L'UNIversiTÀ

Le opinioni

Tratti comuni della non comune sensibilità

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La sensibilità, benché assolutamente considerata sia disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è che necessariamente l’uomo sensibile, sentendo più vivamente degli altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri”.
Questa citazione di Leopardi sembra cogliere in sé l’essenza stretta dell’essere sensibili: la sofferenza per l’estremo sentire la vita buttare addosso all’anima macigni, costantemente. Ma cosa comporta l’essere sensibile?
Nel momento in cui la sofferenza è stata esaltata, essa è perennemente in contatto con chi è dotato di questo modo di percepire il mondo. Qualsiasi dettaglio, da un’espressione ad un modo di gesticolare, nonché uno sguardo, un sorriso, un suono, ogni piccolo elemento viene percepito come un tuffo nel petto in grado di scatenare un vento tormentato, che ha come seguito una non indifferente forma di ansietà, una sorta di paranoia, uno squilibrio interiore e un’alienazione mentale.
Tutto ciò genera solitudine: l’essere sensibile fugge dal quotidiano di fronte a tale fardello, e può farlo in modo manifesto, rifiutando di compiere le azioni scandite dal ritmo della vita di ogni giorno, o in maniera nascosta, riempiendo le giornate di infinite favole, cosicché il tempo per subire sia riempito in ogni minuto, annullato. Poiché per il sensibile nulla è affare da poco: occorrono un rifugio sicuro ed un’apparenza dura, affinché il prossimo non sappia. Diffidare quindi di chi sbatte in faccia a chiunque sensibilità (fittizia), perché quella reale si nasconde negli angoli più remoti, teme di essere ferita. E spesso accade di bruciarsi al punto tale da rifiutare la vita, la mente non riesce più ad elaborare l’eccesso e va fuori di senno, fa scattare meccanismi di terrore che, per difesa, allontanano da ogni forma di vita: assenza di reazioni, malattia, afflizione di chi eccessivamente subisce il sapere che arriva dal sensibile, profondo, spontaneo, non cercato, che assale in silenzio.
Però c’è dell’altro: il sensibile che riesce a farsi forza coglie le sfumature più intense ed interessanti dell’esistenza, vede la bellezza profonda del tutto, il dettaglio che fa del nulla una favola da raccontare, la comicità nascosta che rende lo scorrere del tempo una risata, ma soprattutto l’empatia silenziosa con le persone, la comprensione che avvicina al prossimo e dona profondità nei rapporti umani.
Auguro ad ogni persona sensibile di riuscire a vincere il pessimismo dato dal dolore, di controllare la propria mente senza lasciarsi trasportare irrazionalmente dalla distruzione del troppo sentire, ma in particolar modo di cercare in sé la forza di usare tale dono per cogliere la bellezza e donarla a chi gli sta intorno.

Il nostro posto nel mondo

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(Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1986 – ‘Paesaggio Italiano’ (1980-1992)”

Nell’era del digitale la carta stampata acquisisce ancor più valore, perché è rara e ricercata; infatti, la pazienza e la passione con cui nasce e cresce questo giornale ne sono la conferma. Non è una testata nazionale, non ha una tiratura importante, eppure è per noi un’opportunità preziosa per agire da uomini liberi. Non abbiamo paura di pensare, di esprimere un’opinione, di scegliere da che parte stare.
Coltiviamo dubbi e ci mettiamo in discussione, pensando in grande nel nostro piccolo. Continuiamo a ricercare i nostri maestri senza mai smettere di essere noi stessi. Abbiamo l’ambizione di dialogare col lettore fino all’ultima parola per informarlo, incuriosirlo, anche indignarlo, se lo riterrà opportuno, purché non resti indifferente.
L’UNIversiTA‘ è una finestra aperta da cui osserviamo il mondo con il nostro sguardo per cercare di capirlo e per mantenere una promessa che inconsciamente gli abbiamo fatto: vedere oltre che guardare. Non vogliamo rinunciare alla potenza delle parole pure e vere che possono cambiare i destini; alcune possono essere semplici sostantivi, altre contenitori speciali come i dubbi e i sentimenti, la speranza e il coraggio.
Ci sentiamo responsabili di ognuna di loro.
E’ faticoso – forse impossibile – navigare nel mare in tempesta dell’attualità che ad ogni istante si rinnova e rimanere aggiornati è una sfida che non sempre siamo in grado di vincere.
La temperatura della nostra società sale e scende a modo suo e noi dobbiamo essere consapevoli di non conoscere – e non poter conoscere – tutte le verità che, invece, vorremmo raccontare. Tuttavia, manteniamo la rotta senza perdere di vista la nostra stella polare: approfondire il nostro tempo, imparare dalla storia, essere allenati per il futuro.
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(Luigi Ghirri-Kodachrome, Punto e Virgola, Modena 1978)

