L'UNIversiTÀ

Bologna

Un vocabolo impegnativo

Ognuno vive i suoi giorni in armonia con il tempo che attraversa, seguendo una linea immaginaria, autonoma, spesso inconsapevole che è tracciata dal nostro Io interiore. Non possiamo definire concretamente cosa significhi vivere, perché la vita è composta da istanti memorabili e da ore anonime, entrambi fugaci, ma dilatare la durata dei primi a scapito delle seconde è un’impresa che ci vede protagonisti. E’ come un respiro necessario e sistematico, ma mentre questo può essere frenato solo per qualche secondo, la vita può divenire apatica senza confine. Essa procede incalzante e imprevedibile, bendata dal destino è al contempo fra le nostre dita. Infatti è un’illusione asserire che ci appartenga del tutto e che sia una tela candida sulla quale facciamo scivolare il colore delle pennellate dei nostri anni; la sorte è caotica, il futuro incerto, il passato è storia, eppure, il presente ci spetta: possiamo provare ad essere complici del nostro destino appena acquisiamo la consapevolezza di quale sia, fra le infinite sfumature, il pigmento che si abbina di più all’abito che indossiamo. Desiderare di vivere in tale maniera è una scelta di coraggio, la parte che determina il tutto e per realizzare questo proposito occorre “riflettere” nella doppia, profonda accezione espressa qualche sera fa da Concita De Gregorio, durante la presentazione del libro “Coraggio” di Umberto Ambrosoli, organizzata da “il Mulino” presso l’idilliaco chiostro di San Domenico a Bologna. Così come lo specchio riflette la nostra immagine esteriore, quella interiore emerge dialogando con noi stessi, pensandoci. E’ coraggioso essere se stessi, dopo aver riflettuto e, appunto, essersi rispecchiati e pensati; come è coraggioso (ri)cercare veramente la propria identità per poi manifestare all’esterno questa virtuosa bellezza trovata. Ciascuno dà un’interpretazione personale alle faccende della vita, ad esempio l’”eroismo quotidiano” è inteso da Ambrosoli come “l’essere fermamente rispettosi della legge” e dunque il coraggio civile si coniuga con l’esercizio della propria responsabilità, anche a costo di essere impopolari, ma giusti. In verità, il coraggio è per definizione un moto irrazionale, perché è veicolato dal cuore che accetta l’esposizione al pericolo, al dubbio, alla potenziale sofferenza. Laddove i più si fermerebbero, i coraggiosi procedono nonostante le intimidazioni e le incertezze delle conseguenze. Esercitare tale virtù non equivale all’assecondare il folle impulso: si ragiona con coraggio quando quella che è fra le più nobili capacità dell’animo orienta verso scelte e azioni che non tutti affronterebbero. Può accadere che non ci si renda conto di incedere sulle rive del coraggio e che l’impegno per un interesse pubblico sia riconosciuto come tale da un giudizio altrui, alle volte anche posteriore alla vita stessa. Invece proprio in questa silenziosa autonomia risiede il coraggio autentico che è talmente radicato nello spirito da non necessitare di un plauso o supporto esteriore per concretizzarsi. Al di là di ogni illustre riferimento ad emblematici uomini del presente e del passato che hanno dimostrato e dimostrano ammirevole fedeltà a questa umana virtù, è già appagante riconoscere individualmente la coerenza ovvero il coraggio di voler essere se stessi. Qualora vi siano questi presupposti, si intende e spera che vi sia una naturale propensione alla condotta virtuosa nell’affrontare le vicissitudini della vita; inoltre, è egualmente logico rapportarsi con il sentimento avverso della paura che è tanto umana quanto contrastabile, se non vincibile. E’ già coraggioso colui che percepisce intimamente la paura e la affronta a testa alta seppure nella ragionevole esitazione, dettata dalla oggettiva finitezza umana. Il discrimine fra un comune essere umano e un Uomo è la dignità con cui questi decide di camminare a schiena dritta nella vita senza bisogno di solidarietà diffusa. C’è molta libertà nell’animo dei coraggiosi, perché scegliere di voler adempiere ad un dovere di coscienza è la perfetta sintesi di una filosofia ponderata, certa di conferire alla propria vita quel senso di pienezza gioiosa e soddisfatta. Comunque vada, provare ad essere Uomini è ossigeno meraviglioso.

