L'UNIversiTÀ

Bologna

Così vicini, così lontani

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Assistere ad una rassegna di corti e mediometraggi è un modo semplice, diretto ed efficace per regalarsi un paio di ore di curiosità visiva. Una curiosità che si affaccia da finestre varie, diverse ed intime, ma con un unico comune denominatore che è anche uno dei motivi ispiratori di questa particolare forma d’arte: trascrivere su pellicola, dar vita ad un pensiero e rilasciarlo sotto forma di messaggio. Visioni italiane è quindi un’occasione unica per passare ore di buona curiosità, rivolte ad una ricerca continua per capire ed imparare qualcosa di nuovo, accompagnati da quella dignità che solo il cinema riesce a dare. La dignità della sala buia, silenziosa e attenta e, ovviamente, dello schermo, finestra su un mondo che in una decina di minuti, o anche in pochissimi secondi, cerca (riuscendoci in vari modi o almeno provandoci) di essere osservato e capito. Si rimane coinvolti da storie diverse, ma anche da suoni e colori, provenienti da luoghi e culture altrettanto varie che, in rapida sequenza, narrano di individui alla continua ricerca di dignità e rispetto; coraggiosi protagonisti di quella commedia umana (nel senso più nobile e letterario del termine) che anche un corto cinematografico è in grado di evocare.

Bled El Mahzen – Sull’orlo del Marocco, regia di Bruno Rocchi, riesce ad evocare in tre quarti d’ora una realtà così vicina, al di là del Mediterraneo, appena a 200 km dalle “nostre” coste spagnole ed europee, ma così distante.
Il Rif, regione montuosa del Marocco settentrionale, con i suoi paesaggi aspri ma non così diversi dai più noti dell’Europa meridionale, fa da sfondo ad un racconto corale, ma fatto da singole, intense personalità. Si alternano quindi le storie di tanti protagonisti di cui non ci viene rivelato il nome; forse proprio perché i loro nomi e le loro individualità si confondono nella loro lotta quotidiana. Una lotta che si di-mostra in diverse forme ma con un unico e preciso obiettivo: la conquista (o la difesa) di un lavoro dignitoso. Un lavoro che, nella terra che ci viene narrata con notevole efficacia, viene vissuto come un privilegio e non come un diritto. Ecco quindi l’agricoltore tornato dall’Europa che fatica ad andare avanti oppresso dalla burocrazia, il rassegnato venditore di hashish, unica vera risorsa di quel territorio, seguiti poi dalla coraggiosa donna (incinta!) che sfida i pericoli della dogana e del contrabbando, trasportando chili di beni che non vedrà e non userà mai per sé; e ancora il maestro di scuola elementare licenziato perché aveva osato manifestare in piazza contro il governo. Sono persone che si raccontano a modo loro, nelle lingue più varie (francese, spagnolo, un misto delle prime due, arabo, un po’ di inglese), tutti accomunati da un desiderio di essere ascoltati, capiti e che il regista riesce ad elevare e rendere dignitoso. Un mediometraggio intenso, in grado di far riflettere spostando lo sguardo verso la nostra (fortunata) sponda del Mediterraneo e considerandola, a visione finita, con occhi diversi.

VISIONI ITALIANE ALLA CINETECA DI BOLOGNA

Schermata 2016-02-25 alle 14.11.23Potremmo iniziare con: “Ciak, azione!” ma sarebbe troppo banale. Allora partiamo così: “No, non scomodatevi, restate sulla sedia. Piacere mi presento, sono la commedia.”

Era il 1994, l’Italia stava per scoprire la figura di Silvio Berlusconi, Tom Hanks vinceva l’oscar per l’interpretazione in Philadelphia e in tutte le radio passava una certa The Rhythm of the Night di Corona.

Intanto in una Bologna anni ’90,  mai mainstream e sempre all’avanguardia nel campo delle arti, nasce l’idea di dare maggiore visibilità ai lavori dei giovani autori italiani che rimangono quasi invisibili al grande pubblico; opere come cortometraggi, documentari e film sperimentali.

A gettare il cuore oltre l’ostacolo, per dare spazio a queste produzioni, ci pensa la Cineteca di Bologna con il progetto Visioni Italiane. Lo fa in un periodo in cui in Italia ci sono diversi eventi di ambito cinematografico, quasi tutti però si interrompono dopo poche edizioni non riuscendo a dare quella continuità fondamentale agli autori.

Dal 1994 Visioni Italiane si staglia come un faro sulla costa, illuminando la via in mezzo ad un mare di produzioni cinematografiche, con la sola differenza che nel mare la cosa importante è stare a galla, nel cinema invece è emergere.

Ed è proprio da questo festival, che quest’anno si terrà dal 24 al 28 Febbraio al Cinema Lumiere, che sono partiti molti registi italiani. Personalità che negli ultimi anni si sono imposte con film di rilievo come Paolo Genovese con Immaturi, Matteo Garrone con Gomorra e Salvatore Mereu con Bellas Mariposas, solo per citarne alcuni.

Il festival è strutturato in varie sezioni: dai documentari ai temi legati all’ambiente, dai corto e mediometraggi italiani a quelli realizzati da giovani autori sardi, passando per le visioni urbane che trattano delle città contemporanee. Quest’anno avrà inoltre come ospite d’onore Matteo Garrone che sarà possibile incontrare venerdì 26 alle 17.

