L'UNIversiTÀ

Recensioni

De Chirico tra stupore, sogno e domande esistenziali

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Vi piacerebbe se tutto si fermasse in un istante senza tempo, in una stasi perenne su cui aleggia solo il suono sacro del silenzio? Se si usassero gli insegnamenti tradizionali e ben rodati e, a furia di mescerli insieme con l’estro creativo, vedesse la luce l’innovazione? Se le cose più semplici fossero, in realtà, quelle più enigmatiche ?
La semplicità è l’incanto” diceva Claude Monet.
Incanto è il termine che racchiude la pittura di De Chirico, padre della Metafisica. Nella Metafisica, tutto ciò che sembra reale ad una prima impressione, si rivela non essere così: la luce, i colori sono irreali, la prospettiva è deformata.
De Chirico rappresenta la normalità in un ambiente in cui non domina la normalità: per questo la dimensione cittadina sembra immersa in un alone di indissolubile sacralità. L’artista ci sta dicendo che la realtà che noi vediamo è influenzata da ciò che crediamo, dalla nostra soggettività. Che la realtà non è una realtà, bensì un ventaglio di realtà che si presentano a noi. È un andare oltre, un fieri, un divenire, e banalmente – o forse non troppo – potremmo dire che non è mai ferma alla nostra prima impressione.
La pittura di De Chirico è una pittura dell’inconscio, del sogno. L’occhio, complice la prospettiva, non sta fermo: indaga, cerca, assembla elementi tra loro, vuole una soluzione e questa ricerca lo spinge ad andare oltre. In De Chirico, però, non c’è solo questo: un altro grande tema è la solitudine, quella delle statue recuperate dall’antichità classica, ma soprattutto quella dell’ uomo che ricerca, s’interroga, decide di rompere il muro delle certezze o, meglio, dei parallelepipedi santificati della matematica.
Gli oggetti revocano i desideri sepolti; i dolci – ebraici – che egli raffigura, non sono per i mortali, bensì per un convivio tra immortali.
Per de Chirico si parla di solitudine dei segni, anche, e ciò significa togliere alle immagini delle cose i riferimenti abituali, generando nuove associazioni e significati.
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Mi piace pensare a De Chirico come ad un uomo a tratti disincantato, a tratti stupito dall’assenza di logica che domina il mondo. C’è da capirlo: siamo in piena prima guerra mondiale, da lui definita per quello che è: una pazzia.
Quello stupore, quella ricerca dell’alterità, ci accompagna per tutta la mostra, per ogni singolo quadro esposto a Ferrara, nel Palazzo dei Diamanti. Ferrara, che poi è la città che De Chirico più ama, definita da lui “la città della Metafisica” e presente in quasi ogni opera. Ferrara, che fa da sfondo alla sua nostalgia, intesa nel senso greco del termine ovvero ‘sofferenza che nasce dal desiderio del ritorno’.
Io sono ritornata a Bologna con in mente l’eterna domanda senza risposta dell’esistenza:
cosa siamo davvero? Uomini resi privi di emozioni a causa della meccanicità della vita, come ci rappresenta De Chirico?
Chissà se poi, a questa domanda, agli sgoccioli della sua vita, l’artista abbia trovato una risposta.

La vendetta nelle mani di Dio

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Esplorare la Natura, viaggiare per ore tra lande desolate, territori ostili ed inospitali, popolati dalla ferocia istintiva della bestia, della Terra che (ci) si rivolta contro. Revenant è un (“il”) film sulla Natura, indaga nella sua stessa “natura” di essere vivente incontrollabile e dotato di una sconfinata bellezza, estremi paesaggi dove l’occhio si perde all’orizzonte in quell’incanto di colori vergini e puri.
La Natura è forte e non esisterà uomo o creatura in grado di tenerle testa, di esserne all’altezza, di competere con l’indifferenza e la brutalità di disastrose rivoluzioni ecologiconaturalistiche.
Iñárritu è un regista capace, che sa come comunicare con il suo pubblico, offre uno spettacolo visivamente ineccepibile dove il suo virtuosismo e l’occhio del collaboratore Emmanuel Lubezki si fondono in una amalgama perfetta di colori e sensazioni, progetto di ardua fattura realizzato da una crew di professionisti appassionati al loro mestiere, quello di creare/costruire struggenti emozioni. A far brillare ulteriormente il progetto è la presenza di Leonardo di Caprio, super eroe-attore disposto ad esporre il suo fisico alle condizioni più disparate per adempiere ad un compito importante: l’ottenimento di qualcosa che trascende il semplice svolgimento di un lavoro e varca le soglie dell’impagabile compiacimento dell’aver dato ascolto al proprio cuore.
Straordinaria interpretazione affaticata da quel corpo martoriato, zampillante di sangue rossissimo, ammutolita da quel diabolico quanto tenero orso che impara la ferocia dalla Natura stessa che lo ha concepito per riversarla sull’inerme corpo di Hugh Glass. Di Caprio è muto ma parla aiutato dai suoi bellissimi occhi azzurri, il corpo ferito e martoriato implora più di ogni parola, comunicazione retta su sguardi persi e doloranti che racchiudono il più grande dolore che una creatura possa mai provare. Privo di tatto, immune a sofferenza fisica, un corpo ridotto a brandelli di carne ambulante che vagano tra lande gelide in cerca di vendetta. Non esiste male peggiore che la perdita del proprio figlio, allontanamento precoce che rafforza ed irrobustisce il corpo di Di Caprio/Glass rendendolo (quasi) immune al dolore fisico. Un essere già morto, ormai redivivo, alimentato da sete di vendetta verso un’anima maligna e vivente, causa scatenante di tanta volontà e resistenza, immortalata dall’ex uomo con la maschera di Christopher Nolan. Autentica “bestia da cinema” ascritta a tal dimensione iñárrituana che si converte in una delle più convincenti interpretazioni di Tom Hardy. Miracolosa la penna del messicano, personaggio avvincente, scritto in modo impeccabile, facendone brillare l’istrionica favella: contrapposizione netta di mugolii e versi straziati di un Di Caprio che non firma la sua miglior performance.
Film dallo scheletro sottile rivestito da cotanto virtuosismo che impedisce al gelo di permearne la tenue trama. Banale sì, ma mai banalotto, mantiene i confini narrativi e stilistici con eleganza senza sfociare in irritanti classicherie da revenge-movie ignoranti e muscolosi. Impronta western riscontrata in situazioni collocate agli albori del genere; avventura permeata da continui rimandi all’immaginario, costellazioni di pensieri scavati in profondità nella mente umana e collegabili allo Hugh Glass dei tempi passati, cuore affranto da traumi incessanti, influenzanti il tragico futuro ancor prima di aver tracciato un solco nel presente che egli vive. Dimensione onirica che ruba dal modello malickiano l’osservazione e la meditazione del particolare, dove a parlare sono le immagini mute di uno spettacolo tutto al naturale. Dimensione contemplativa sull’essere interiore, valori ascrivibili alla propria indole di barbaro e/o civile, ambivalenza perfetta di società improntante a violenza e crudeltà. Viaggio esplorativo dell’appartenenza, identità e giustizia relegate nelle mani del Dio giusto, unico detentore della punizione e del castigo. Iñárritu dei silenzi, contempla l’incontemplabile, osserva l’inosservabile, panorama in cui è libero di osare e di strafare, speranzoso di imporre la sua come una visione autoriale a tutto tondo. Opera che pecca nella smisurata voglia/bisogno di abbagliarci, mostrando un sempre più martoriato Hugh Glass procedere a stenti, la cui contemplazione innescherebbe stupore immediato con quel Di Caprio che, a conti fatti, “è stato proprio bravo, si merita l’Oscar”. Troppo che stroppia che si intoppa e si storpia, il film dei silenzi e delle esagerazioni. Film (anche) dell’ingiustizia e dell’ingenuità, imperdonabile anomalia di un sistema pretenzioso; sacrificare il sacrificabile, togliere pezzi da un puzzle intricato semplificandone l’esito.
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Penso a quel Capitano, Domnhall Gleeson, silurato con troppa faciloneria da un Iñárritu impaziente di immortalare lo scontro tra titani. Prevedibilità di una morte indegna telefonata a distanza abissale.
Penso alla vendetta, elemento focale di un film silenzioso, contemplativo e poco attento al minimo indispensabile, ma pronto e vigile nell’esasperazione del massimo pensabile. Nocciolo della questione rappresentato dal poco percettibile legame di sangue padre-figlio, riduttivamente espanso in un arco di tempo favorevole all’espansione.
Penso a Revenant, al viaggio percorso e al freddo avvertito, immedesimazione perfetta di un’opera imperfetta. L’emozione c’è, se ne avverte il rumore. L’emozione pervade lo schermo, la sala e la gente inorridita che domanda perplessa come Glass vivesse senza l’antitetanica. L’emozione di fronte ai quadri di Lubezki, ai piani sequenza di Iñárritu, al misticismo sconvolgente e rassicurante.
In sala sta nevicano, è arrivata anche qui, forse è solo l’impressione di trovarsi altrove.