Bologna, 12 Giugno 2015

Anna Rita Francesca Maìnoimage

Uno sguardo nel mondo di Escher

Si dice che in anni di crisi, la cultura si stia avvicinando sempre più a ciò che era nel momento d’oro della borghesia: una grande risorsa cui solo pochi potevano accedere. Questo non è però il caso della mostra di Escher che rimarrà a Bologna presso il Palazzo Albergati ancora sino al mese di luglio. Qui si incentiva lo studente universitario alla visita, non solo con una riduzione studiata ad hoc, ma anche con il cosiddetto “lunedì universitario” che offre ulteriori sconti. Ed è così che mentre passeggiavamo come tante altre sere sotto i portici di Bologna io e la mia collega di corso abbiamo deciso di dedicare il primo lunedì di questa primavera al grande artista. Ed eccomi qui ora a raccontarvi le sensazioni e riflessioni che ha suscitato in noi l’illusionismo di Escher.

Escher

Il primo ingresso in un palazzo che porta il nome di un’antica e prestigiosa famiglia di senatori bolognesi non può di certo lasciare indifferenti: la storicità del luogo è evidente e non si può resistere al piacere di regalarsi un ricordo con il primo selfie di fronte alla sfera riflettente affianco all’ingresso. Dopo di ché l’attenzione è tutta verso il Palazzo Albergati che, ristrutturato solo recentemente dopo che l’incendio del 2008 lo aveva reso inagibile, ha aperto a marzo una delle mostre più intriganti, quella del matematico e fisico Escher.

Sin dalla prima sala, è impossibile smentire quello che si dice di lui: fu infatti davvero uno dei pochi a costruire con delle leggi matematiche non semplici strutture geometriche, ma vere e proprie opere d’arte, arrivando così a dare un equilibrio al continuo dissidio tra scienza e creatività.

Questo è il primo elemento di straordinarietà in Escher: riuscire a guardare e rappresentare il mondo da un’altra prospettiva, il che oggi potrebbe apparire semplice e quasi scontato, mentre allora non lo era affatto.

La sua lotta maggiore, però, era lontana dalle pagine delle riviste che lo avevano calpestato per poi rieleggerlo come artista, così come racconta l’audio guida che, se avrete la possibilità di visitare questa mostra, non potete assolutamente mancare di prendere con voi. Sarà infatti la voce di un critico d’arte a raccontarvi che, come tanti ragazzi nel periodo dell’adolescenza, Escher aveva attraversato un momento conflittuale col mondo accademico il quale, per sbaglio e per fortuna, lo aveva portato in Italia. I genitori, infatti, avevano pensato allo stivale come meta di un viaggio a breve termine che aiutasse il proprio figlio a superare una lunga depressione, e così fu.
I paesaggi del sud Italia avevano stupefatto e ispirato Escher a tal punto da realizzare diverse xilografie: Escher ha dunque riprodotto la bellezza del sud della nostra Penisola, dandole un senso profondo del magico e dell’illusione che vi lascerà probabilmente così colpiti da infondervi la curiosità di esplorare quei posti che noi stessi spesso snobbiamo alla ricerca di qualcosa di più in terre lontane. Chissà che cosa.

Quello che però rimane impresso, al di là della complessità delle forme geometriche utilizzate o una rappresentazione interiore, di cui lui stesso nega l’esistenza, è la minuzia dei particolari: Escher aveva la capacità di inserire figure piccolissime all’interno delle sue rappresentazioni con una perfezione nel disegno che fa pensare quasi ai dipinti e mosaici dell’arte bizantina.