Se il festival ha acquisito così tanta rilevanza ed è riuscito a dare slancio a tanti registi lo si deve sicuramente alla direttrice Anna Di Martino che ha sempre creduto nel progetto dando grande importanza a lavori di nicchia come i cortometraggi. Noi l’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto alcune domande:

Anna, come è cambiato il festival dal 1994 ad oggi?

Più che il festival si può dire che è cambiata l’informazione ed il modo di farla. Basti pensare che quando siamo partiti 22 anni fa non c’erano praticamente cellulari e neanche internet. Tutto si basava sui VHS e ovviamente anche la qualità delle immagini era diversa. La cosa che è sempre (altro…)

Donne in lotta

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Due donne, apparentemente diverse, ma più simili di quanto possiamo immaginare: due donne in preda a forti passioni contrastanti, alla continua lotta tra ragione e passione, tra forza e debolezza, tra reazione e sottomissione. Questo è senza dubbio il tema centrale della sezione Visioni Doc, composta da “La mia casa e miei coinquilini” (Italia/2015), dedicato a Joyce Lussu, poetessa, traduttrice, partigiana e “Elisabetta“(Italia-Svizzera/2015), ispirato a Elisabetta Ballarin, all’epoca dei fatti compagna di Andrea Volpe, pluriomicida riconducibile alla setta delle “Bestie di Satana”. Elisabetta, allora diciottenne, vive una vita complicata: é tossicodipendente, è morbosamente legata al suo fidanzato e assiste all’omicidio di Mariangela Pezzotta, ex fidanzata del Volpe, perciò viene accusata di concorso in omicidio e rapina, commessa il giorno prima, ai danni di uno spacciatore di eroina.
Le due opere mettono in risalto due facce della stessa medaglia: la prima di Marcella Piccinini evidenzia la figura di Joyce Lussu, donna colta, attiva e intraprendente, fervente rivoluzionaria antifascista e costantemente in lotta contro una visione della donna subordinata alla figura maschile. Joyce stringe una forte amicizia con Nazim Hikmet, poeta e prigioniero politico, il quale anche dal carcere trova il modo di far trapelare le sue poesie dirette al mondo e ai singoli facendole a volte imparare a memoria a sua madre, durante le visite. Infatti, il carcere può certamente limitare la tua libertà personale, ma non potrà mai imprigionare il pensiero. La seconda opera é di Anna Bernasconi che racconta di Elisabetta Ballarin, giovane donna, vittima di un amore e dei soprusi ad esso connessi si ritrova a soli 15 anni ad affrontare una forte tossicodipendenza condivisa con il Volpe. Poi il buio: l’omicidio di Mariangela, al quale lei assiste e a seguito del quale sta tutt’ora scontando una pena carceraria in regime di semilibertà. Elisabetta è l’emblema del riscatto, non voleva che accadesse tutto questo, non sapeva che il suo fidanzato fosse un pluriomicida e non sapeva dell’esistenza della setta, almeno a suo dire, ma riesce a rendere questa tragedia, di cui è protagonista, una vittoria: laureata e specializzata in carcere con il massimo dei voti, adesso Elisabetta è una ragazza in gamba e di successo, una ragazza che ha voluto dare un senso alla propria vita, impegnandosi per gli altri e ponendosi degli obiettivi, in memoria di chi una vita non ce l’ha più.
Due donne, epoche, vite e obiettivi diversi, ma che hanno in comune la voglia di essere padrone della propria vita, di prodigarsi per gli altri e soprattutto di lottare contro i pregiudizi, i soprusi e le ingiustizie, nonostante tutto.

Il racconto di un cinema breve

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Libertà vuol dire mettersi alla prova” – così Goffredo Fofi inaugura la cerimonia di apertura della 22ª edizione del concorso nazionale per corto e mediometraggi “Visioni Italiane” presso la Cineteca di Bologna. Mettersi alla prova, esattamente come hanno fatto i migliori registi che dal nulla hanno saputo inventare, creare, innovare, come dice Fofi “in una casa con quattro amici e avanzi di pellicola“. Il dialogo fra il Fofi e l’Arecco nella sua spontaneità e informalitá ha saputo cogliere un aspetto interessante del cinema di oggi non più espressione, in alcuni casi, dell’ispirazione geniale, ma prodotto di majors asservite al commercio. Il corto, pertanto, realizzabile con poche risorse economiche, lascia ampio spazio alla follia creativa dell’artista nella sua essenza più pura e libera a differenza di prodotti che, per quanto ben fatti, continuano a rappresentare l’espressione di una realtà commerciale. La presentazione “Il cinema breve. Dizionario storico del cortometraggio 1928-2015” a cura di Sergio Arecco e Paola Cristalli è stata l’occasione per un elogio del corto come forma primaria e pura di rappresentazione cinematografica. A riprova di ciò la proiezione di “Silhouette“, primo episodio di Terra di mezzo di Matteo Garrone vincitore del Premio Sacher nel 1996: é un corto dal crudo realismo che, a tratti ironico, descrive la tipica giornata di alcune prostitute nigeriane, una giornata vista non semplicemente dall’esterno come mera documentazione, ma dall’interno. Silhouette, un corto trasgressivo, così trasgressivo da aderire alla realtà e comunicarla perfettamente al pubblico con un misto di sorriso e amarezza.