Il bugiardino musicale: Fast Animals and Slow Kids – Locomotiv, Bologna

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Ogni volta che vado a vedere un concerto mi sembra come se me lo abbia prescritto il medico. Perché? Perché la musica ci fa bene, ci trasforma, ci permette di alleviare i dolori o alimentare i nostri sentimenti. Figuriamoci l’andare ad un concerto, che può diventare una perfetta catarsi in mezzo al piattume della routine quotidiana, un modo per buttar fuori quell’insieme di energie represse o per dimenticarsi dei pesanti pensieri settimanali.
Così, andando a sentire i Fast Animals and Slow Kids al Locomotiv di Bologna, immagino di scartare la confezione di un utile medicinale mettendomi a guardare (come in teoria bisognerebbe sempre fare) il bugiardino informativo dei consigli e delle controindicazioni:

INDICAZIONI: i Fast Animals and Slow Kids sono una band di Perugia nata nel 2007 dall’unione di quattro musicisti amici. Il nome prende spunto da una puntata del cartone animato “I Griffin”, in particolare la scena dove Peter Griffin racconta di un reality show in cui bambini lenti e grassocci sono costretti a fuggire da belve feroci e rapide. Lo spunto demenziale rende palese l’iniziale intento del gruppo di non prendersi veramente sul serio, unico obiettivo quello del divertimento. Ma dopo la vittoria nell’estate 2010 del contest per gruppi emergenti di Arezzo Wave Festival e l’appoggio del cantante degli Zen Circus Appino per la pubblicazione del loro primo album (Cavalli), qualcosa sembra essergli andata storta…
COMPOSIZIONE: Aimone Romizi (chitarra, voce e percussioni), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria)
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: utile ad alleviare rabbia repressa grazie allo sfogo ottenuto dall’assistere ai loro concerti. Subitanea consapevolezza e conforto di essere tutti partecipi di una generazione che non può far altro che “combattere per l’incertezza”. Permette di accomunare ragazzine sedicenni a metallari intransigenti, cori da stadio rabbiosi a momenti di malinconia. Gruppo perfetto per chi adora pogare.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: munirsi di scarpe comode e spalle pesanti. Rischio di costole rotte o denti scheggiati nel corso degli svariati poghi di massa invocati a forza dal cantante. Attenzione ai frequenti stage diving di quest’ultimo (o vi ritroverete con un suo piede in testa). Se non sapete da dove vengono state sicuri che ve lo ricorderanno loro: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids… e veniamo da Perugia!”
DOSI CONSIGLIATE: Questo è un cioccolatino EP (2010, To Lose La Track), Cavalli (2011, Iceforeveryone), Hybris (2013, Woodworm), Alaska (2014, Woodworm). Prendere un album a scelta e fare attenzione al volume degli auricolari.
MODALITA’ D’USO: prendere le dosi consigliate e dirigersi verso uno dei loro concerti, come ad esempio quello del 29 gennaio al Locomotiv di Bologna.

