Cosa vuol dire cambiare casa per uno studente? Io ne ho cambiate tre, anzi, quattro. E poche ore mi dividono dal prossimo trasloco. Troppo piccole, troppo grandi. Troppo lontane, troppo vicine. Alcune con le finestre della camera che davano sulla strada, altre sul cortile interno. Eh sì, perché questo è un particolare importante. Per chi vuole dormire. Ma chi vuole dormire? Piano terzo, primo piano. Che nome c’è scritto sul campanello? No, non suonare, che ti apro io. Senza ascensore. Solo per correre su e giù per le scale. I contratti con le pareti da imbiancare quando si va via. Noi che abbiamo scritto sulla parete della cucina perfino il testamento morale che vogliamo lasciare al gatto. No, animali no. Erasmus si, li prendiamo. A patto che stiano minimo 6 mesi.
Ogni casa, piccola o grande che sia, diventa l’unico pezzo di mondo possibile dentro il mondo più grande di Bologna. E impariamo a viverla come tale. Come un nascondiglio o come una prigione. Come una grande comune comunista o come un salotto finto borghese dove preparare l’aperitivo per gli amici. E indipendentemente da come l’’abbiamo vissuta, trattata o maltrattata, lasciarla è come lasciarci. È come lasciare la ragazza, è fare gli scatoloni e metterci i propri souvenir emotivi, provando a tracciare le fila di quanto siamo stati noi dentro quell’anno. I poster di un concerto che abbiamo visto all’Unipol , i biglietti di un film in bianco e nero che davano alla Cineteca, e anche quelli di quando siamo andati a Venezia, una sera, con l’intercity notturno, per fare una cosa diversa. Le foto in serie che ci siamo fatti con la polaroid dell’amico pseudo-fotografo che abbiamo. Tutti ne abbiamo uno. Una copia dell’Internazionale. Una copia del nostro ego intellettuale.
E poi i coinquilini, quelli che lasciamo nella casa da cui andiamo via, e quelli che portiamo con noi, in un’altra casa o solo nei ricordi. Compagni funambolici di giornate tra l’ordinario e lo straordinario. Veri conoscitori della nostra personalità domestica. Gli unici a sapere nell’autentico come reagiamo di fronte all’ubriachezza, e di quanto, proprio nelle occasioni più disparate, i nostri discorsi possano mostrarsi così versatili da abbracciare sia riflessioni oniriche sull’amore che sulla crisi economica greca. Empatici, o poco simpatici, di sicuro testimoni oculari dei nostri sbalzi umorali, gli unici a sapere la velocità dei momenti che separano la nostra iperattività dalla nostra fragilità.
Insomma, cambiare casa non è come cambiare stanza d’albergo. Lo si fa spesso, sì. Ma ogni casa è un racconto a parte. Un libro con il suo alfabeto, la sua routine. Ti affacci dalla tua finestra e devi ogni giorno ricordarti e ri-innamorarti delle ragioni che ti fanno essere in un posto che non è il tuo. E avere appesa nella stanza la custodia del disco autografato di un gruppo che sei andato a sentire al Bolognetti, ti aiuta a rintracciare i momenti in cui sei cambiato e in cui hai dato peso al tuo cambiamento. Sei arrivato a Bologna che eri diverso, con la tua visione delle cose, con il sogno di scene immaginarie che poi non sono accadute e con altre che ti sono successe mentre eri impegnato a vivere un’altra cosa ancora. E in ogni casa in cui sei andato a vivere, hai potuto dare un indirizzo alla tua voglia di rivoluzione e un numero civico diverso al tuo bisogno di essere solo te stesso.
Auguri, per i vostri pacchi. E per tutti gli scatoli dove imballerete il prezzo delle cose che avete amato, odiato, non capito, o soltanto troppo vissuto.