“QUANDO LE DONNE A BOLOGNA”: STORIE DI IERI E DI OGGI

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“Quando le donne a Bologna..”, inaugurata il 18 febbraio nell’area centrale di Sala Borsa, è molto più di una semplice esposizione di foto, 90 per la precisione: è un memoriale di tutte quelle donne di ieri e di oggi che hanno contribuito a rendere questa città uno dei simboli più vivi per l’emancipazione femminile. La mostra, organizzata dall’Associazione Spigolo Tondo in occasione del 70° anniversario dall’estensione del diritto di voto alle donne nella turrita e dotta Bologna, prima tra tutte a realizzare il sogno di tante staffette partigiane, sarà visibile sino al 26 febbraio.

L’idea di celebrare queste coraggiose figure femminili con una raccolta, che rappresentasse le diverse evoluzioni intercorse nei processi di lotta per i diritti politici e più tardi per quelli civili e sociali, è nata dall’intuizione di Carla San Di Rocco, presidente dell’Associazione. Un giorno, mentre sfogliava uno dei suoi vecchi album, rimase colpita da una foto in cui la madre Tamara era seduta insieme ad altre donne appartenenti alla Commissione Femminile della Federazione del PCI che, come lei, avevano lottato per sovvertire quella che sino ad allora era stata una società profondamente patriarcale. Da queste sensazioni è nato un progetto di ricostruzione e rappresentazione di ieri e di oggi, che ha incluso la ricerca in vecchi album di storie nascoste dietro la carta velina per troppo tempo e l’intervento di fotografe professioniste come Sonia Lenzi e Melissa Iannello, per immortalare, attraverso i volti, tematiche di sapore sociale a noi contemporanee.

Le loro storie sono quelle che, come afferma Valentina Rizzo socia dell’associazione, hanno reso grande Bologna, ma pochi le conoscono, anzi per molti sono tutt’ora una scoperta. Il bisogno di recuperare questi ricordi da archivi di istituti e associazioni e ancora da quelli privati non ha voluto, dunque, semplicemente porsi come rimando ad un passato così ricco di ideali e partecipazione, ma anche come chiave di lettura per il nostro presente e il nostro futuro.

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A Bologna il 24 marzo 1946, per la prima volta, le donne sono potute entrare in una cabina elettorale e da allora il loro impegno nella rivendicazione dei diritti si è fatto sempre più vivo, mescolandosi alla ricerca dell’inserimento nel mondo del lavoro. La mostra si apre proprio con il richiamo a quei momenti e con quella foto così suggestiva per Carla San Di Rocco. Seguono i rimandi alle successive lotte. Negli anni ’70, sono stati inaugurati, nella cittadina tra colli e pianura, i primi asili nido, mentre nella biblioteca del Castel Bolognese, come testimoniano le immagini, si teneva la prima conferenza sulla contraccezione. Si trattava di un evento eccezionale: durante il fascismo, promuovere questa pratica era stato vietato per legge.

Ma non è tutto. Ci sono foto che vedono Piazza Maggiore gremita di donne col solo desiderio che l’aborto non fosse più una pratica clandestina. Era il 1976 e bisognerà ancora aspettare due anni per l’emanazione della prima legge che cancellasse l’aborto dalla lista dei reati, mentre negli anni ’80 l’occhio della fotocamera era puntato verso i preparativi per i primi incontri informativi sulla contraccezione. Sono questi i decenni in cui le donne cercano di acquisire maggiori diritti nello statuto dei lavoratori e districarsi nel loro ruolo di mogli, madri e lavoratrici senza penalizzazioni di genere.

Oggi, invece, rimane ben poco della passione politica di allora seppur la mostra riesca a trovare una connessione tra il passato e il presente. La precarietà del lavoro femminile sembra intersecarsi a brevi e fulminei sprazzi di rivendicazioni. Tra questi, le manifestazioni contro la violenza sulle donne, l’istituzione della prima Commissione per la parità, avvenuta in Emilia Romagna nel 2010 e l’accesso di alcune personalità femminili al ruolo di Presidenti e direttrici. Cira Santoro, Direttrice del Teatro Laura Betti, e Benedetta Rasponi, presidente CNA Impresa Donna sono solo alcuni esempi.

Ma questo non basta. Bologna è patria di ispirazione, perseveranza e acquisizione di obiettivi a volte quasi impensabili; su questo terreno, il fermento popolare ha radici troppo forti per emergere solo in una temporanea manifestazione. Ripensare ai sacrifici di Edera De Giovanni, fucilata dai fascisti nel 1944 o alla sofferenza di Lucy, una delle prime trans sopravvissuta ai campi di concentramento di Dachau significa fare un esame di coscienza personale e comprendere che questi non meritano di essere resi vani da un astensione alle urne anche in un periodo in cui il panorama politico sembra non essere all’altezza della tutela degli interessi comuni.