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Lette le istruzioni, posso finalmente prendere la mia medicina. Mi dirigo al Locomotiv a pochi passi dalla stazione accompagnato da due amiche. Il locale dalle pareti rosse si presenta non proprio grandissimo per colpa del bar che si insinua a metà del centro della sala, e le persone sono sempre più in aumento (all’entrata avevo sentito che mancavano solo tre biglietti per il sold out), ma alla fine si riesce ad avere un discreto spazio indivuale. Decido di posare il giaccone nel guardaroba per non fare il masochista e diventare letteralmente un bagno di sudore, poi vado ad aspettare vicino al palco la band tanto attesa, mentre l’ultima canzone del gruppo di apertura, i Capra, sta sul punto di terminare. Il concerto inizia alle undici meno un quarto. Il tour di sette date intrapreso dai Fask agli inizi di gennaio rispecchia i sette anni in cui questi quattro ragazzi stanno suonando insieme. “Gran Final Tour 2016” (ora terminato nell’ultima data di sabato 8 febbraio all’Alcatraz di Milano) è il coronamento di una carriera piena di sorprese e un saluto finale prima di una lunga pausa che li terrà impegnati alla realizzazione del loro futuro nuovo album. Con loro c’è anche il bravissimo Nicola Manzan del progetto Bologna Violenta in veste di chitarrista e violinista, gà in collaborazione con la band riguardo ai loro ultimi due album. Ma questo tour non è altro che il proseguimento e il termine del loro “Alaska Tour”, partito in seguito alla pubblicazione del loro ultimo disco che gli ha permesso veramente di coronare il loro successo nella penisola, tanto che nel giro di poche ore Alaska è stato il disco “alternative” su Itunes più venduto in Italia. Ma bando alle ciance e ai pensieri di attesa, finalmente i quattro ragazzi di Perugia arrivano sul palco. Si comincia con OVERTURE, effettivamente primo brano del loro ultimo album. Molto suggestivo grazie a Manzan al violino, lascia trascinare il pubblico verso emozioni malinconiche che ricordano paesaggi lontani e copiosamente innevati come l’Alaska. “Scusa, mi lascio andare un po’… ora, dopo ritornerò” la frase cantilentante prosegue in coro finché non si dissolve nelle chitarre di svolta e nell’urlo di Aimone. Il primo pogo è ovviamente avviato. Poi è il turno di CALCI IN FACCIA, grido di battaglia teso a non arrendersi mai di fronte a tutte le sciagure che la vita ci riserva. “
Datemi l’ennesimo calcio in faccia, che da un occhio ci vedo ancora” ed effettivamente tutti i loro concerti sono un continuo superamento dei propri limiti, una necessaria esigenza di metterci tutto sé stessi, loro sul palco e noi nei cori e nel pogo. Arriva un’altra canzone dell’ultimo album, forse la più bella: Il mare davanti che è un grido di libertà e autodistruzione tanto quanto aveva annunciato la canzone precedente. Le emozioni scorrono veloci e rispecchiano gli stessi colori che Alaska può trasmette a qualsiasi ascoltatore. Si ritorna al disco precedente: di Hybris compaiono CANZONE PER UN ABETE II, TRENO e COMBATTERE PER L’INCERTEZZA. Quest’ultima racconta di quell’istinto combattivo e allo stesso tempo completamente complessato da tutti i dubbi adolescenziali, quella “hybris” (furore) che solo accettando se stessi permette di essere mitigata e trasformata. Aimone canta: “Accetto me stesso e ciò che destabilizzo” e “Io avevo paura di esser diverso, lo sento, ma ora divento più grande e cambio le sorti del mondo“. Credere in sé stessi, coltivare le proprie passioni, accettare le proprie debolezze, sfogarsi nella giusta maniera. E i vari spazi circolari dedicati al pogo, che durante queste canzoni si formano, a mio avviso sono un buon modo per scaricarsi, sempre per chi può permettersi di avere due spalle belle dure. Le mie non reggono, e mi discosto un po’. Nel mentre degli spintoni e dei continui crowd surfing della gente (durante il concerto ce ne saranno stati quasi una quindicina) era apparsa TE LO PROMETTO che il cantante ha dedicato ironicamente a tutti i loro amici. Poi IL VINCENTE permette di riposarsi dal prolungato movimento di gomiti e ginocchia, e tra il violino di Manzan e la voce sentita di Aimone c’è anche modo di intravedere qualche sprazzo di commozione per chi, come me, ha vissuto i loro album intensamente e li ha appiccicati alle emozioni che ha offerto il loro percorso di vita. Arriva poi COPERTA, canzone che parla di una relazione ormai prolungata allo sfinimento e ultimo singolo uscito da Alaska accompagnato da un video. Subito dopo mi fanno un regalo e buttano fuori la mia canzone preferita del loro secondo album, CALCE, tra pause e cadenze da stadio, tra cori e salti di gruppo. Si continua con quella che in letteratura si chiamerebbe una dichiarazione poetica: ODIO SUONARE ricorda al pubblico l’aspetto relativo di tutte le verità che possono essere estrapolate dai loro testi e rimette sullo stesso piano pubblico e cantante. Questo canta: “Non ho certezze per me stesso, perché dovrei averne per voi?”. Noto un collegamento con i Pearl Jam e mi ricordo come nella canzone Leash Eddie Vedder cercava di eliminare quel fantoccio da idolo di una generazione che i mass media avevano cercato di affibiargli (“I am lost, I’m no guide, but I’m by your side”). MARIA ANTONIETTA non si fa attendere ed è accolta calorosamente dal pubblico, anche perché tra le canzoni più conosciute della band. Il pogo continua e io vengo sballottato avanti nelle prime file (quelle più coraggiose) perdendo di vista le mie due amiche già molto spesso divise dal pubblico. Ci si riposa un’altra volta, e la chitarra di Alessandro introduce il brano di chiusura del loro ultimo album, GRAN FINAL. “Padre salvami, dalle molte piaghe”, da sempre la parte iniziale mi ricorda l’inizio di una canzone dello stessa band a cui avevo pensato prima, i Pearl Jam, e per l’esattezza Release, in cui il cantante invoca sempre il padre in cerca di una redenzione (“Oh dear dead, can you see me now?… Release me”). Ma breve è la pausa di respiro per il pubblico, perché come sempre la musica dei Fask è un continuo spostamento tra attimi di attesa e momenti di esplosione. Gran Final è un inno all’adolescenza ormai sul punto di terminare, un continuo slancio di volontà di autoespressione verso un futuro che appare sempre più incerto per tutti. Non prendersi sul serio è comunque la lezione da cui è partito il gruppo e quella con cui questo ultimo album finisce, perché “Finchè rido resto in piedi, al futuro sputo in faccia“. E alla fine non rimane che rendersi consapevoli di essere tutti sulla stessa barca, ciascuno con le “sue corde da sciogliere“, e presenti lì, come ci dicono gli stessi Fask, “Sarai uno di noi”. E sì, sono proprio uno di loro, questo penso ormai racchiuso tra schiene più alte di me e scapole altrui che aderiscono al mio petto, sempre più davanti a quel palco, mentre vedo Aimone fondersi con la sua stessa chitarra nel riff e nell’inno finale. Un istinto di felicità mi fa rendere conto di come veramente loro abbiano usato “ogni goccia di sudore” per noi, come lo stesso cantante dichiara nel corso del concerto. Dopo qualche minuto di pausa (anche per loro cinque che si dirigono dietro il palco) la musica ritorna. Da qui comincia ad instaurarsi un collegamento sempre più diretto tra band e pubblico. Il cantante chiede cortesemente al pubblico di intonare la prossima canzone (TROIA) che, dopo i quattro riff di chitarre ben riconoscibili, esplode nel coro e nel pogo.
Il rapporto con la gente in sala si fa ancora più diretto nel momento in cui Aimone decide di dilungarsi in una breve chiacchierata di ringraziamento a tutto lo staff, a loro stessi, ai fan, per poi ritornare con la formula ormai consolidata nella frase: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids, e veniamo da Perugia!”, seguita da un carnevale di applausi chiesti gentilmente in precedenza. Aimone ringrazia ancora una volta, abbracciando i suoi colleghi, umile come un bambino, quasi sempre incredulo di un successo arrivato a loro così inaspettatamente (ma a mio avviso tutto ben meritato sullo sfondo della musica contemporanea italiana). Si prosegue con la famosa A COSA CI SERVE ed il primo singolo di Alaska: COME REAGIRE AL PRESENTE. “Ricordatevi di noi fra trent’anni, che avremo bisogno di voi” cita il ritornello della canzone. Ma se questa è la richiesta del gruppo, noi non possiamo far altro che riproporgliela affinché non ci facciano aspettare troppo prima che si facciano rivedere sui palchi. Per fargli sapere che siamo soprattutto noi ora ad aver bisogno di loro. Aimone finisce la canzone non in stage diving (come invece ha fatto durante altre due o tre brani) ma allungandosi verso il pubblico stringendo mani di gratitudine. Mi ci metto anch’io e stringo forte la sua, semplice nel contatto, così umana. Seppur non abbiano fatto nessuna canzone del loro primo album, la band umbra non ha deluso le mie aspettative.
Torno a casa sudato e completamente distrutto, assieme alle mie due amiche. Ma mi sento rinnovato, pronto ad affrontare il ritorno alla pesante routine di tutti i giorni. Sembra proprio che la medicina abbia fatto il suo effetto.