La mostra però non è stata solo un susseguirsi di opere: all’interno di questa si nascondono diversi enigmi, che aggiungono al carattere suggestivo della visita nelle varie sale, anche un senso di suspense. Prendete per esempio i profili di due visi omologhi e metteteli vicini, se li avrete sistemati nel verso giusto vi apparirà un vaso. Oppure, osservate i vasa physyognomica di Luca e Rosa: vi anticipiamo solo che vi riveleranno qualcosa di nuovo.

VasiPhis2

Ma questo è solo l’inizio del tour: sentirsi parte di un’opera d’arte e scattare una foto con uno sfondo di geometrie in bianco e nero rende l’esperienza culturale un momento divertente quasi come una breve gita scolastica, ma con meno affollamento e più consapevolezza per il valore e l’impegno speso dall’artista e dai curatori.

Dopo mezz’ora nelle sale perse tra enigmi e teorie aberranti, ci siamo rese che occorre più di un’ora di fine serata per godersi i suoi libris e la creazione di finti piani tridimensionali. Mancando solo 30 muniti alla chiusura è stato quindi necessario affrettarsi per vedere tutto, mentre il servizio di sicurezza ricordava ogni 10 minuti a noi e ai pochi altri visitatori che la mostra stava per chiudere. Questo non ha quindi permesso di incantarsi su ogni opera con la stessa intensità, ma sicuramente lo specchio magico, le due mani che disegnano e il cubo di Necker rimarranno impressi nei cassetti della memoria per tanto tempo ancora, così come l’idea che un ragazzo giovane con impegno e creatività possa riuscire a creare cose straordinarie.

Mani_che_disegnano

Era stato proprio lui a dirlo: “solo coloro che tentano l’assurdo, raggiungeranno l’impossibile”. Non se n’era ancora reso conto, ma stava parlando di se stesso.

Un viaggio tra i fornelli di Masterchef. L’intervista a Stefano Callegaro

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Fuori c’è una pioggia fitta ed io sono davanti alla porta d’ingresso, mi sposto un attimo per fare un giro nella sala verde della Montagnola poi mi riavvicino alla porta, a quel punto vedo spuntare Stefano sotto un ombrello giallo. Entra, mi guarda e prima ancora che potessi salutarlo mi porge la mano e si presenta: “piacere, Stefano!”.
Già da questo gesto capisco la persona che ho davanti, parola d’ordine: umiltà.
Scatta qualche foto e scrive delle dediche sul suo libro di cucina appena uscito “Alla ricerca del gusto” poi si parte con l’intervista.

Stefano, com’è cambiata la tua vita con la vittoria di Masterchef?
«Allora, inizio col dire che se quest’anno l’avessi diviso in 6 parti mi sarebbero usciti fuori 6 anni belli intensi (ride). Spesso dopo la vittoria mi è capitato di sentirmi dire che sono una fonte d’ispirazione. Ti dico che Martin Luther King è una fonte di ispirazione, io al massimo posso ispirare nell’ambito culinario».

Qual è il giudice più buono e quale il più cattivo all’interno della competizione?
«Sono 3 persone dai caratteri molto diversi. Chef Cracco e chef Barbieri sono un po’ spigolosi negli atteggiamenti ma ogni giorno ti offrono spunti per migliorare e per crescere. Lo chef Berbieri tra i fornelli ricorda il ballerino Rudolf Nureyev, sembra danzare in cucina. Ha una precisione incredibile.Masterchef 9
Chef Carlo Cracco da buon veneto di montagna parla poco e quando lo fa le sue parole tagliano però ogni suo consiglio è estremamente prezioso. A telecamere spente mi disse: “sii curioso e sii critico con te stesso per poter migliorare sempre”.
Joe Bastianich è un grande imprenditore mischiato ad un ragazzo di 18 anni che si vuole divertire. Una persona speciale alla quale sono molto legato. Se mi sentisse dire queste cose mi ucciderebbe (ride)».