Questa rivista aspira ad essere la sintesi modesta di una redazione più estesa, che nella nostra pagina on line è ancor più dinamica e aggiornata ogni giorno. Vogliamo crescere convinti che ciascuno di noi possa fare la differenza attraverso qualsiasi sentiero traccerà l’avvenire.
Su queste colonne parliamo di politica perché è la parte che influenza il tutto, commentiamo l’arte che trasmette ciò che i sensi spesso non sanno dire, affermiamo opinioni per mezzo delle quali, contemporaneamente, raccontiamo le nostre vite.
Chi scrive ha le sue ragioni, le sue ispirazioni e noi cerchiamo di conciliare la realtà interiore con quella esteriore, perché, riflettendoci, è l’esatto dissidio che ognuno vive quando si relaziona con l’altro.
Non riusciremmo ad esistere nel mondo senza rendere visibili le nostre luci e le nostre ombre. Per noi è essenziale alimentare il nostro spirito critico, affinché sia possibile distinguere il vero dal verosimile. Con un po’ di affanno sgomitiamo fra i giorni, perché cerchiamo di capire che senso abbia il suono del nostro presente. Che si tratti di rumore melodia dipende da noi.
Facciamoci caso, cari lettori, a quanto questo significhi essere liberi.

Si può amare per corrispondenza?

Appuntamenti, visite guidate a noi stessi, il futuro dietro l’angolo, il prezzo delle cose, l’amicizia più duratura, i soldi, la musica preferita, il posto che chiamiamo casa. Eppure, tra tutte queste offerte necessarie, l’umanità è ancora seduta a girarsi i pollici davanti al mistero dell’amore. Parlarne equivale ad aprire la pagina più scontata della storia, macchiata di clichè tanto banali quanto assoluti. Il desiderio di renderlo un concetto aulico, un’emozione lontana dalla propria carne e la contemporanea tentazione di rapportarlo solo a quello vissuto. Forse per parlarne si deve necessariamente essere così: intrisi fino al collo di se stessi e della propria inutile esperienza.
Chi lo ha narrato o spiegato, lo ha fatto a suo modo. Partendo da una domanda, da uno scompartimento, solo da una lato o da un unico punto di vista della grande facciata.

Si può amare per corrispondenza? Tornatore parte da qui e ci pone senza mezzi termini la domanda. Probabilmente non gliene importa molto della risposta, che rimarrà personale, segreta, sconosciuta. Ma è tale il valore del suo dubbio che, a prescindere dalle conseguenze che instillerà in ognuno, decide di impiantarci sopra il suo nuovo film. Una storia combattuta tra il peso dell’irrealtà e quello della consistenza. Una studentessa di astrofisica dagli occhi verdi, e un professore universitario con la voce rarefatta quasi quanto questo amore.

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Lei impacciata quanto il dolore di una vita di cui le sfugge la logica, lui complesso quanto le stelle che studia e che insegna. Una felicità poco afferrabile che scorre sullo spartito di un gioco di sguardi. La loro è però una comunicazione quasi unicamente virtuale, non sanno uscire dall’irrealtà. Perché il mondo vero non potrebbe capire e perché il mondo vero non esiste. Si saranno visti poche volte in tutto, poi solo Skype, whatsapp e altri mezzi velati rispetto alla vita cruda e concreta. Una storia che poggia tutti i suoi mattoni sulle fondamenta di una passione che non si può toccare dal vivo, perché non c’è incontro, perché non c’è un appuntamento.

Chiudo la cerniera del percorso sentimentale del film perché non è su questo oggetto che si concentra la mia attenzione e perché lo superficializzerei deviandolo verso un altro discorso, non prestandogli la giusta attenzione narrativa e di significato. Piuttosto, il film stesso apre spazio alla domanda generale e collettiva di un più grande interrogativo interiore: si può amare così, per corrispondenza? È un amore vero o è solo la proiezione di un amore più comodo, che non deve combattere con la noia della realtà e con la paura del dolore vero? Gli amori virtuali, quindi.
Uomini e donne, che, ogni giorno tessono, a loro modo, le fila di una quotidianità spezzata, ma ininterrotta. Lui vive a Breslavia, lei a Roma, lui a Milano, lei a San Francisco. Lui vive nella stessa città di lei, lei vive nella stessa città di lui, ma si costruiscono tra di loro milioni di altre città invisibili che frappongono incroci, semafori e altre coincidenze alla possibilità di incontrarsi realmente. Questi sono solo esempi di come anche la vicinanza o la distanza, dopo internet, siano diventate delle misure assolutamente relative dentro cui far entrare o uscire le proporzioni e i sentimenti di ogni cosa che vogliamo. Videochiamarsi all’ora di cena, chattare tra una pausa e un altro inizio, scambiarsi i segnali non sempre decifrabili di giornate che si consumano per ognuno in un altro spazio.
Abbiamo collezioni di nuovi modi per sentirci in maniera più o meno profonda, e spesso li scegliamo con o senza la coscienza della lunghezza dei fili che ci porteranno addosso queste relazioni.
La protagonista del film, aggrappata soltanto a filmati, registrazioni, e ad altri particolari privi di consistenza plastica, sente, dentro di lei, la stessa forza di un sentimento che anche senza azioni ha in sé il peso specifico di una cosa vera.
Incontrarsi su internet è possibile, mantenere vivo un incontro su internet è possibile. Ma è amore, connessione, affinità, tempesta o cos’ altro?