THE HATEFUL EIGHT- L’ottavo film di Quentin Tarantino

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La Cineteca di Bologna, insieme al cinema Arcadia di Melzo di Milano e al Teatro 5 Cinecittà di Roma, ha avuto la possibilità di trasmettere in anteprima in versione 70mm (durata di 187 min) e in lingua originale l’ultimo lavoro del regista Quentin Tarantino, che uscirà nelle sale italiane il prossimo 4 febbraio. La cosiddetta versione “Ultra-Panavision 70” è un formato di pellicola che garantisce un’immagine più dettagliata, e nel corso della storia del cinema solo pochi film sono stati girati e trasmessi in questa versione (come Ben Hur). Ispirandosi alla tradizione del ‘roadshow’ rispetto alla versione che verrà trasmessa doppiata, questa prima proiezione in sala è più lunga: è preceduta da un intro musicale (Overture), ha un intervallo tra il primo e il secondo tempo, che riprende con un riepilogo fatto dalla inconfondibile voce fuoricampo del regista stesso e infine contiene alcuni dialoghi poi tagliati nella versione generale. La singolare scelta operata dal regista è stata quella di ritornare sul grande schermo in modo grandioso riproponendo tecniche desuete, e data la sua risaputa passione per gli ‘Spaghetti western’, come il penultimo film Django Unchained, anche questo ottavo lavoro intende omaggiare il genere.
La storia è ambientata pochi anni dopo la guerra civile americana, nelle sperdute montagne del Wyoming, dove il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) è diretto su una diligenza a Red Rock per consegnare la prigioniera latitante Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh), e farla giustiziare, ottenendo la ricompensa della taglia sulla sua testa pari a 10 mila dollari. Attanagliati da una bufera di neve, sulla strada intrecciano i loro destini con quelli del maggiore Marquis Warren (Samuel L. Jackson), divenuto anche lui cacciatore di taglie, e del sedicente neosceriffo Chris Mannix (Walton Goggins). I quattro con il loro cocchiere O.B. per trovare riparo si rifugiano all’emporio di Minnie, dove ad attenderli non c’è la rispettiva proprietaria ma altri quattro soggetti sconosciuti. Bob, un messicano che gestisce l’emporio in assenza di Minnie, il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth), il mandriano Joe Gage (Michael Madsen) e il generale Sandford Sandy Smithers. Da questo momento gli otto cominciano a conoscersi, volenti o nolenti, consapevoli di dover passare lì tutto il tempo necessario in attesa che la bufera smetta, ma la situazione subisce qualche colpo di scena che ribalta completamente i piani.
I tre quarti del film, a parte l’inizio e qualche sporadico flashback, sono ambientati nella stessa stanza, richiamando fortemente lo spettacolo teatrale. Il dialogo fa da padrone e in alcuni momenti la scena è abbastanza statica, sino a quando non assume tinte noir ma infine pulp, poiché si tratta pur sempre del pungente Tarantino. Di certo infatti non mancano i suoi tocchi inconfondibili: a partire dai caratteri in grassetto giallo dei titoli di testo e di coda, la suddivisione in capitoli, le inquadrature dal basso, l’attenzione posta ai dettagli, sino ai dialoghi sprezzanti e paradossalmente comici che hanno la sua firma. E soprattutto il cast, formato da alcuni dei suoi prediletti. Primo fra tutti Samuel L. Jackson, protagonista impeccabile, che è alla sua sesta collaborazione con il regista; poi Jennifer Jason Leigh, Michael Madsen e Tim Roth, che ricorda vagamente nell’abbigliamento e nella gestualità il dr. King Schultz di ‘Django Unchianed’. Ma troviamo anche Kurt Russel, che non compariva in un suo film da ‘Grindhouse – A prova di morte’ (2007).
La volontà di lasciare il segno è data anche dal fatto che, dopo 40 anni di assenza dal western, la colonna sonora è stata composta da Ennio Morricone (insignito di un Oscar alla carriera e quest’anno di un Golden Globe), che scandisce alcuni momenti di tensione in modo originale.
Non è stato all’altezza delle aspettative perché rispetto ai suoi film precedenti crea suspance e attesa ma alla fine l’intreccio narrativo è sostanzialmente ordinario. Col titolo del film si dà anche l’illusione che i personaggi siano posti sullo stesso piano e siano tutti protagonisti, come generalmente avviene nei suoi film, ma in realtà l’impressione che si ha è che ci sia un ruolo centrale dato ad un paio di attori, le cui rispettive storie vengono maggiormente approfondite, mentre gli altri restano essenzialmente in disparte. Ad ogni modo non delude per la sua singolare e assurda comicità, ed è apprezzabile l’ambientazione quasi teatrale, nonostante il ritmo lento e claustrofobico che così assume la storia, tenendo conto che verso la fine non manca l’azione tipica tarantiniana. La voce originale ha comunque dato un valore aggiunto, ed è stato un privilegio vederlo sul grande schermo in questo formato senza doppiaggio. È più consigliabile agli amanti del pulp che a quelli del western e, al di là della ricercatezza delle tecniche con cui è stato girato, non è eclatante a livello contenutistico. Ha cercato di evolversi e di distinguere il suo lavoro in modo originale, ma forse i suoi fan sono abituati ad un Tarantino diverso: non è detto che il cambiamento sia comunque da biasimare.

Quo vado?!

 

L’ho visto. Non me ne vergogno, sono stato al cinema e l’ho visto. Tra i 22 milioni d’incasso di “quo vado?” 7 euro sono i miei.
Mi sono accostato al film con sufficienza e senza troppe pretese, Luca Medici, in arte Checco Zalone, non mi ha mai fatto impazzire, ritenuto degno di un Colorado qualsiasi più che del più colto Zelig, questa macchietta comica nella mia testa è sempre stata accomunata alla risata di pancia, al doppio senso.