Calorina Delburgo, scrittrice ebrea fotografata da Melissa Iannello, è arrivata in Italia dall’Egitto nel 1956 e del nostro paese ama ricordare il senso di solidarietà e ospitalità, nato semplicemente dalla comprensione della sofferenza di chi raggiungeva l’Italia. Questo spirito comune è ancora esistente sui pavimenti e nelle piazze di questa città, pertanto bisogna tornare a crederci perché non si estingua completamente. “Quando le donne a Bologna..” non è un richiamo nostalgico del passato ma la rappresentazione visiva di una verità, che si propone di spronare tutti i sensi di chi vive nel presente.

Il bugiardino musicale: Fast Animals and Slow Kids – Locomotiv, Bologna

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Ogni volta che vado a vedere un concerto mi sembra come se me lo abbia prescritto il medico. Perché? Perché la musica ci fa bene, ci trasforma, ci permette di alleviare i dolori o alimentare i nostri sentimenti. Figuriamoci l’andare ad un concerto, che può diventare una perfetta catarsi in mezzo al piattume della routine quotidiana, un modo per buttar fuori quell’insieme di energie represse o per dimenticarsi dei pesanti pensieri settimanali.
Così, andando a sentire i Fast Animals and Slow Kids al Locomotiv di Bologna, immagino di scartare la confezione di un utile medicinale mettendomi a guardare (come in teoria bisognerebbe sempre fare) il bugiardino informativo dei consigli e delle controindicazioni:

INDICAZIONI: i Fast Animals and Slow Kids sono una band di Perugia nata nel 2007 dall’unione di quattro musicisti amici. Il nome prende spunto da una puntata del cartone animato “I Griffin”, in particolare la scena dove Peter Griffin racconta di un reality show in cui bambini lenti e grassocci sono costretti a fuggire da belve feroci e rapide. Lo spunto demenziale rende palese l’iniziale intento del gruppo di non prendersi veramente sul serio, unico obiettivo quello del divertimento. Ma dopo la vittoria nell’estate 2010 del contest per gruppi emergenti di Arezzo Wave Festival e l’appoggio del cantante degli Zen Circus Appino per la pubblicazione del loro primo album (Cavalli), qualcosa sembra essergli andata storta…
COMPOSIZIONE: Aimone Romizi (chitarra, voce e percussioni), Alessandro Guercini (chitarra), Jacopo Gigliotti (basso), Alessio Mingoli (batteria)
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: utile ad alleviare rabbia repressa grazie allo sfogo ottenuto dall’assistere ai loro concerti. Subitanea consapevolezza e conforto di essere tutti partecipi di una generazione che non può far altro che “combattere per l’incertezza”. Permette di accomunare ragazzine sedicenni a metallari intransigenti, cori da stadio rabbiosi a momenti di malinconia. Gruppo perfetto per chi adora pogare.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: munirsi di scarpe comode e spalle pesanti. Rischio di costole rotte o denti scheggiati nel corso degli svariati poghi di massa invocati a forza dal cantante. Attenzione ai frequenti stage diving di quest’ultimo (o vi ritroverete con un suo piede in testa). Se non sapete da dove vengono state sicuri che ve lo ricorderanno loro: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids… e veniamo da Perugia!”
DOSI CONSIGLIATE: Questo è un cioccolatino EP (2010, To Lose La Track), Cavalli (2011, Iceforeveryone), Hybris (2013, Woodworm), Alaska (2014, Woodworm). Prendere un album a scelta e fare attenzione al volume degli auricolari.
MODALITA’ D’USO: prendere le dosi consigliate e dirigersi verso uno dei loro concerti, come ad esempio quello del 29 gennaio al Locomotiv di Bologna.