Se decido di raccontare la mia vita a qualcuno di fisicamente assente nella mia, compio un atto di coraggio o sto nascondendomi invece di fronte alla trasparenza di chi ho di vero di fianco a me?
Se apprendo dal dialogo che si instaura con l’altro le coordinate dei suoi modi di fare, di essere, di concepire e di esistere in genere, sto conoscendo il vero o solo un perimetro limitatissimo di quella che è la sua persona? Ci stiamo sperimentando reciprocamente o stiamo dando alla luce solo le parti di noi più convenienti, lasciando nel buio quello che non vogliamo mostrare? Ci stiamo innamorando sul serio o no?
Dipende. Questa è la risposta universale.
La mia invece è che Sì, è possibile. Su internet è possibile incontrare l’amore. Ma è anche possibile incontrare il “nonamore”. Come in tutti i posti e le occasioni dove dobbiamo mettere in gioco noi stessi. Proprio perché la rete è diventato un posto della vita come un altro, è diventata anche un’opportunità come tutte le altre, meno romantica di una stazione dove prendere lo stesso treno dello sconosciuto che abbiamo accanto, ma non meno reale di una piazza, di una strada o di una conversazione casuale nata dentro una lavanderia a gettoni.
Amare è sicuramente la complessità più grande, indipendentemente dal luogo della vita in cui avvenga. Ma dobbiamo mettere in conto che in un momento di così frenetica trasformazione della forma di tutte le cose apparenti, ci possa accadere addirittura più facilmente di saperci specchiare in un altro distante che abbia i nostri stessi filtri di comunicazione che in un altro, fisicamente vicino, ma spoglio di quella libertà di immaginare e di essere che circonda tutti i nostri incontri virtuali.

Ma queste unioni civili?

Ognuno di noi ha la sua opinione, un intimo collage formato di frasi e parole lette e sentite qua e là; ma anche di conoscenze, esperienze personali, letteratura, filmografia. Un’opinione propria, maturata autonomamente, o forse suggerita da qualcos’altro o addirittura imposta da qualcun’altro. Un’opinione che varia in base alla propria religione, alla propria esperienza e visione politica. Un’opinione: ognuno ha la propria, anche il più distratto.

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C’è la sensazione che si sia (faticosamente) arrivati ad una sorta di resa dei conti per quanto riguarda le cosiddette unioni civili. Una sfida che non lascia indifferenti e che chiama all’appello ciascuno di noi, in una doppia dimensione: quella della sfera etica ed intima del singolo ma anche quella politica e sociale. L’argomento delle unioni civili è tornato sotto i riflettori dopo che l’Italia è stata condannata con una sentenza pronunciata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La Corte, con una pronuncia dai torni fortemente evocativi, ha criticato il nostro Paese per la mancata tutela dei diritti delle coppie dello stesso sesso. L’Italia, e in particolare il parlamento italiano, malgrado il costante e attivo operato di alcune corti nazionali (tribunali, corti d’appello e Cassazione), sono stati accusati di aver mantenuto al riguardo un’inerzia legislativa ormai insostenibile. L’Italia viola la Carta europea dei diritti dell’uomo nel momento in cui non riconosce i diritti delle coppie omosessuali. A questa pronuncia, letta (e forse già dimenticata) da pochi, si sono aggiunti i più noti referendum irlandese (che ha legalizzato il matrimonio tra omossessuali) e la recente riforma del diritto di famiglia fatta in Grecia. Ancora: oltreoceano ha fatto discutere la storica pronuncia della Corte suprema degli Stati Uniti che ha praticamente imposto a tutti gli stati membri di garantire i matrimoni gay. In questo contesto è nato quindi l’impegno del Presidente del Consiglio Renzi di emanare al più presto una legge che possa riformare la materia (un impegno in ritardo: la legge era stata promessa entro il 2015).

E siamo quindi arrivati all’ormai celebre disegno di legge Cirinnà, dal nome della senatrice del Partito democratico prima firmataria (altro caso in cui un parlamentare, prima d’ora poco noto, acquisisce notorietà grazie ad un suo controverso provvedimento: l’atto e la persona che si fondono in etichetta). La maggior parte dei dibattiti che ruotano attorno a questa proposta di legge si concentrano su uno solo dei suoi aspetti: la cosiddetta stepchild adoption (qualcuno potrebbe borbottare contro l’utilizzo di un ennesimo inglesismo-politico. La scelta è tra questo è “adozione del figliastro”: a ciascuno la sua)

La senatrice Monica Cirinnà (Pd)
La senatrice Monica Cirinnà (Pd)