Eppure devo ammettere che “Quo vado” non è un cinepanettone, sono lontani i tempi nei quali le risate erano causate da una flatuleimagenza di boldiana memoria, ora alla gente serve di più. Come svegliati brutalmente dall’ovattata era berlusconiana, ci riscopriamo realisti e concreti, non più mitiche vacanze a Cortina o sul Nilo ma concretissimi posti fissi da non perdere a costo di rinunciare all’amore (vero must di ogni commedia italica).
Zalone si scopre brutale e impietoso, e lo fa tramite la sua unica arma: la mediocrità.
Il personaggio è mediocre, meschino, perfettamente integrato in quei meccanismi che hanno retto la prima/seconda Repubblica (non a caso dedica l’unica canzone propria del film al rimpianto dell’era democristiana).
Gli impiegati pubblici ne escono con le ossa rotte, i radical-chic terzomondisti ecumenici altrettanto, preti antimafia e boss ‘ndraghetisti vengono dipinti con la stessa ferocia dissacrante durante la proiezione.
È l’esaltazione del medio man, (altro…)

NARCOS: PLATA o PLOMO

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Si è parlato a lungo del recente approdo in Italia della piattaforma statunitense di streaming Netflix che vanta la produzione di serie TV del calibro di quelle partorite dalla rinomata HBO. Una di queste è sicuramente Narcos, la cui prima stagione da dieci episodi è ideale per chi non ama le serie interminabili e prolisse, e che si distingue dalle solite biografie sui criminali.
Tutto ruota intorno alla figura del più famoso narcotrafficante della storia, il colombiano Pablo Emilio Escobar Gaviria (interpretato da Wagner Moura). Le vicende che hanno portato un semplice contrabbandiere di Rio Negro ad insinuarsi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90, nelle maggiori sfere del potere internazionale diventando il più ricco e temuto produttore e trafficante di cocaina, sono narrate in modo realistico e fedele dalla efficace voce fuoricampo dell’agente della DEA -Agenzia Federale Antidroga statunitense- Steve Murphy (interpretato da Boyd Holbrook). Questi, insieme all’agente Javier Pena (Pedro Pascal) fa parte del ‘Bloque de Busqueda’, un’unità speciale della polizia colombiana, la quale rappresenta l’unica speranza che all’epoca ci fosse qualcuno di onesto effettivamente intenzionato a porre fine all’espansione di Escobar.
Ciò che affascina è innanzitutto l’autenticità dei dialoghi, ottenuta mantenendo la recitazione in lingua originale (Spagnolo) e doppiando unicamente le parti in principio in Inglese. La veridicità è inoltre garantita dalla ricostruzione delle ambientazioni e dall’alternanza di fiction e di immagini o video autentici risalenti a quel periodo, i quali permettono allo spettatore di non dimenticarsi che si tratta di fatti realmente accaduti, così evitando il rischio di cadere nel frequente cliché di mitizzare o idealizzare criminali, talvolta consentito dalla finzione cinematografica.
Il potere ottenuto da Escobar e dal suo cartello di Medellín in così breve tempo -deteneva l’80% della produzione di cocaina e il 30% delle armi che circolavano illegalmente, incassando circa 60 milioni al giorno- si spiega con la sconvolgente e dilagante corruzione di politici e forze di polizia, che gli ha consentito di eliminare qualsiasi ostacolo alla costruzione del suo miliardario impero della droga, permettendogli di crearsi un’immagine popolare di benefattore (storico il suo appellativo di “Robin Hood”) e di farsi eleggere anche deputato del partito liberale, nonostante la sua responsabilità in numerosi assassini di ufficiali, agenti, politici e civili.
Contemporaneamente allo sviluppo delle vicende della sua vita, tra le guerre contro il cartello rivale di Cali e la DEA e la sua lotta volta ad abolire l’estradizione negli USA (“meglio una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti”), si sviluppa anche la storia della Colombia stessa, attanagliata dai frequenti rapimenti ad opera dei guerriglieri comunisti facenti parte dell’organizzazione M-19, che legandosi per un periodo anche al narcotraffico e a don Pablo, si sono resi complici di attacchi e stragi.
Il ritmo della storia alterna momenti rilassati ad altri incalzanti e concitati, e la stessa figura di Escobar è costruita in modo complesso: è un criminale spregiudicato e non mancano scene crude di omicidi od esecuzioni a sangue freddo; ma allo stesso tempo è una persona in cerca di riscatto, fortemente legato alla sua terra e alla sua famiglia, che ha costruito le sue ricchezze dal nulla e ha cercato di comprare tutto, persone comprese, per guadagnarsi rispetto e riconoscenza.
Tutto il cast di attori è il risultato di una scelta azzeccata, a partire dagli agenti federali (già noto ai più Pedro Pascal ne “il Trono di Spade”) sino agli altri patrònes del cartello nonché ai personaggi politici coinvolti, ma gioca un ruolo essenziale l’impeccabile interpretazione di Wagner Moura, la cui collaborazione con il regista Josè Padilha aveva dato i suoi frutti già in passato (“Tropa de Elite”, Orso d’Oro per il miglior film al Festival di Berlino del 2008). È decisamente una serie ben riuscita che permette di figurarsi un quadro veritiero sull’origine del narcotraffico e sulla storia di un paese segnato dalla sua influenza.