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Lette le istruzioni, posso finalmente prendere la mia medicina. Mi dirigo al Locomotiv a pochi passi dalla stazione accompagnato da due amiche. Il locale dalle pareti rosse si presenta non proprio grandissimo per colpa del bar che si insinua a metà del centro della sala, e le persone sono sempre più in aumento (all’entrata avevo sentito che mancavano solo tre biglietti per il sold out), ma alla fine si riesce ad avere un discreto spazio indivuale. Decido di posare il giaccone nel guardaroba per non fare il masochista e diventare letteralmente un bagno di sudore, poi vado ad aspettare vicino al palco la band tanto attesa, mentre l’ultima canzone del gruppo di apertura, i Capra, sta sul punto di terminare. Il concerto inizia alle undici meno un quarto. Il tour di sette date intrapreso dai Fask agli inizi di gennaio rispecchia i sette anni in cui questi quattro ragazzi stanno suonando insieme. “Gran Final Tour 2016” (ora terminato nell’ultima data di sabato 8 febbraio all’Alcatraz di Milano) è il coronamento di una carriera piena di sorprese e un saluto finale prima di una lunga pausa che li terrà impegnati alla realizzazione del loro futuro nuovo album. Con loro c’è anche il bravissimo Nicola Manzan del progetto Bologna Violenta in veste di chitarrista e violinista, gà in collaborazione con la band riguardo ai loro ultimi due album. Ma questo tour non è altro che il proseguimento e il termine del loro “Alaska Tour”, partito in seguito alla pubblicazione del loro ultimo disco che gli ha permesso veramente di coronare il loro successo nella penisola, tanto che nel giro di poche ore Alaska è stato il disco “alternative” su Itunes più venduto in Italia. Ma bando alle ciance e ai pensieri di attesa, finalmente i quattro ragazzi di Perugia arrivano sul palco. Si comincia con OVERTURE, effettivamente primo brano del loro ultimo album. Molto suggestivo grazie a Manzan al violino, lascia trascinare il pubblico verso emozioni malinconiche che ricordano paesaggi lontani e copiosamente innevati come l’Alaska. “Scusa, mi lascio andare un po’… ora, dopo ritornerò” la frase cantilentante prosegue in coro finché non si dissolve nelle chitarre di svolta e nell’urlo di Aimone. Il primo pogo è ovviamente avviato. Poi è il turno di CALCI IN FACCIA, grido di battaglia teso a non arrendersi mai di fronte a tutte le sciagure che la vita ci riserva. “
Datemi l’ennesimo calcio in faccia, che da un occhio ci vedo ancora” ed effettivamente tutti i loro concerti sono un continuo superamento dei propri limiti, una necessaria esigenza di metterci tutto sé stessi, loro sul palco e noi nei cori e nel pogo. Arriva un’altra canzone dell’ultimo album, forse la più bella: Il mare davanti che è un grido di libertà e autodistruzione tanto quanto aveva annunciato la canzone precedente. Le emozioni scorrono veloci e rispecchiano gli stessi colori che Alaska può trasmette a qualsiasi ascoltatore. Si ritorna al disco precedente: di Hybris compaiono CANZONE PER UN ABETE II, TRENO e COMBATTERE PER L’INCERTEZZA. Quest’ultima racconta di quell’istinto combattivo e allo stesso tempo completamente complessato da tutti i dubbi adolescenziali, quella “hybris” (furore) che solo accettando se stessi permette di essere mitigata e trasformata. Aimone canta: “Accetto me stesso e ciò che destabilizzo” e “Io avevo paura di esser diverso, lo sento, ma ora divento più grande e cambio le sorti del mondo“. Credere in sé stessi, coltivare le proprie passioni, accettare le proprie debolezze, sfogarsi nella giusta maniera. E i vari spazi circolari dedicati al pogo, che durante queste canzoni si formano, a mio avviso sono un buon modo per scaricarsi, sempre per chi può permettersi di avere due spalle belle dure. Le mie non reggono, e mi discosto un po’. Nel mentre degli spintoni e dei continui crowd surfing della gente (durante il concerto ce ne saranno stati quasi una quindicina) era apparsa TE LO PROMETTO che il cantante ha dedicato ironicamente a tutti i loro amici. Poi IL VINCENTE permette di riposarsi dal prolungato movimento di gomiti e ginocchia, e tra il violino di Manzan e la voce sentita di Aimone c’è anche modo di intravedere qualche sprazzo di commozione per chi, come me, ha vissuto i loro album intensamente e li ha appiccicati alle emozioni che ha offerto il loro percorso di vita. Arriva poi COPERTA, canzone che parla di una relazione ormai prolungata allo sfinimento e ultimo singolo uscito da Alaska accompagnato da un video. Subito dopo mi fanno un regalo e buttano fuori la mia canzone preferita del loro secondo album, CALCE, tra pause e cadenze da stadio, tra cori e salti di gruppo. Si continua con quella che in letteratura si chiamerebbe una dichiarazione poetica: ODIO SUONARE ricorda al pubblico l’aspetto relativo di tutte le verità che possono essere estrapolate dai loro testi e rimette sullo stesso piano pubblico e cantante. Questo canta: “Non ho certezze per me stesso, perché dovrei averne per voi?”