Un piatto al quale sei particolarmente legato?
«La minestra con i piselli, il risi e bisi in Veneto, che nella mia zona (il polesano ndr.) ha salvato tante persone nei periodi di difficoltà. Questo è un piatto che la domenica a casa mia non manca quasi mai. Poi devo ammettere che sono un consumatore seriale di tortellini e voglio precisare che vengo sempre a prenderli a Bologna (sorride)».

Un consiglio per gli appassionati di cucina.
«Toccate il cibo, annusatelo, passatevelo tra le mani. Il cibo ci parla, si racconta. Ogni taglio di carne, ad esempio, è diverso dall’altro e ha una sua storia. I guanti lasciamoli ai chirurghi perchè in cucina il cibo va trattato a mani nude».

Chi ti ha trasmesso la passione per la cucina e come l’hai coltivata?
«La mia mamma oltre ad essere appassionata di cucina è un’ottima cuoca e mi ha trasmesso l’amore che mette in cucina, io poi vivo fuori di casa da quando avevo 18 anni quindi imparare a cucinare oltre ad essere una passione è stata una necessità».

Cos’è per te la cucina?
«Non voglio fare il filosofo (ride) ma per me la cucina è una metafora della vita, il raggiungimento della felicità per tentativi. Quando cucini cerchi la perfezione del piatto tentando diverse combinazioni così come nella vita si cercano diverse combinazioni per arrivare ad essere felici.
Ve la spiego con 4 aggettivi: amore, passione, disciplina e rispetto».

Qualche domanda sulla tua avventura a Masterchef. Raccontaci della svolta ai fornelli avvenuta quando a sorpresa è arrivata tua madre nel programma.
«Va detto innanzitutto che quando partecipi a Masterchef non vedi i tuoi cari per tutta la durata del programma (2 mesi e mezzo/3 ndr.) e in tutto ciò abbiamo avuto solo una mezza giornata libera. La puntata che voi vedevate il giovedì era la contrazione di una settimana di riprese. Sono arrivato nella cucina con tanti difetti, dubbi e insicurezze ma quando in quella Mistery Box gigante ho visto mia mamma mi si sono illuminati gli occhi. Da quel punto è come se mi fossi tolto dei pesi».

Con chi hai legato di più tra i tuoi compagni di avventura e chi hai visto maggiormente come uno sfidante?
«La persona che più mi è rimasta nel cuore è sicuramente Simone (Finetti ndr.). Per me è come un fratello. Invece ho visto maggiormente come uno sfidante Nicolò che mi ha impressionato molto per una passione ed una tenacia che a vent’anni davvero in pochi hanno».

Concludendo. C’è una frase che dice: “si cucina sempre pensando a qualcuno, altrimenti stai solo preparando da mangiare”. Ho rivisto molto il tuo percorso a Masterchef in queste parole. Mi confermi che per preparare un buon piatto si deve sempre pensare a qualcuno?
«Ti ringrazio per la bellissima domanda (sorride). Sono assolutamente d’accordo, il mio percorso nella cucina di Masterchef si è intrecciato molto con queste parole. Ho sempre cercato di mettere nei miei piatti me stesso e soprattutto le persone a cui tengo. La mia spinta in più anche nella finale, che non mi aspettavo assolutamente di vincere, credo sia stata proprio questa. Secondo me per creare un buon piatto è importantissimo pensare a qualcuno».

NUMERO ZERO: il bestseller quasi bolognese, da Tangentopoli alla Resistenza

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Il vostro sogno nel cassetto è scrivere l’editoriale del Corriere della Sera? O vorreste pubblicare inchieste da far invidia alle migliori penne de L’Espresso?  

O, forse, tutt’altro: siete più portati ad un giornalismo provocatorio e tagliente? Alla Marco Travaglio, per capirci.

Enrico Mentana è il vostro beniamino, e non potete rinunciare a tenere la televisione accesa su LA7, mentre fate cena.

Oppure, siete un po’ più vecchio stampo? Vi piace il giornalismo di una volta, il giornalismo fatto come si deve? Nella vostra camera, avete uno scaffale con una ventina di libri di Biagi e di Montanelli, che custodite come fossero un tesoro.

