L'UNIversiTÀ

Simona Cartia

Nata a Siracusa, frequento il terzo anno di Giurisprudenza @Unibo. Perseguitata dalla noia di una vita ordinaria, mi rifugio nel frenetico mondo del cinema e della serie tv.

Il coraggio di un Nobel: Dylan e la letteratura cantata

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Ieri, giorno così pieno di emozioni contrastanti, il Comitato dei Nobel di Stoccolma ha compiuto una scelta interpretata da tutti come coraggiosa.
Infatti, il comitato svedese ha assegnato il premio Nobel per la letteratura, assegnato ogni anno all’autore che riesce a distinguersi maggiormente per le sue opere, al cantautore statunitense Bob Dylan, con la motivazione di “aver creato nuove espressioni poetiche all’interno della grande tradizione della canzone americana”.
Nato nel 1941, sotto il nome di Robert Allen Zimmerman, in una fruttuosa città del Minnesota, Duluth, é cresciuto in un’adolescenza che potrebbe uguagliarsi a quella che risuonava da tutte le finestre di ogni singolo adolescente americano degli anni ’50, cioè a suon di Elvis, Johnny Cash e Buddy Holly.
Ma, a poco più di vent’anni, attraverso la frequentazione di circoli beat progressisti, Zimmerman si é avvicinato al mondo folk, idolatrando Guthrie, iniziando a delineare una figura oramai conosciuta: l’ideatore del folk-rock, ricalcata da “The Freewheelin”, manifesto del nuovo folk.
É stato proprio a causa di questa nuova scoperta che ha sentito di dover abbandonare la provinciale Duluth, dirigendosi verso la Grande Mela e decidendo di cambiare il suo nome come segno d’abbandono ad una vita banale.
Come afferma nella sua autobiografia “Chronicles”: “Ero in uno stato di esaltata consapevolezza, ben deciso a seguire la mia strada, privo di senso pratico e visionario dalla testa ai piedi.”
Dylan è colui che é riuscito ad incarnare perfettamente lo scorcio d’epoca di quei famosissimi anni ’60, fatti di cambiamento, proteste e rivoluzioni nelle sue lotte ai diritti civili, rendendosi figura chiave del movimento progressista americano.
Ed è proprio da qui che dovremmo far risalire le ragioni di questo meritatissimo Nobel.
I suoi testi, influenzati dalla letteratura e dalla storia americana sono sempre stati colmi di pervasività, definibili veri e propri anthem di protesta; in tal caso, come non parlare della famosissima Blowin’ In the Wind, talmente universale da riuscire ad esser cantata dagli ambienti della sinistra radicale alle file dei cattolici progressisti.
Ma l’interesse e l’opera di Dylan hanno guardato anche e soprattutto alla poesia, alla metrica della rima forzata, alla letteratura della nuova frontiera che anticipava la beat generation, riconducibili ad opere dello spessore di Girl From The North Country, in cui è riuscito a sfornare un brano capace di ammiccare alla modernità con un linguaggio fresco ed efficace.
C’é un pezzo “Like a Rolling Stone”, descritto quasi come un’opera d’arte valutata oltre 1.700.000 dollari, che ha come contenuto sei minuti che riproducono un unico sentimento: Malinconia e disperazione, rabbia e voglia di rivalsa.
Questo pezzo é stato di particolare importanza proprio per sottolineare come il folk di Dylan fosse discrepante rispetto al noto, assumendo una faccia diversa, oscura.
Eppure Dylan ha scritto, e questa volta non per cantare.
Il riferimento va a Chronicles, autobiografia dell’artista, ma soprattutto a Tarantula, un libro sperimentale di poesia in prosa al quale stava lavorando mettendo su carta un flusso di coscienza ermetico e visionario, in parte copiato da vecchi scritti che gravitavano sulla sua scrivania.
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Tutto ciò seguendo l’ispirazione dello stile narrativo dell’epoca attraverso la tecnica del cut-up e ai poeti della Beat Generation.
Riguardo alla premiazione del Nobel per la letteratura, molti hanno espresso un giudizio negativo circa il merito di quest’artista, solo perchè classificato come “cantante”.
Dylan è innanzitutto un cantautore: cantante e autore ovvero colui che interpreta suoi scritti; ma egli fa una cosa differente, non canta: indossa le parole come abiti e li porta in giro con una naturalezza che solo l’esperienza sa dare, riuscendo ad agitare una bandiera portatrice di lotte e di diritti attraverso testi colmi di una letteratura che lo ha mosso sin dal principio.
Si parla, infatti, di messaggi tradotti in musica che disegnano il menestrello americano come prototipo del cantautore contemporaneo.
De Gregori, che inneggia Dylan come patrimonio comune, ha espresso, meglio di quanto si possa fare, i motivi di questo Nobel in poche righe: “È una notizia che mi riempie di gioia, vorrei dire non è mai troppo tardi. Il Nobel assegnato a Dylan non è solo un premio al più grande scrittore di canzoni di tutti i tempi, ma anche il riconoscimento definitivo che le canzoni fanno parte a pieno titolo della letteratura di oggi e possono raccontare, alla pari della scrittura, del cinema e del teatro, il mondo e le storie degli uomini. Bob Dylan incarna l’essenza di tutto questo, nessuno come lui ha saputo mettere in musica e parole l’epica dell’esistenza, le sue contraddizioni, la sua bellezza”.
Bisogna riconoscere che le canzoni sono letteratura, in quanto manifesti addolciti di grandi temi che contraddistinguono la nostra quotidianità, contro quei muri di cemento che musicisti come Bob Dylan hanno provato a scalfire con la loro musica in tempi lontani, giorni in cui si aveva la speranza che una canzone potesse cambiare il mondo.