. Noto un collegamento con i Pearl Jam e mi ricordo come nella canzone Leash Eddie Vedder cercava di eliminare quel fantoccio da idolo di una generazione che i mass media avevano cercato di affibiargli (“I am lost, I’m no guide, but I’m by your side”). MARIA ANTONIETTA non si fa attendere ed è accolta calorosamente dal pubblico, anche perché tra le canzoni più conosciute della band. Il pogo continua e io vengo sballottato avanti nelle prime file (quelle più coraggiose) perdendo di vista le mie due amiche già molto spesso divise dal pubblico. Ci si riposa un’altra volta, e la chitarra di Alessandro introduce il brano di chiusura del loro ultimo album, GRAN FINAL. “Padre salvami, dalle molte piaghe”, da sempre la parte iniziale mi ricorda l’inizio di una canzone dello stessa band a cui avevo pensato prima, i Pearl Jam, e per l’esattezza Release, in cui il cantante invoca sempre il padre in cerca di una redenzione (“Oh dear dead, can you see me now?… Release me”). Ma breve è la pausa di respiro per il pubblico, perché come sempre la musica dei Fask è un continuo spostamento tra attimi di attesa e momenti di esplosione. Gran Final è un inno all’adolescenza ormai sul punto di terminare, un continuo slancio di volontà di autoespressione verso un futuro che appare sempre più incerto per tutti. Non prendersi sul serio è comunque la lezione da cui è partito il gruppo e quella con cui questo ultimo album finisce, perché “Finchè rido resto in piedi, al futuro sputo in faccia“. E alla fine non rimane che rendersi consapevoli di essere tutti sulla stessa barca, ciascuno con le “sue corde da sciogliere“, e presenti lì, come ci dicono gli stessi Fask, “Sarai uno di noi”. E sì, sono proprio uno di loro, questo penso ormai racchiuso tra schiene più alte di me e scapole altrui che aderiscono al mio petto, sempre più davanti a quel palco, mentre vedo Aimone fondersi con la sua stessa chitarra nel riff e nell’inno finale. Un istinto di felicità mi fa rendere conto di come veramente loro abbiano usato “ogni goccia di sudore” per noi, come lo stesso cantante dichiara nel corso del concerto. Dopo qualche minuto di pausa (anche per loro cinque che si dirigono dietro il palco) la musica ritorna. Da qui comincia ad instaurarsi un collegamento sempre più diretto tra band e pubblico. Il cantante chiede cortesemente al pubblico di intonare la prossima canzone (TROIA) che, dopo i quattro riff di chitarre ben riconoscibili, esplode nel coro e nel pogo.
Il rapporto con la gente in sala si fa ancora più diretto nel momento in cui Aimone decide di dilungarsi in una breve chiacchierata di ringraziamento a tutto lo staff, a loro stessi, ai fan, per poi ritornare con la formula ormai consolidata nella frase: “Siamo i Fast Animals and Slow Kids, e veniamo da Perugia!”, seguita da un carnevale di applausi chiesti gentilmente in precedenza. Aimone ringrazia ancora una volta, abbracciando i suoi colleghi, umile come un bambino, quasi sempre incredulo di un successo arrivato a loro così inaspettatamente (ma a mio avviso tutto ben meritato sullo sfondo della musica contemporanea italiana). Si prosegue con la famosa A COSA CI SERVE ed il primo singolo di Alaska: COME REAGIRE AL PRESENTE. “Ricordatevi di noi fra trent’anni, che avremo bisogno di voi” cita il ritornello della canzone. Ma se questa è la richiesta del gruppo, noi non possiamo far altro che riproporgliela affinché non ci facciano aspettare troppo prima che si facciano rivedere sui palchi. Per fargli sapere che siamo soprattutto noi ora ad aver bisogno di loro. Aimone finisce la canzone non in stage diving (come invece ha fatto durante altre due o tre brani) ma allungandosi verso il pubblico stringendo mani di gratitudine. Mi ci metto anch’io e stringo forte la sua, semplice nel contatto, così umana. Seppur non abbiano fatto nessuna canzone del loro primo album, la band umbra non ha deluso le mie aspettative.
Torno a casa sudato e completamente distrutto, assieme alle mie due amiche. Ma mi sento rinnovato, pronto ad affrontare il ritorno alla pesante routine di tutti i giorni. Sembra proprio che la medicina abbia fatto il suo effetto.