Insomma, vorreste diventare giornalisti?

Se questa è la vostra ambizione, non leggete Numero Zero: non lo comprate nemmeno, e continuate a coltivare il vostro sogno, perchè Numero Zero non fa decisamente per voi.

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La fauna della Biblioteca

“Io non mi trovo bene a studiare in biblioteca, ho bisogno di ripetere a voce”.

Chi pronuncia questa frase probabilmente intende studiare per davvero ma, così facendo, rinuncia ad uno spaccato di umanità incredibile e a tanti aneddoti da aggiungere al proprio repertorio.

La Biblioteca, prima di essere un edificio con tanti libri e qualche posto a sedere, è un habitat in cui prosperano le specie più diverse e i personaggi più strani.

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Biblioteca dell’Archiginnasio

Nel corso dei suoi matti e disperatissimi studi, l’universitario impara a distinguere le varie specie, il suo istinto di sopravvivenza gli suggerisce quali evitare e quali frequentare.

Questo processo di selezione è essenziale per non rischiare di cadere in trappole spiacevoli e per mantenere una vita studentesca sana e dignitosa (tradotto: difendere la già precaria salute mentale).

E quindi, è con gran piacere che L’UNIversiTÀ è lieta di fornirvi una guida essenziale per riconoscere alcuni degli esemplari più rappresentativi, personaggi topici con i quali prima o poi si avrà a che fare.

Parlavamo di posti a sedere e proprio la ricerca di questi ci conduce direttamente al primo, fondamentale personaggio: l’Esploratore.

L’Esploratore è la prima linea, l’avanguardia, il coraggioso mandato in avanscoperta a svolgere un compito essenziale: occupare una postazione (o più) da difendere a tutti i costi. I suoi nemici principali sono gli altri esploratori (la concorrenza è agguerrita) e le paroline magiche, esplosive e pericolose: “è libero questo?”. Per la sua missione, l’Esploratore è dotato di un armamentario di tutto rispetto: libri, foglietti, codici, giubbotti e una certa dose di faccia tosta.

Basta spostarsi di qualche posto e subito balza fuori un altro esemplare, anch’esso presente sin dall’apertura della biblioteca: il Sapientone.

Questa pericolosissima razza è composta molto spesso da dottorandi e ricercatori, gente che è oltre, che hagiàvistotutto e satutto. Il Sapientone si muove alla perfezione fra i libri e i corridoi della biblioteca lo esaltano come una pista da ballo; avendo venduto l’anima e abbandonato qualsiasi autentico rapporto umano, il Sapientone respira pagine, si nutre di saccenteria, unico carburante in grado di mantenerlo in vita. La macchinetta del caffè, indiscusso totem per ogni specie, è il suo luogo prediletto: qui lo si può ascoltare mentre sottolinea il fascino della caparra confirmatoria di un contratto del 1245 (il Sapientone “giurista” è semplicemente devastante).

Altri incontri alla macchinetta del caffè
Altri incontri alla macchinetta del caffè

Ma anche la carne vuole la sua parte e i cacciatori non mancano nemmeno in biblioteca. Anzi: prosperano. Il Cacciatore entra in sala studio e subito cerca con sguardo felino la preda da ghermire. Poco importa che vi siano posti liberi se questi non sono situati davanti o affianco l’obiettivo. Il Cacciatore lancia occhiate taglienti come coltelli, a volte si avventura nel terreno incerto del “piedino” e, se tutto va bene, azzarda anche il tivauncaffè?

Queste battute di caccia avvengono sotto il costante e deciso ticchettio dei Dattilografi, esemplari che scaricano la loro frustrazione sugli inermi tasti dei loro pc portatili (noncuranti che questo bombardamento possa infastidire qualcuno).

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Piazza Verdi: amore, odio o semplicemente Università?

 

Piazza Verdi
Piazza Verdi

Studiare a Bologna comporta una serie di regole scritte e non scritte da seguire, alcuni personaggi topici da incontrare e certi totem da scoprire.