L’opinione che si è diffusa di più è che questo disegno di legge permetterebbe l’adozione di bambini a coppie omosessuali, andando a generare di fatto un nuovo tipo di famiglia: quella con genitori dello stesso sesso. Il punto divisivo per eccellenza è quindi questo, tanto che l’intero provvedimento pare aver perso peso ed interesse in confronto ad esso: una parte è diventata superiore al tutto e lo ha fatto proprio. Ora: non intendo criticare il fatto che il dibattito si sia polarizzato solo su questo elemento e che, la grande informazione, abbia tralasciato di approfondire significativamente l’intero disegno di legge. Certo, sarebbe stato più utile e “istruttivo” che l’attenzione venisse concentrata su una visione di insieme della proposta ma il mondo dei se e delle possibilità non va a braccetto con quello della politica, specie quando essa si fa dibattito di massa e, in definitiva, democrazia. Anzi, è bello che un tema così importante diventi oggetto di una discussione così sentita e analizzata sotto diversi livelli e sfumature. I temi etici coinvolgono e appassionano in misura maggiore di una legge di stabilità e, nonostante non siano affatto meno complessi (anche dal punto di vista tecnico-giuridico), permettono a ciascuno di noi di pensare e dire la propria (o, almeno, lasciare l’illusione di farlo). Anche il mero impatto visivo di due (ideali) piazze, contrapposte pacificamente tra loro è un toccasana per la democrazia e per la Politica stessa. Non può che farci bene il ricordare come e in che modo la politica parlamentare possa incidere direttamente sulla Politica con la p maiuscola e, in definitiva, sulla vita di ciascuno di noi. Insomma: è bello vedere una partecipazione democratica e civile così sentita, al di là dello schieramento scelto.

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Pakistan: attacco all’università

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“L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”

L’articolo 33 della nostra Costituzione esordisce con queste parole: quest’articolo ed il succcessivo numero 34 parlano di università, scuola ed istruzione come parte essenziale della nostra società.
L’università, dunque, non è soltanto una comunità, fatta di insegnanti, ricercatori, studenti: università è prima di tutto sinonimo di libertà.
La mattina del 20 gennaio ero nell’aula studio di via Zamboni 27. Stavo per cominciare il lavoro della mattinata, quando al mio computer ho letto un titolo dell’Huffington Post che mi ha lasciato di stucco: “Pakistan, strage di studenti”. La notizia si è diffusa molto rapidamente, grazie ai giornali online e ai social: alle nove e mezza del mattino (le cinque e mezza in Italia) quattro terroristi avevano fatto irruzione nell’università di Charsadda, nelle aule e nei dormitori del campus, facendo strage di ragazzi e ragazze. L’attentato è stato poi rivendicato dalla frangia pakistana dei talebani, come ripercussione per una serie di operazioni antiterrorismo condotte ai confini con l’Afghanistan.
Il Pakistan non è nuovo a questo genere di attentati: già nel dicembre 2014, i talebani del gruppo Ttp assalirono una scuola di Peshawar, frequentata da ragazzi fra i 6 ed i 16 anni figli di militari pakistani, uccidendo quasi 150 persone.
Avevo i libri già sul tavolo di fronte a me, pronti per l’ennesimo ripasso, ma non riuscivo a cominciare senza prima leggere fino in fondo l’articolo. Era successo tutto da pochissime ore, e ancora non si avevano informazioni dettagliate. Mi sono guardato attorno: la biblioteca di Scienze Giuridiche era affollata come sempre nel periodo d’esami. C’erano un sacco di miei amici e di persone che conosco di vista: qualcuno preparava il prossimo appello di diritto civile, o di canonico, mentre i più diligenti del quinto anno stavano scrivendo la tesi.
Mi sono rimesso a studiare un po’ sovrappensiero. Mi ci è voluto qualche tempo prima di trovare la giusta concentrazione. E’ passata qualche ora, e mi sono incontrato con un amico per pranzo assieme. Prima di riprendere lo studio ho controllato al computer se c’erano novità.
Ho letto un secondo articolo. L’università di Charsadda è un ateneo di piccole dimensioni, che conta grosso modo 3.000 studenti. Il giorno dell’attentato, l’intera comunità era in festa: l’ateneo è intitolato a Bacha Khan, leader pakistano della non-violenza che seguiva l’esempio del più famoso Mahatma Ghandi. Per l’evento, era prevista una lettura pubblica dei testi delle sue poesie, a cui stavano partecipando all’incirca seicento persone. Non conoscevo Bacha Khan, ma da una breve ricerca nella Rete scopro che si battè in vita contro la scissione del Pakistan dall’India, essendo favorevole al mantenimento di un unico stato in cui potessero convivere la popolazione musulmana e quella indù.w
Sono tornato a leggere i miei appunti di diritto tributario: stavo ripassando una delle parti più complesse del programma, quella sul calcolo del reddito di impresa. Nel giro di poco tempo mi sentivo già stanco. Mi sono fermato un attimo a metà pomeriggio, per riprendere le forze. Ho preso uno snack alle macchinette, ed ho acceso di nuovo il pc. Un professore di chimica dell’università pakistana è morto in un estremo tentativo di difendere i suoi ragazzi. Ha preso una pistola, ha detto agli allievi di chiudersi in un’aula, e ha cercato di difenderli. Attaccare l’università vuol dire attaccare un’incubatrice di innovazione. Vuol dire colpire un’idea ancora prima che nasca, nel momento stesso in cui sta prendendo forma.”L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”: una libertà che si concretizza nel momento stesso in cui il professore accompagna la crescita dei suoi studenti, una libertà che è stata stroncata ancora prima di spiccare il volo.
Quel professore non ha difeso il suo laboratorio, non ha difeso le sue provette, non ha difeso la sua ricerca. Quel professore, negli ultimi istanti di vita, ha pensato a mettere in salvo il vero frutto del suo sforzo: i suoi ragazzi, le giovani menti alle quali ha cercato di trasmettere la sua passione e l’esperienza degli studi. Quella del professore è stata, insomma, un’ultima difesa della propria libertà, e noi tutti dovremmo essergli grati per questo eroico gesto.

