo in cui ero cresciuta e che mi aveva formato c’è sempre stato ad aspettarmi. C’è stato a Natale, con quell’albero striminzito, le strade vuote e buie e le case in cui si giocava a carte; a Pasqua, con l’assoluzione di tutti i peccati. C’è stato in estate, con le sue cicale, i gelati mangiati in fretta per non farli sciogliere, il mare a venti chilometri. C’è stato e ci sarà sempre perché l’odore della tua terra non te lo togli di dosso. È un legame viscerale e primitivo,ma soprattutto è un legame inscindibile che in parte ha inciso, nel bene e nel male,su ciò che sei.

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Ivana Matarazzo

Ivana Matarazzo

Mi chiamo Ivana e studio Lettere Classiche. Sono una sognatrice con i piedi ben piantati per terra e la testa per aria, un'ottimista per natura e per necessità, una persona tanto sensibile quanto permalosa. Amo leggere, scrivere, osservare, viaggiare per un mondo reale e fantastico, recitare; amo i gatti, l'arte, la letteratura, il cinema, la fotografia; amo le persone schiette, oneste, imprevedibili, determinate e solari; amo le domande fatte al momento giusto e i silenzi, quando le parole non servono.

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