Una mostra per riflettere

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50 gradi di libertà: una mostra per riflettere
Possiamo davvero decidere? Liberi si nasce o si diventa? C’è libertà o ci troviamo in una gabbia
digitale? Sono solo alcune delle questioni che emergono nell’esposizione “50 gradi di libertà” aperta
al Mambo fino allo scorso 22 novembre. Queste, apparentemente facili da sciogliere, sono in realtà
offuscate dall’attenzione che riserviamo a relazioni, studio, divertimento e infine lavoro. Eppure se
non sappiamo qual è il nostro grado di libertà, non siamo nemmeno in grado di sfruttarlo ed
apprezzarlo sino in fondo. Così in occasione di questa mostra nella dotta Bologna, mi sono presa la
libertà di rifletterci (se non in questa città, dove?).
Nella sala più grande dell’esposizione al museo di arte moderna, era impossibile non rimanere
immobili di fronte ai video che illustravano alcuni dei momenti più intensi e tragici della storia (le
guerre mondiali e il nazismo) e le sperimentazioni psicologiche che sono state in grado di
sconvolgere il nostro modo di agire nei confronti del prossimo (l’esperimento dei prigionieri
nell’Università di Stantford). Immagini atroci scorrevano di fronte ai miei occhi: in alcuni frangenti
c’erano delle persone con dei numeri sullo schermo, prigioniere ma consapevoli di trovarsi in una
gabbia, subito dopo si vedevano i ricercatori dell’esperimento dell’università di Stantford.
Recitavano così bene che facevano del male ai soggetti dello studio. Erano manipolati, influenzati e
oppressi dai loro stessi ruoli senza che potessero avvertirlo. Sono stati proprio quegli errori a
spingere i nostri antenati a lottare e capire che cos’è la libertà. Posso percepire ora quella
consapevolezza come se fossi stata io a conquistarla, ma sono davvero libera? altre è come se
predominasse un pilota automatico nella nostra mente.
Se riconsideriamo alcune delle più grandi conquiste dei nostri tempi ce ne accorgeremo: dalla
possibilità di leggere, a quella di curarci, essere educati, imparare nuove lingue, informarci,
comprare i prodotti, unirsi nei sindacati e votare, avere un’assicurazione e infine ad utilizzare la
tecnologia, diamo per scontate gran parte di queste libertà. Eppure se grandi artisti e scienziati non
avessero espresso concretamente la loro immaginazione, oggi non potremmo dedicarci allo studio,
alla lettura o allo sport quando fa buio.
Stessa cosa sarebbe avvenuta senza l’Unione Europea: al di là delle perplessità, ristabilire la pace e
unire gli stati in una comunità ci ha permesso di viaggiare e conoscere altre lingue e culture, come
mai era avvenuto nel corso dei tempi. Un’altra libertà, appunto.
Ma se davvero abbiamo a disposizione ogni strumento utile per incanalare energia e creatività,
allora la risposta alla prima domanda è “si, sono libera”? Nikolaj Berdjaev diceva che la libertà è
innanzitutto disuguaglianza. Essere liberi dovrebbe ad esempio garantire a noi giovani studenti la
possibilità di inseguire le nostre aspirazioni e le nostre passioni e di far propri degli ideali a
prescindere dalle conseguenze.
In altri termini, non dovremmo sentirci colpevoli se studiare Virgilio e Tacito è per noi una
vocazione. Eppure lo facciamo e, nel peggiore dei casi, scegliamo altro per ragioni che opprimono il
nostro volere: una di queste è la paura di fallire. Ecco perché, dal mio punto di vista, liberi si nasce
e si diventa: a dimostrarlo sono non solo coloro che durante le rivoluzioni degli anni ’60 hanno
manifestato con coraggio per acquisire nuovi diritti, come era illustrato in uno dei video di “50
gradi di libertà”, ma anche chi ogni giorno opta per la strada più difficile.
Ho sempre pensato che esistano due facce di una stessa medaglia: solo una di queste corrisponde
alla nostra realtà. Nel mio ideale c’è sempre una persona che abbandona una posizione di stallo per
seguire le sue intuizioni e conquistare i suoi sogni: il motore è la volontà che decide se e come
cambiare.
Questa è la parte della società che preferisco, mentre nell’altra c’è l’inconsapevolezza. I protagonisti
sono, nel primo caso, i premi nobel dell’arte e della scienza o personalità forti, indipendenti e
volenterose, nel secondo, persone comuni che usufruiscono di strumenti come smartphone o tablet
ininterrottamente, ingabbiandosi da soli in quel modo virtuale. Neppure noi studenti siamo esenti da
questo meccanismo. Ma, al di là di ogni strumento, a renderci meno liberi sono le nostre sensazioni.
Dopo i terribili fatti di Parigi, andare ad un concerto, seguire una partita di calcio e terminare la
cena in ristorante per alcuni è diventato un incubo: venerdì 13 novembre a Parigi ha ristabilito la
paura in molti di noi. Ecco che cosa ci opprime davvero. Il terrore, anche se impercettibile, è in
grado di ostacolare ogni giorno la nostra libertà: non siamo più padroni di chi siamo, chi
diventeremo e cosa facciamo. Solo ribellarci alla stessa paura, può ridarci allora il nostro grado di
libertà.

Lavediamocosì: CHIAMATA ALLE ARt

Che tu sia uno studente di sociologia, giurisprudenza, economia, lettere o quant’altro: usa la tua arte, usa la tua scienza, dai la tua opinione. #Lavediamocosì vuole essere un laboratorio di partecipazione attiva e alternativa.

piazzaverdi04Storicamente Piazza Verdi è la Piazza degli Studenti. Nei secoli ne abbiamo plasmato forma e funzioni. Storicamente Piazza Verdi è un luogo di conflitto: politico, ideologico, tra Comune e collettivi, tra cittadini e movida, tra chi richiama la sicurezza e chi urla contro la militarizzazione della zona. Storicamente, perchè dal 1560, Bologna vive la contradditoria tensione tra studenti e residenti: scoppiano i primi contrasti con la cittadinanza. Muore uno studente. Negli ultimi mesi, lo scontro sembra esacerbato. Così lo dipingono i giornali locali, così lo vivono i residenti, tale lo percepiscono gli studenti. Quale scontro?


Mi ci è voluto del tempo per approcciarmi al tema: tempo per informarmi, per leggere e per ascoltare. Non potevo infatti arrendermi alle opinioni unilaterali, asciutte e sterili che leggo sui social network o ascolto tra amici. La mia era una di queste opinioni sterili.

Con gli amici di Sinistra Universitaria, da studenti e da attivisti, ci siamo quindi posti una semplice domanda: cosa possiamo fare? La risposta tuttavia, come spesso accade, doveva essere preceduta da un’altra domanda: quale è il problema? (altro…)

This must be the place. O forse no.

IMG_6933Le mie nuove vecchie abitudini.