Commiato – Giuseppe Ungaretti

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Questi giorni di vacanza sono, per me, giorni in cui posso approfittare del mio angolo preferito della casa, ovvero la soffitta, per cercare ricordi tra gli angoli polverosi, sfogliare album di fotografie che sanno di vecchio ma rinnovano un dettaglio  ad ogni osservazione più attenta, meno frettolosa. Scoprire libri che fino ad ora non esistevano ai miei occhi. È capitato, così, di imbattermi in una poesia bellissima di Ungaretti, uno di quegli autori essenziali, schietti, di poche parole se non quelle giuste, nessun fronzolo né decoro barocco come contorno. Nel “Commiato” vi è la sua dichiarazione di poetica. Ecco cosa scrive:
“Gentile
Ettore Serra
Poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento.
Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso.”
Ho riletto questi versi prima velocemente, perché quando hai fame di qualcosa, tendi ad ingurgitare tutto con veemenza, senza godere dei sapori. Poi, oramai sazia, mi sono concessa un bis culinario/letterario, stavolta prestando attenzione alla religiosità di quelle parole. Cos’è la Poesia?
Ognuno di noi cammina per strada tra la gente, preso da chissà quali pensieri, quanti problemi che schiavizzano la mente. Ognuno di noi si perde tra le frasi formali da cui dovrebbe trasparire la gentilezza, ed invece emerge solo un freddo distacco. Non c’è tempo per perdersi – ritrovarsi in qualcosa di semplice quanto profondo; fermarsi solo un momento a pensare che quello che ci stanno facendo è privarci del privilegio di indossare lenti colorate per guardare le cose da varie prospettive, senza cadere nel circolo vizioso delle ipocrisie. Poesia è il mondo perché è la ricerca di una verità che è generale in quanto non  inquinata dalle nostre convinzioni che, spesso, con prepotenza, vogliamo estendere agli altri. Poesia è l’umanità perché è il rispetto della bellezza, qualsiasi essa sia per noi e per gli altri, e quando tu rispetti la bellezza ne capisci anche la diversità e la difendi. In questo modo, ti dimentichi anche che, purtroppo, nel vocabolario esistono termini come “xenofobia, omofobia, maschilismo, terrorismo, bullismo,egoismo”.
Molto spesso, poi,  ci capita di sentirci incompleti, di entrare in quel vortice letale di insicurezze/ansie/dubbi che finiscono con il farci avvicinare a cose/persone che, con il tempo, diventano dei vampiri energetici e ci levano via linfa vitale. Poesia è la nostra vita quando, però, riconosciamo che, per non ammazzare il nostro io, dobbiamo riappropriarci del concetto di resistenza, che indica il considerarsi giunchi che, seppur provati dalle vicende spiacevoli, piuttosto si piegano ma non si spezzano.
La Poesia è anche “la limpida meraviglia di un delirante fermento”: la confusione non è negativa. Capita che ci si senta confusi, a volte, e si interpreta questa confusione come disorientamento. La confusione nasconde invece il nostro essere pronti a fare la muta. Dopo un evento abbastanza decisivo, si rivalutano il nostro atteggiamento, le parole, le azioni. Si raggiunge un nuovo livello di comprensione di se stessi, delle nostre potenzialità. Darsi per scontati è il suicidio della vita che, di per sé è evoluzione, cambiamento. Cambiare non significa tradirsi, bensì scoprire altri lati di noi stessi, ancora ignoti. La Poesia scava in questa confusione e ne ricava ispirazione.
Più di tutto, però, la Poesia è “una parola scavata come un abisso”: “diventa ciò che sei”, dicevano i greci. A volte il senso delle cose muta perché siamo noi a deciderlo; ci avvaliamo dell’arte della maieutica per tirar fuori  qualcosa che nascondiamo, per paura che scoprirci troppo ci renda invulnerabili. Ricercare La parola – qualunque essa sia, per noi – ci salva dalla meccanica ripetizione delle cose che genera noia e, a poco a poco, rallenta i battiti del nostro cuore, spegnendoci.
Ecco, questa per me è la Bellezza.

Io e il (mio) mare

Quando mi hanno chiesto che rapporto avessi col mare ho pensato che sì, quella fosse una bella domanda che richiedesse e meritasse una risposta ragionata, una fotografia scattata per l’occasione. Non è una domanda facile, come tutti quei punti interrogativi che ti riguardano direttamente e vanno a toccare un aspetto che influisce, silenzioso ma fedele, sulla formazione di una persona.