Il Ponte delle Spie

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Steven Spielberg e Tom Hanks, due nomi che a Hollywood fanno letteralmente impazzire solo a sentirli pronunciare. Due icone del cinema, due tra le figure più importanti dello spettacolo degli ultimi tempi che, a distanza di ben undici anni da The Terminal, tornano in stato di grazia in questo faticoso e ammaliante progetto storico.
Per la prima volta nella sua lunghissima carriera Steven Spielberg affronta il tema della Guerra Fredda traendo ispirazione da un fatto realmente accaduto durante uno dei momenti più delicati della storia del secolo scorso, l’edificazione del Muro di Berlino nel 1961. Ad aiutarlo nella sua impresa storica ci pensano i fratelli Coen, che con fare arguto e mano esperta firmano una sceneggiatura solida ed intelligente, condita da una giusta dose di ironia e (a tratti) leggerezza.
La trama del film ruota attorno alle vicende dell’avvocato James Donovan (Tom Hanks) incaricato di difendere la spia russa Rudolf Abel (Mark Rylance), in un momento in cui le due superpotenze erano in procinto di annientarsi l’un l’altra. Donovan, armato di lealtà e spiccato buon senso, si impegna anima e corpo per salvare il suo assistito finendo per essere coinvolto in una losca trattativa di scambio tra lo stesso Abel e Francis Gary Powers, un ufficiale americano caduto vittima dei sovietici durante un attacco aereo. Il senso del dovere e il suo ferreo attaccamento alla leggi della democrazia americana saranno preclusivi all’eventuale instaurarsi di un conflitto a fuoco tra le due super potenze.
Il Ponte delle Spie è un film solido e compatto costruito su tre blocchi narrativi ben definiti e perfettamente caratterizzati. La prima parte, ambientata interamente negli Stati Uniti, ruota attorno alla cattura e al processo riguardante la sorte della spia russa, all’interno del quale si inserisce l’insolito rapporto amichevole che legherà quest’ultimo al suo avvocato difensore. Nella seconda parte si esplora il gelo e l’inospitalità della titanica Berlino est e vede i nostri protagonisti alle prese con le problematiche trattative di scambio tra i prigionieri di entrambe le fazioni. Il finale del film costituisce l’ultimo blocco narrativo, l’assoluzione da tutti i peccati e il ritorno in patria del nostro eroe, stanco ma appagato dai suoi sforzi.
A stupire è l’impressionante abilità tecnica con la quale Spielberg confeziona tale prodotto. Un film maturo e attento dotato di una regia solida e ispirata che non cede nemmeno nei momenti peggiori. Sarebbe sufficiente la sequenza iniziale della cattura di Abel, giocata astutamente sui silenzi e su un montaggio precisissimo, per comprendere la portata dell’opera e godere di una straordinaria lezione di regia da parte di uno dei più influenti cineasti del mondo. E laddove la regia fa passi da gigante, il comparto scenografico, probabilmente l’aspetto più curato di tutto il film, vince su tutti i fronti. SS si avvale dei migliori collaboratori per la fedele riproduzione di una Berlino est pressoché perfetta, curando nel dettaglio ogni particolare e sfumatura resi ancor più credibili dalla fotografia glaciale del fido compagno Janusz Kaminski. Spielberg riesce nell’impresa di raccontare il conflitto tra i due blocchi senza spingere troppo l’acceleratore sul buonismo e sulle false retoriche tipiche del suo cinema ma concentrandosi sull’ambivalenza, perfettamente bilanciata, che caratterizzava entrambi gli schieramenti. Il regista non risparmia nessuno e non ha nessun timore a puntare il dito contro le menzogne e i soprusi degli Americani né a farci empatizzare pienamente con il personaggio di Rudolf Abel, altra anima del film. Interessante soprattutto il legame tra l’avvocato e il suo assistito, basato su una reciproca ammirazione che fino alla fine si mantiene viva e costante lasciandoci forse intuire quanto la rivalità che separava i due paesi fosse sinonimo di estrema incomunicabilità e di un pregiudizio infondato, dovuti a previi e stupidi accordi politici da parte dei rispettivi governi. Donovan e Abel sono degli uomini, sono persone ancor prima di essere un avvocato o una spia e in quanto tali sono stati così forti da eliminare le barriere culturali imposte dalle loro società e a far nascere tra di loro un’armoniosa intesa.
Ma Il Ponte delle Spie è lungi dall’essere un film perfetto e lo dimostrano alcune cadute di tono in certi momenti e un finale mieloso e fin troppo irritante dove la tanto odiata vena spielberghiana viene fuori. Più che la conclusione di un blockbuster hollywoodiano sembra di trovarci di fronte a uno spot della Mulino Bianco con tanto di luce sparata a mille e una retorica vergognosa su quanto gli Stati Uniti siano un paese giusto e sicuro. Una pecca enorme che grava (non di poco) sull’economia del film ma che non impedisce a Spielberg di confezionare un prodotto notevole e di difficile fattura, compito che riesce solo ai mostri sacri come lui.

Show me a hero…and i’ll write you a tragedy

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Oscar Isaac è Nick Wasicsko in Show me a hero

Consiglio vivamente la visione di “Show me a hero”, miniserie di sei episodi (o meglio: parti) targata Hbo. La consiglio in particolar modo a chi ha una passione politica, di qualsiasi colore. E non solo.

Mostrami un eroe e ti scriverò una tragedia, sentenziava Francis Scott Fitzgerald e la serie, scritta da David Simon, dipinge proprio una figura poco nota ai più ma degna di essere conosciuta. Ed è quindi proprio quel Simon, creatore della celebre serie “The Wire”, vera e propria epica moderna con protagonista la città di Baltimora, che ci conduce in un nuovo contesto urbano con i suoi complessi protagonisti; personaggi tra i quali si impone la tragica figura di Nick Wasicsko, ventott’enne consigliere comunale e poi sindaco di Yonkers, città di duecentomila abitanti dell’area metropolitana di New York.

Da Baltimora a Yonkers: a cambiare è lo sfondo ma non l’intensità del dramma. Protagonista è sempre la città, creatura vivente con la sua complessa rete di interessi e rapporti personali. Ancora una volta Simon è bravo nel saltare da un livello all’altro, dal piano individuale delle storie dei singoli (ciascuno con la sua vita e i suoi problemi particolari) al piano dell’interesse generale, del “politico”. Questo continuo cambio di prospettiva viene compiuto con naturalezza, senza mai scadere nel retorico ma lasciando che la somma delle singole storie si accompagni al principale tema socio-politico.

Tutto parte da una sentenza emessa da un giudice federale degli Stati Uniti che condanna la città di Yonkers a costruire 200 case popolari (da assegnare ai cittadini con basso reddito e altre situazioni disagiate). Questa sentenza esplode come una vera e propria bomba sociale e mette la cittadinanza, quella bianca e prevalentemente borghese, in stato d’allarme: nessuno vuole che degli “sporchi negri” vengano a vivere nei quartieri dal prato ben curato, dai barbecue e dal buon vicinato.

E così la Politica, i consiglieri comunali, l’amministrazione e il sindaco, vengono a trovarsi in mezzo ad un terribile fuoco incrociato: da una parte la Magistratura e la sua sentenza da rispettare ad ogni costo (pena pesanti sanzioni che metterebbero la città in bancarotta), dall’altra il popolo arrabbiato e vendicativo che minaccia la rivolta.