Piazza Verdi è il primo, vero confronto a cui si è chiamati subito dopo aver ottenuto il badge universitario (con tanto di foto indecente che si conserverà a futura memoria).

Ma cerchiamo di capire che cosa sia questa piazza, questo simbolo della Bologna universitaria, croce e delizia della “vecchia signora dai fianchi un po’ molli”.

Sua maestà della saggezza a portata di click (meglio nota come “Wikipedia”) non ci è di grande aiuto. Alla voce “Piazza Verdi (Bologna)” l’Oracolo si limita a ricordarci che “Piazza Verdi, dedicata al musicista italiano Giuseppe Verdi, è una piazza di Bologna e si trova nel cuore della zona universitaria.” per poi aggiungere qualche altra indicazione stradale e un timidissimoLa Piazza, soprattutto in periodo estivo, è utilizzata per manifestazioni culturali all’aperto.” Stop. Nient’altro. Nulla riguardo alle quotidiane, e non solo estive, manifestazioni di umanità che quest’angolo di Bologna può offrire.

E allora torniamo alla domanda iniziale: che cos’è Piazza Verdi?

E il bello viene proprio qui: Piazza Verdi non esiste, esistono tante piazze, tante immagini che ognuno di noi tiene stampate in mente e che riappaiono immediatamente non appena si passa da quelle parti, si cita quel luogo.

Provate a chiudere gli occhi e pensate alla piazza: che cosa vedete?

Qualcuno potrebbe vedere branchi di enormi bestioni al guinzaglio o con birra di ogni tipo alle mani. Potrebbe condire il tutto con alcuni effetti speciali (come certi odorini non proprio raccomandabili).

Qualcuno dalla mentalità più pragmatica potrebbe pensare alla birra venduta anche a tarda notte e a basso costo (ma qui ci sono varie interpretazioni) da impavidi “commercianti” improvvisati che, sfidando le ordinanze del fu sceriffo Cofferati, sono la dimostrazione vivente di come le leggi della domanda e dell’offerta muovano il mondo. Birra ma non solo: audaci professionisti dell’accordo cercano in tutti i modi di rifilarti una bici o comunque qualsiasi altra cosa che ti faccia “viaggiare”, in tutti i sensi.

Qualcun altro ancora potrebbe obiettare che ahimé, anche nel 2015 la birra lascia dietro di sé una bottiglia: e questa non sparisce da sola se non la si butta nel cestino. E tante sono le bottiglie di vetro che tappezzano la nostra cara piazza subito dopo l’Apocalisse serale.

Altri più clementi potrebbero vedere in Piazza Verdi il punto di incontro per eccellenza, l’oasi di rifugio dopo tante ore passate in aula studio, con tanto di caffè liberatorio in compagnia.

Insomma: questa Piazza è nella mente di chi la osserva e prende forma, così come “gli abitanti” che la popolano, in maniera diversa in base alle esperienze personali e agli che ognuno le collega.  (altro…)

Sinistra Universitaria: esperienza di condivisione e confronto

Qualcosa che ti coinvolge talmente tanto da non sentire nemmeno la stanchezza

Sinistra Universitaria è la principale associazione studentesca di centro sinistra, radicata da oltre dieci anni nell’ateneo bolognese. Nel 2011 ha aderito alla piattaforma nazionale della RUN (Rete Universitaria Nazionale). Sinistra Universitaria è, per noi che ne prendiamo attivamente parte, un’esperienza bellissima, di condivisione e di confronto su qualsiasi tema e argomento, oltre che un’esperienza formativa importantissima in questi anni di formazione universitaria. Anni nei quali si se10298934_10205513296736379_7882385594470489354_nnte spesso la necessità di fare qualcos’altro oltre che studiare, di , nel nostro caso politicamente e personalmente. Per tali ragioni consiglio a qualsiasi studente la militanza in questa associazione, per le emozioni che trasmette, per le esperienze che fa vivere, per i contenuti che fa acquisire. (altro…)

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