Sul mare si è letto e scritto di tutto e anzi, si potrebbe azzardare un suo posizionamento al secondo posto nella classifica dei topoi letterari (la parolina in greco, la terrificante tentazione del vecchio liceale classico ndr), subito dopo l’Amore. Si potrebbe azzardare, ma è meglio rimanere sul condizionale e abbandonare per un attimo il mondo del giàscritto e delle classifiche, per concentrarsi su un mare del tutto personale ed intimo. Descrivere e parlare non del Mare con la M maiuscola ma (cercare di) raccontare il mio personalissimo mare, piccolino ma, almeno per il sottoscritto, non meno importante.

A ciascuno il suo mare dunque. E allora, di quale mare stiamo parlando?

Il mio mare è quello in cui si specchia la città calabrese di Crotone: la mia città. Il mio mare è quindi il Mar Ionio, un mare egocentrico e con manie di protagonismo, salvato solo da una piccola “n” (proprio lì, in mezzo al suo nome) dalla ripetizione del pronome più ingombrante e rumoroso. Lasciando da parte questi dilemmi lessicali che un tempo mi assalivano, immaginiamo quindi questo mare, il più profondo e il più a Sud di quelli che bagnano le nostre coste. Già: le coste. Perché è difficile immaginare un mare senza pensare alla costa che sembra dargli forma, quel pezzo di terra che si interrompe e si fa (prima) spiaggia, (poi) acqua.

Il lungomare di Crotone Ph. Alessandro Milito
Il lungomare di Crotone
Ph. Alessandro Milito

E quindi, ogni volta che leggo o sento parlare del mare, la mia mente vola subito al golfo della mia città, dalla punta della Lega navale con le sue barche al Capo che prende il nome dell’antica colonna greca, unica rimasta di un (maestoso e impegnativo) passato. Una forma ad U schiacciata che pare abbracciare il mare, quasi a volerlo accogliere senza lasciarlo andare. Ora, è bene chiarire una cosa: non sono un “marinaio”, non sono mai salito su una barca a vela e la mia escursione marittima più importante l’ho avuta attraversando in traghetto lo Stretto di Sicilia. Il mio rapporto con il mare è quindi quello di un passante, o meglio: di un passeggiatore. Passeggiatore di lungomare esperto: ecco il titolo. Anche perché lo ammetto: non ho mai amato particolarmente passare ore e ore in spiaggia e in acqua, d’estate. Per intenderci: sono il classico soggetto che, dopo un tuffo, raramente si ributta in acqua e, dopo una partita a carte, a schiacciasette o una chiacchierata, non vede l’ora di tornare a casa (mi aspetto molti inviti quest’estate).

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Francamente, non ce ne infischiamo

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Ci sono appuntamenti con la Nazione ai quali nessun cittadino dovrebbe mancare, come il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. È un momento istituzionale che ho sempre considerato cruciale, perché sintetizza un sentimento, nobilissimo e non spontaneo: il nostro senso di appartenenza all’Italia si manifesta anche attraverso questi eventi importanti. Ieri è stata la prima occasione per il Presidente Sergio Mattarella, il cui intervento è stato l’esatto specchio della sua persona sobria ed elegante. Ha parlato a braccio, seduto cordialmente su una poltrona, come se gli Italiani fossero nel suo salotto, spontaneo e informale. I suoi occhi azzurri e luminosi solo dopo i primi minuti hanno smesso di ballare fra la telecamera e il resto della stanza per rimanere fissi e in connessione ideale con ogni cittadino all’ascolto. Piccoli dettagli da cui traspare il garbo di un uomo, apparentemente schivo, ma nel profondo garante della nostra Costituzione e valido rappresentante dell’unità nazionale. Dopo aver preso confidenza con una personalità da decifrare è possibile cogliere l’essenza delle sue parole pacate e sagge. E’ stato abile nel pronunciare il suo discorso dalla prospettiva dei cittadini comuni nei loro luoghi quotidiani: ha esordito parlando del lavoro che manca tanto per numerosi giovani preparati quanto per i disoccupati più maturi che, soprattutto al Sud, soffrono di questo disagio sociale che è oltretutto la negazione di un diritto fondamentale. Mi ha colpito la sincerità con cui si è rivolto alle famiglie in affanno, ai disabili, agli anziani “soli o che si sentono soli”, ai malati e ai bambini nati nel 2015, portatori di gioia e di speranza. Ha proseguito con la condanna dell’evasione fiscale che, secondo Confindustria, nel 2015 è stata pari a 122 miliardi di euro ovvero pari a 7.5 punti del PIL. Un aberrante malcostume pari al fenomeno della corruzione di chi ruba, sfrutta, inquina, calpesta i diritti: la correttezza e l’onestà si esigono prima di tutto da chi governa, perché svolga la sua funzione pubblica con trasparenza, rispetto e sobrietà assieme al fedele rispetto delle leggi e della Costituzione, che è una realtà viva e concreta solo quando sono attuate le regole della nostra convivenza civile. Doveroso il tema del terrorismo fondamentalista che ha colpito con violenza l’Europa, ma non ci condizionerà perché la libertà delle nostre scelte di vita rimanga baluardo di pace e democrazia e perché sia da difendere come impegno sociale di cui ciascuno è portatore in leale collaborazione con gli altri Paesi dell’Unione Europea. Inoltre, ha ricordato che l’Italia ha conosciuto la sofferenza dell’emigrazione, perciò oggi l’immigrazione è una questione da affrontare con accoglienza, ma rigore: l’integrazione si realizza innanzitutto attraverso la conoscenza della lingua italiana e il lavoro onesto. In caso contrario gli immigrati delinquenti devono essere puniti come gli italiani disonesti, poiché illegalità, malaffare e corruzione rubano il futuro. Ha parlato delle mafie da combattere senza esitazione, onorando il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine che ogni giorno agiscono con coraggio in questa direzione e ricordando che i giovani sono i primi cui repelle un sistema che rifiuta la legalità. E’ confortante la fiducia che gli Italiani ricevono anche all’estero, come esempi di bellezza, bravura e talento, perché non possiamo restare intrappolati dai luoghi comuni che spesso connotano solo in negativo la nostra italianità. Dobbiamo difendere e potenziare ciò che ci rende unici e insostituibili, ricordare che bisogna aver cura della nostra Repubblica che compirà 70 anni nel 2016, far vivere i principi che danno impulso alla nostra stessa vita. Per tale lascito emotivo che rinnova la fede nei valori civili ribadisco l’opportunità di questi riti per ritrovarci e darci speranza. Ammiro il Presidente Mattarella per la delicatezza con cui è presente nella vita della nostra Nazione e monitora con sobrietà questa stagione della nostra democrazia. Ho atteso con impazienza il suo messaggio e l’ho recepito con soddisfazione. Solo quando ci si sente protagonisti del sistema è possibile partecipare naturalmente alle pretese di una democrazia, che offre la rosa più candida delle libertà e pertanto il suo equilibrio è fra i più delicati: si mantiene o sbilancia in base alla cifra del nostro interesse al suo destino.