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THE MARTIAN di RIDLEY SCOTT

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The Martian, ovvero come salvare il malcapitato Matt Damon dalle grinfie malefiche del tanto amato ed odiato pianeta rosso, vale a dire Marte. Si tratta dell’ultima fatica del grande ed immenso Ridley Scott, regista di punta del mondo hollywoodiano degli ultimi (quasi) quarant’anni, tanto amato e tanto odiato per via dei suoi immensi e stratosferici successi, dei suoi capolavori esagerati e di quel talento sopraffino capace di regalare, anche ai più duri di cuore, spaziali e struggenti emozioni che solo i giganti come lui sono in grado di donare. Non c’è da stupirsi, quindi, se un mostro sacro come Ridley Scott sia in grado di muoversi con destrezza e audacia tra un genere e l’altro in ogni suo film, mostrando tutta la sua straordinaria abilità di maestro e indiscusso profeta del cinema. E non c’è nemmeno da stupirsi che sia proprio la fantascienza il campo in cui il regista inglese abbia avuto maggior esito; campo in cui, volente o nolente, risulta più a suo agio che altrove. Con The Martian, però, ci troviamo di fronte a un’opera diversa, un’opera gaia e spensierata, priva del cinismo e della sfiducia caratteristiche delle sue esperienze passate. Siamo lontani anni luce dall’universo claustrofobico ed inquietante creato in Alien e proseguito tre decenni più tardi con Prometheus, così come siamo completamente fuori strada se pensiamo di trovarci tra le strade dalla tetra e inospitale Los Angeles del 2019 popolata dai replicanti dell’intramontabile Blade Runner. The Martian è una ventata di aria nuova e fresca che rompe i ponti con il passato e con i canoni tipici del cinema scottiano in favore di una visione decisamente più rosea e ottimistica nei confronti della specie umana.
Non è del tutto errato voler cercare a tutti i costi parallelismi con altre pellicole di fantascienza (e non) uscite di recente e appare del tutto spontaneo il tentativo di accostare l’opera di Scott ad altre grandi opere, così da trarne quante più somiglianze e differenze possibili. A lungo si è discusso e riso abbondantemente riguardo la tragica sorte spettata a diversi dei personaggi che nel corso della sua carriera il protagonista Matt Damon ha dovuto interpetare. Hollywood è sempre più convinta a volerlo salvare, ma alla fin fine da che cosa? Di certo non bisogna possedere occhi esperti per capire che questo film riunisce al suo interno, ben shakerati tra loro, elementi comuni all’Interstellar di Christopher Nolan, al Gravity di Alfonso Cuarón e al CastAway di Robert Zemeckies. Parliamo di salvezza, di istinto di sopravvivenza e di capacità di adattamento a luoghi a noi ostili. Cosa faremmo se ci trovassimo in situazioni simili? Queste belle pellicole esplorano efficacemente la condizione dell’uomo solitario abbandonato a sé stesso che non può far altro che affidarsi alle esigue risorse che possiede. Il Matt Damon di The Martian altri non è che un dottor Mann simpatico e meno stronzo, condivide la stessa sorte di naufrago in una terra deserta e inesplorata proprio come Chuck Noland ed è mosso da quel bisogno, quell’istinto di sopravvivenza che gli permetterà di salvarsi esattamente come Ryan Stone.
Così come in altri film anche Ridley Scott si cimenta nell’esplorazione e nella scoperta di una realtà che a noi rimane ancora ostile e sconosciuta. Attraverso un faticosissimo viaggio ci conduce tra le rovine di Marte mostrandoci la sua inospitale bellezza, regalandoci dei campi lunghissimi mozzafiato e straordinarie panoramiche che riproducono alla perfezione i voluminosi crateri rocciosi e le oceaniche distese di sabbia rossa. Impossibile non rimanere impietriti di fronte a uno spettacolo del genere, bellissimo e dannoso quasi come si stessero osservando vorticose onde infrangersi sugli scogli sotto ai nostri occhi. Guardando questo film si ha un po’ come la sensazione che Marte e l’universo stesso non risultino più così irraggiungibili. La tecnica non l’ha di certo persa il nostro Ridley e a 78 anni suonati dà ancora una volta dimostrazione della sua sconfinata bravura e superiorità registica che farebbero certamente morire di invidia qualsiasi mestierante di trent’anni. E senza di lui non avremmo avuto filmoni come Gravity o come l’immenso Interstellar, perchè, diciamocelo chiaro, se Cuarón e Nolan sono quelli che sono è anche un po’ merito di Ridley Scott.

Sorge però spontaneo, dopo tutto questo eterno vociferare, domandarsi se questo The Martian sia effettivamente un film riuscito o meno. Ma è proprio qui che i primi problemi vengono inevitabilmente a galla. Mi trovo combattuto ogni volta che mi appresto a dare un giudizio critico a un film di Ridley Scott dal momento che, trattandosi di uno tra i miei registi preferiti in assoluto, soffrirei nell’ammettere che il più delle volte qualcosa è andato storto e invano cercherei di salvare il salvabile, finendo per lasciarmi condizionare dalla tipica espressione “è un film suo, allora è bello”. Purtroppo non è sempre così e anche con questa ultima fatica targata Marte ho avuto le mie difficoltà a lasciarmi andare e ad essere il più possibile imparziale. Posso dire che ce l’ho fatta e ammetto che, al termine della visione dell’estremo salvataggio di Matt Damon, sono riuscito a chiarirmi le idee e a trarre le valutazioni finali su questa pellicola. Se si prendono in considerazione alcuni aspetti il film funziona alla grande, girato ovviamente molto bene e visto sul piano del mero intrattenimento risulta a dir poco efficace. Ma se pensiamo all’opera nel complesso noteremo che molti degli aspetti che la compongono fanno spiacevolmente storcere il naso.
Salvare il salvabile. Si ma, cosa salvare? Le note positive sicuramente non mancano e un plauso va indubbiamente al lavoro svolto dagli attori e in particolare al superlativo Matt Damon che è stato capace di reggere buona parte della durata del film sulle sue solide spalle. Così come non si può non elogiare tutti gli aspetti inerenti al comparto tecnico, dalla straordinaria fotografia dai toni bollenti all’efficace montaggio alternato che per alcuni sprazzi, nello specifico i momenti che vedono la Chastain elevarsi a suprema salvatrice di uomo/mondo, richiamava il già citato Interstellar. Non vanno dimenticate le incredibili scenografie, la regia pulita e precisa e, più di tutto il resto, l’incredibile sequenza del salvataggio quasi impossibile di Mark Watney nello spazio, intrisa fino al midollo di pathos e di quella energica suspense (degna solo del miglior Hitchcok) in grado di farmi rimanere incollato e palpitante alla poltrona del cinema.
Ma se le note di merito non mancano, quelle di demerito abbondano alla stragrande finendo inevitabilmente per sminuire l’economia del film. L’opera gaia e spensierata, lontana dal cinismo tipico a cui il buon Scott ci ha sempre abituati, è (ahimè) impregnata di inutili quanto irritanti dialoghi giocosi e bizzarri mediante i quali i nostri protagonisti si divertono ad occuparsi dell’apparente disagio di Mark Watney, reduce solitario di un’avventura lontana milioni di anni luce. Si perché più che dare l’idea del malessere esistenziale, giustamente avvertito in una ipotetica situazione di questo tipo, il nostro eroe sembra stare vivendo un interminabile vacanza in un luogo desolato e solitario del nostro mondo. Niente lo scuote particolarmente, al contrario sembra affrontare gli atroci avvenimenti con serenità e spensieratezza. Il sorriso a trentadue denti non gli manca mai nemmeno quando rischia di morire soffocato o quando il suo unico sostentamento vitale, e qui verrebbe da chiedersi perché proprio la patata, quasi svanisce del tutto. Watney vive questa nuova esperienza tra ingenuità e sciocche risate e sebbene sia conscio del fatto che la sua vita potrebbe terminare da un momento all’altro la cosa sembra addirittura eccitarlo. Del tutto assente l’approfondimento psicologico del protagonista, l’analisi quanto mai necessaria di una mente in stato di shock traumatizzata da un evento dalle conseguenze disastrose. Non c’è spessore, non si avvertono la paura, il timore, l’ansia e la preoccupazione né tanto meno il malessere a cui si è soggetti vivendo in condizioni simili. Le seccature principali, come si evince, sono proprio a livello di scrittura. Ridicola, scherzosa, giocosa, imbarazzante e dai toni maledettamente troppo leggeri. E l’immenso sacrificio della ciurma per salvare la vita del loro amico marziano è trattato alla stessa stregua dei peggiori film di Michal Bay, ovvero tutti. Non è ammissibile, inoltre, mischiare tra di loro momenti di ingegnosa drammaticità a scanzonati attimi di smisurata idiozia conditi in tutto e per tutto da motivi disco anni ’70 quanto mai fuori luogo. E vedere un divertito Matt Damon muoversi a ritmo di Hot Stuff mentre bello e gasato guida il suo bolide tra le distese di Marte è qualcosa che fa letteralmente accapponare la pelle. Ma in fondo è un film che mira al puro intrattenimento e non si preoccupa di questioni da cervelloni smisurati. Sarà anche così ma la delusione c’è e non è indifferente.
Cosa è successo a Ridley Scott? Sembra che da qualche anno a questa parte non riesca più a beccarne una. Apprezzabili gli sforzi di riportare in auge miti del passato ed epiche avventure bibliche ma qui siamo lontani anni luce da considerare questo The Martian un gran film. Un prodotto riuscito in parte, ben fatto e ben girato, confezionato da un regista che, nonostante le delusioni, ha fatto la storia del cinema. Ma allora dove è finito lo Scott di Alien e di Blade Runner? Che fine ha fatto quell’immane talento di un uomo in grado di trasformare le immagini in poesia? Nonostante la sua carriera stia giungendo ormai alla fine io continuo a sperare e a sognare, ma potrebbe darsi, usando il condizionale, che la sua smisurata grandezza si stia poco a poco perdendo come lacrime nella pioggia.