Giochi di potere: una realistica immersione nella politica americana.

 

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Una delle serie tv oramai diventata un fenomeno a livello mondiale, tanto da essere seguita dallo stesso presidente americano Barack Obama – il quale non ha mai fatto mistero di esserne un fan- si chiama House of Cards, “Gioco di carte”. È un thriller politico ambientato nei corridoi del congresso Usa e della Casa Bianca prodotto da Beau Willimon. Si tratta di un adattamento dell’omonima miniserie televisiva prodotta dalla BBC, a sua volta basata sul romanzo più famoso di Michael Dobbs, pubblicato per la prima volta nel 1989, ancora considerato il thriller politico per eccellenza. Incentrato sulla vita e le ambizioni del politico machiavellico Francis Urquhart, il romanzo fu già adattato negli anni Novanta dalla BBC ricevendo un enorme successo di pubblico e critica. Ora, nella più recente versione USA, il Parlamento inglese viene sostituito dal Campidoglio americano per narrare la storia trasversale della corruzione attraverso le vicende della politica statunitense.
Il successo, oltre alla bravura degli attori, alla regia e alla notevole cura dei dettagli, è frutto anche dall’aspetto melodrammatico della storia, fatta di manipolazioni, tradimenti e violenza, degni di un dramma shakespeariano. L’immagine di un uomo, Underwood, che da solo tiene in pugno una nazione con l’intelligenza e l’inganno come uniche armi. Si tratta di un’epica che si fa racconto morale, di una teatralità assolutamente spettacolare, alimentata dal regista che riesce a creare quasi un gioco attraverso il quale il pr04-kevin-spacy-house-of-cards-1.w529.h352.2xotagonista, rivolgendosi direttamente alla macchina da presa, coinvolge lo spettatore, quasi fosse un dialogo a tu per tu.
Quest’ultimo, infatti, verrà coinvolto nei suoi piani, creando un rapporto empatico col protagonista.
Credo che i fan di HoC si dividano in tre tipologie. Quelli che lo guardano per ispirarsi: il telefilm per loro è un manuale di istruzioni per essere un uomo di potere. Quelli che tendono ad esorcizzarlo sostenendo che “i personaggi sono americani, il potere è americano, da noi non funziona così, da noi tale realtà non trova alcun riscontro”. E, infine, quelli che hanno bisogno della “copertura” della politica per raccontare a se stessi e agli altri che non stanno guardando quello che stanno guardando.
Tuttavia, per gli appassionati della serie, bisogna sottolineare le critiche negative su questa terza stagione, definita sia dal New York Times sia da Vanity Fair lenta e monotona.
Appare un Frank Underwood stanco, indebolito e privo d’idee, quasi in balia degli eventi, non riuscendo a piegarli in suo favore come abile calcolatore; stesso discorso per Mrs.Underwood, è opaca e sembra aver perso verve, dimostrandosi non a proprio agio nel ruolo di First Lady: capricciosa a tal punto da chiedere al marito di intervenire in suo favore non rispettando protocolli ufficiali, peggiorando, in maniera drastica, il personaggio che tutti abbiamo amato.
Eppure, nonostante tali critiche, Netflix ha rinnovato House of Cards per una quarta stagione, che farà il suo debutto nel 2016.
Un finale di stagione in cui lasceremo Frank in uno stato di transizione. Claire ha lasciato il Presidente, che stava lottando la battaglia della propria vita per la nomination dei Democratici. Dal lato positivo, Doug è ritornato al suo fianco.
Per quanto mi riguarda, la vera domanda è: “Come farà Frank a “funzionare” senza Claire?”
Aspetteremo, con l’inizio del 2016, le sorprese che questa serie continuerà a regalarci.

 

L’ultima fatica di Eastwood: American Sniper.

“American Sniper” è un’opera di parte, ‘partigiana’ e di folle propaganda in salsa yankee. È la storia di un eroe Americano con la “A” maiuscola capace di risollevare le sorti della guerra: un allora giovane texano, Chris Kyle, interpretato da Bradley Cooper, cresciuto da un padre duro che, attraverso la straordinaria aggiunta tutta statunitense della figura del “cane pastore” inserita nel più classico binomio pecora-lupo, ha inculcato in lui e suo fratello i più tipici valori a stelle e strisce. Tira a campare come cowboy nei rodei di provincia fino a quando, spinto dalla personale ossessione per la protezione di chi ama e del suo Paese, e in seguito agli attacchi terroristici di Al-Qaeda che bussano prepotentemente alle porte delle allegre famiglie americane, decide di dover dare il proprio contributo arruolandosi nel temerario corpo militare dei Seal. Parte per il suo primo turno mostrando incredibili doti come cecchino, tanto da divenire il primo bersaglio per gli insorti, ponendogli l’appellativo di cecchino più letale della Storia dell’Esercito americano.

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