Le emozioni del 2015

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Mi hanno chiesto di parlare delle emozioni di quest’anno. Ho risposto di sì anche se non conosco le vostre, e non conosco appieno neanche le mie. Forse nessuno può dire di conoscerle realmente prima di averle consumate del tutto, mangiate fino in fondo. Emozioni che ci divorano, che ci aspettano, che esistono mentre siamo impegnati ad esistere da un’altra parte, emozioni che non sanno chi siamo, emozioni per cui dimentichiamo chi eravamo, emozioni che ritorneranno, un’altra volta, ed emozioni che se ne andranno per sempre insieme a chi ce le aveva portate per la prima volta.
Ma ci sono emozioni però che, a differenza delle altre, sono collettive: non nel senso che non le viviamo individualmente, ma nel senso che le viviamo un po’ tutti e ci fanno assomigliare davanti agli eventi, davanti alle cose straordinarie e anche di fronte a quelle normalissime. Il 2015 ce lo ricorderemo sì per gli incontri fatti, per quelli troppo poco vissuti, per le questioni lasciate in sospeso, per quelle che avremmo voluto riaprire, per i silenzi che abbiamo cominciato, per i discorsi che abbiamo chiuso, ma ce lo ricorderemo anche per una serie di sentimenti diffusi scoppiati nella nostra vita a seguito di più occasioni comuni, come se il nostro corpo fosse invisibilmente legato al corpo del mondo e respirasse e vivesse tramite il filtro di sensazioni che stiamo contemporaneamente vivendo tutti.
Paura: la lunga notte di Parigi ci ha fatto spegnere le luci per un po’. A casa, a lavoro, in tutti i posti di vita, abbiamo messo da parte noi stessi, e abbiamo cominciato a guardare fuori dalla finestra. Una finestra chiusa ovviamente, perché il dolore sarebbe potuto entrarci in casa e dovevamo stare attenti a chi frequentare, a dove andare, a quanto vivere. Una paura che non è durata poi così tanto, presto ci siamo rimessi gli abiti della noncuranza e abbiamo spostato i nostri pensieri altrove. Traghettati dall’idea che meno se ne parlasse, meno la guerra esistesse, abbiamo cominciato il nostro gioco del silenzio.
Immensità: Samantha Cristoforetti va nello spazio. È la prima donna italiana a farlo. Ma non sentiamo di più l’intensità dell’evento per una questione di orgoglio femminista, ne percepiamo di più l’intensità perché stavolta si tratta di uno “spazio” condiviso. Abbiamo immagini, abbiamo collegamenti, c’è un filo che unisce la nostra terrena quotidianità alla quotidianità dell’universo. Dalle foto satellitari siamo infinitamente invisibili, e questo ci regala un senso di leggerezza che ridimensiona la grandezza delle nostre faccende. Mentre osserviamo cosa si vede di noi, ritornano le domande a cui il nostro io più introverso sarà affezionato per sempre: “ Chi siamo?”, “ Dove andremo?”, “Quanto è reale il senso delle cose che proviamo o che crediamo di vivere?”
Silenzio: era il 3 Settembre 2015 e tutti ci siamo dovuti fermare un momento. Fu il giorno in cui il dolore del mondo si tolse definitivamente le maschere e assunse le sembianze di quelle di un bambino disteso senza vita sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Il capo affondato nella sabbia umida, la magliettina rossa ancora fradicia di acqua e di paura. Fino a quell’istante avevamo avuto tutti le nostre teorie personali sull’immigrazione, tuti avevamo avuto uno o più argomenti con cui sostenere una conversazione sul tema. Ma dopo quella foto le parole si asciugarono bruscamente. Sarebbero riprese a vivere dopo un po’. Ma per una buona ora, quantomeno, siamo stati zitti quanto quella spiaggia, costretta ad ospitare una colpa molto più grande di lei.