Recensione “La luna e i falò” – Cesare Pavese

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“La luna e i falò” è un romanzo ambientato nelle Langhe che Cesare Pavese scrisse nel 1950. La storia, narrata dal protagonista denominato Anguilla, un emigrante tornato dall’America dopo la Liberazione, ha come tema centrale i ricordi del personaggio, dal momento in cui egli era stato adottato. Anguilla parla della sua infanzia passata a lavorare come contadino fino a quando non aveva deciso di partire per l’America,e ne parla con Nuto, suo fidato amico. Connotato di affetto e tenerezza è anche il rapporto d’amicizia che Anguilla stringe con Cinto, un ragazzino inconsapevole del mondo che vi è fuori dal paese, che sicuramente gli ricorda se stesso da giovane. Valori come la famiglia, l’amore per la propria terra, l’amicizia risaltano in primo piano, come se stessimo guardando un quadro, e contrastano con lo sfondo di guerra e miseria che Pavese ci narra, con mano sensibile ma decisa, come solo lui sa fare. Su tutto, emerge il desiderio del personaggio principale di andare via, per migliorarsi prima di tutto come persona. Accade di desiderare cose del genere, a quell’età e non solo. La realtà di paese è una realtà semplice, fatta di poche pretese se non il vestito nuovo da sfoggiare alla festa patronale; è una realtà di sagre popolari, folklore, chiese che pullulano di gente non solo a Natale o Pasqua ma ogni domenica perché si sa, la realtà di paese è una realtà religiosa, tra le varie cose. Tu, però, non ti rassegni che la tua realtà debba finire tra le mura benedette, né debba essere relegata al campo di calcio dell’oratorio. Quando ho letto questo romanzo, ho pensato che quelle parole fossero state scritte solo per me, per un’unica lettrice. Quelle parole squarciavano e rompevano il silenzio e la monotonia ben scandita dall’orologio del comune. Andare via era, per me, una boccata d’aria pulita. Un sentirsi finalmente padrona di me stessa:non ero più un’anonima ragazzina che trascinava se stessa tra inverni senza fine passati sempre nel solito bar ed estati caratterizzate dalle chiacchiere delle comari sedute in cerchio davanti all’uscio di casa, alle sette di sera. Gli amici, la famiglia me li portavo sempre dentro, inutile dirlo; erano quei pezzi di cuore mobili, che partivano con me per Bologna in una macchina carica di troppe ansie materne e troppo cibo. Non pensavo a quello che diceva Cesare Pavese, saggiamente. A me non “serviva” un paese, perché per me alla definizione “paese” c’era l’indossare i paraocchi, così come facevano i miei compaesani su molte cose. C’è una cosa, però, che fino a qualche tempo fa non volevo ammettere, per stupido orgoglio. Poi però,siccome tutto capita sempre per caso e noi diamo un senso a ciò che accade, o almeno ci proviamo, ecco che mi ricapita di leggere quel passo famoso de “La luna è i falò”. Io ora non so se si chiami “senso di appartenenza a un qualcosa” o se, più semplicemente, si tratti di nostalgia; so di essermi sentita parte di qualcosa, che non aveva nulla a che fare con Bologna, con la me di adesso. Ho ripensato alle vecchie case bianche, al sole che batte forte sulle pietre,alle tracce lasciate dalla storia e a quanto la mia terra fosse povera e falsamente ossequiosa per sopravvivenza (e ogni tanto lo è ancora). Ho ricordato tutta la mia infanzia, la campana che segna i pasti,il dialetto delle comari che, in cerchio, spettegolano si, ma un saluto non te lo negano mai e se ti fermi a scambiare quattro chiacchiere sta’ pur certo che di te parleranno bene. Ho ripensato al valore dell’ospitalità,che è più un valore di contenuto che di forma; alle feste un po’ rumorose ma coloratissime; alla banda di paese, ai matrimoni che sono sempre i migliori perché tutto è migliore, pure l’aria anche se è sporca a causa recente apertura di una discarica, diventa migliore,secondo il nostro migliore punto di vista. Allora ho dato ragione a Pavese, completamente. “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andare via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Quel paese aveva aspettato Anguilla in silenzio per tanto tempo, fiducioso di un suo ritorno. Anche il luogo in cui ero cresciuta e che mi aveva formato c’è sempre stato ad aspettarmi. C’è stato a Natale, con quell’albero striminzito, le strade vuote e buie e le case in cui si giocava a carte; a Pasqua, con l’assoluzione di tutti i peccati. C’è stato in estate, con le sue cicale, i gelati mangiati in fretta per non farli sciogliere, il mare a venti chilometri. C’è stato e ci sarà sempre perché l’odore della tua terra non te lo togli di dosso. È un legame viscerale e primitivo,ma soprattutto è un legame inscindibile che in parte ha inciso, nel bene e nel male,su ciò che sei.

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