Speranza: fede o non fede. Dio o bisogno di Dio, questo è stato l’anno di Papa Francesco. Il viaggio a Cuba, quello in Africa. Parole spese per l’amore libero. Gesti che si sono pronunciati in favore dell’uguaglianza dell’altro. Ognuno ha le sue religioni interiori, le proprie spiegazioni su chi siamo, ma vedere un pontefice più cristallino nella promozione della vita, ha come dato a tutti un senso di fiducia più grande nella vita stessa. Ed indipendentemente da quanto crediamo che dopo di qui ci sia qualcosa, guardare a questo cambiamento può aprire un bisogno di infinito dentro, o semplicemente, può far dare valore ad un mistero che non avevamo considerato.
Mondialità: Expo è stata la parola chiave. Ogni terra è un confine, ed ogni confine un sapore. Culture espresse in un piatto, e piatti intesi come pretesti per scoprire cosa c’è al di là del perimetro che ci vede vivere. File eccessive, contestazioni organizzative, questa però è una polemica che lasciamo al di fuori del recinto delle emozioni. Perché Expo ci insegna che quella fila chilometrica, e assolutamente discutibile, noi siamo comunque disposti a farla e che quindi il senso della curiosità supera sempre quello dell’insofferenza. Che il senso della ricerca, supera quello dell’intolleranza. Uno stupore per il Mondo che si è manifestato a Milano, ma che si realizza di continuo anche nel nostro intimo.
Nostalgia: questa giornata ha a che fare con i bilanci, ed anche con quelli delle emozioni. Nessuno può dire di non essere cambiato. Forse di poco, forse non troppo. Ma ognuno si porta addosso un viaggio da cui esce diverso, più coraggioso, meno forte, più se stesso, meno chi aveva finto di essere stato. Ed anche le emozioni più brutte, quelle più spericolate, anche le emozioni a cui accodiamo tutti i riferimenti negativi di questo anno, ora assumono la forma di una cosa che è stata e che in quanto vissuta può dire di possedere una sua definizione, un suo margine di conoscibilità. Tutto oggi diventa nostalgia. Tutto oggi diventa una cornice, a suo modo pregiatissima, entro cui infilare un quadro di quello che abbiamo capito e di quello che abbiamo capito non capiremo mai. Lo appenderemo da qualche parte, dentro di noi, e continueremo questa collezione del vivere e dell’essere, sempre, spregiudicatamente, noi stessi.

Pensare, ripensare: scrivere!


 

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Pensare, ripensare, arrabbiarsi un po’, spingersi oltre: scrivere. Lasciare che un pensiero si faccia lettera e poi pagina, comporta una certa responsabilità e perché no: una certa arroganza. Esprimere una propria opinione, farla uscire dal perimetro della propria riflessione personale e renderla idea pubblica è indice di presunzione. La presunzione, più o meno velata ma sempre presente, che ciò che venga scritto possa essere letto, riletto e apprezzato. O criticato, ma comunque ritenuto meritevole di attenzione. E niente è più bello che soddisfare questo desiderio nascosto (ma neanche troppo) e stringere un patto con i propri lettori: scrivere per questa rubrica di opinioni con sincerità e onestà intellettuale, senza dimenticare di divertirsi un po’.

Il bello di “navigare” (mai come in certi casi il verbo è così adeguato) per il web e, in particolare, per i mari tormentati di Facebook, è che capita di imbattersi in alcune terre abitate da strani e vivaci abitanti. Terre straniere in cui si rimane subito affascinati dalla forza e dal calore dei pensieri e delle opinioni sparati sotto forma di commento, proprio lì, in fondo ad una foto o ad un link. Oggi questo allegro navigare mi ha portato nella terra di Vittorio Sgarbi, re incontrastato di un reame molto particolare. L’argomento di “discussione” erano dei…beh, qui devo dare ragione a Re Vittorio: dei nonsocosa dietro le Torri. Promettendomi di andare di persona a vedere queste nuove opere d’arte sotto le carissime Garisenda e Asinelli, mi sono avventurato nella giungla dei commenti, armato di (in ordine sparso): una notevole nullafacenza, una pesante dose di masochismo e un po’ di sana e sincera curiosità.

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