Quando sono in procinto di rientrare per le vacanze gli ultimi giorni li vivo in maniera molto distesa. Tanto manca solo 1 giorno 23 ore, 56 minuti e 11 secondi. Ma chi li conta?
Non appena arriva il giorno, nonostante abbia ricontrollato mille volte, esco di casa convinto di aver dimenticato qualcosa e sicuramente qualcosa l’ho dimenticata. Ma tranquilli, lo scoprirò quando sarà ormai troppo tardi.
Poco importa però, sto tornando a casa, sto tornando nella mia Sardegna.
Metto le cuffie, afferro la valigia e prendo l’aereo. Poi, una volta atterrato, vado incontro ad una delle parti più belle del rientro, l’area degli arrivi.
Quel posto è come avvolto da un’atmosfera magica, esco dalla porta e vedo i volti sorridenti delle persone che attendono qualcuno. Che tu sia via da molto tempo o da poco tempo non importa, arrivi e ad attenderti c’è un sorriso. Forse è questo che mi piace tanto.
Il primo giorno a casa è sempre meraviglioso. I miei genitori non mi vedono da mesi quindi tendono un po’ a viziarmi, sembra quasi che sia tornato da una missione in Afghanistan. Certo, devo ammettere che i buffet dell’aperitivo a Bologna sono un territorio di guerra abbastanza aspro, ma non credo che si possano paragonare.
Io comunque ci marcio un po’ sopra, allora in maniera molto vaga esprimo i miei desideri con frasi tipo: “ci vorrebbe proprio una cena di pesce, a Bologna non lo mangio mai” o cose simili. Lo so, starete pensando che sono una brutta persona, ma non mi vedono da tanto, viziarmi fa piacere anche a loro. O almeno credo.
Quando vedo mia nonna avviene il più classico dei clichet, mi chiede se ho mangiato.
Per non so quale motivo vive con la strana convinzione che nella città in cui abito non mangio a sufficienza, così prova a integrare in qualche giorno quello che, secondo lei, non ho mangiato per mesi. Con il risultato che il bagno al mare lo potrò fare direttamente l’estate prossima.
Come ogni volta che rientro mi fa sempre un effetto strano tornare a dormire nella mia camera. Per molti studenti fuori sede questa è una situazione particolare perchè quella che è sempre stata la tua camera può aver subito delle trasformazioni da quando non ci sei.
Nella migliore delle ipotesi è rimasta uguale a come l’hai lasciata con la sola differenza che adesso è ordinata e non ci sono più i vestiti sulla sedia. So che è dura vivere con tutto questo ordine ma tranquilli, in appena un paio di giorni sono sicuro che sarete riusciti a far tornare tutto come prima.
Nella peggiore delle ipotesi, invece, tuo fratello/sorella sta cercando di usucapirla per farla diventare la sua. Ciò vuol dire che ti tocca essere ospite in quella che un tempo era la tua camera e, come se non bastasse, devi anche stare attento a non fare casino perchè sennò ti prendi pure i rimproveri.
In mezzo a queste due possibilità c’è comunque una via di mezzo, che è anche quella in cui mi trovo io.
La tua stanza all’apparenza è rimasta uguale. Stesse foto sui muri, stessi biglietti di concerti appiccicati alle pareti, stessi fumetti sugli scaffali, ma in realtà è tutto un bluff.
Vai ad aprire gli armadi e dentro ci trovi solo ed esclusivamente vestiti di tua madre e tua sorella. Nella scarpiera la stessa cosa. Cassetti, idem.
Complimenti, la tua stanza è appena diventata una fantastica cabina armadio!
Mi sembra di essere in una puntata di Sex and the city ma con molto meno sex.
Comunque cerco di farmene una ragione e vado a letto, alla fine i primi giorni sono già un po’ traumatici di loro, cerco sempre di andare al mare la mattina ma ho sempre delle ore di sonno da recuperare o mille commissioni da sbrigare quindi finisco per andarci solo nel tardo pomeriggio.
Con un sole che ormai non abbronza più mi appresto a sfoggiare la mia fantastica abbronzatura da biblioteca. 50 sfumature di bianco.
Prima di tornare per le vacanze il mio professore mi ha detto: “vai ad abbronzarti che ti vedo un po’ bianchiccio”. Lì ho capito che la situazione era alquanto grave.
La sera, dopo il mare, scatta l’aperitivo e con un po’ di amici ci troviamo sul lungomare per una birretta.
Tutti insieme cerchiamo di metterci d’accordo per decidere in qual spiaggia andare il giorno successivo. Soprattutto ci concentriamo molto sulla puntualità e sul fatto che partiremo al massimo alle 11. Chi c’è c’è, chi non c’è non c’è.
Ecco, non ci sarà nessuno.
La sera è diventata notte e “una birretta” sono diventate dieci o dodici. L’abbiamo chiusa alle 5 di mattina tutti sbronzi. Se tutto va bene il primo che si sveglia lo fa all’una. Mi sa che anche oggi ci abbronziamo domani.

Quello che non ho è quel che non mi manca.

Passano i giorni ed inizio a prendere un colorito umano, intanto cerco di mettere in pratica tutte le idee di viaggio che ho avuto nei mesi in cui ero a Bologna. Escursioni, gite in canoa, trekking; nella lista mi manca solo uno degli 8000, ma ci stiamo lavorando.
Da 5 anni con alcuni amici abbiamo una tradizione; fare un’escursione di un giorno nella zona del golfo di Orosei. Siamo partiti il primo anno con Cala Goloritzè in cui il percorso è molto semplice, quest’anno però abbiamo voluto alzare il tiro, Cala Mariolu.
Il percorso è di circa 12km andata e ritorno con punta di altezza massima di 588 metri sul livello del mare, i sentieri sono poco segnalati ed è etichettato come un tracciato per escursionisti esperti. Ci tengo a dire che il più atletico del nostro gruppo si era appena laureato e stava svolgendo una severa preparazione atletica a base di birra e vino.
Non vi racconterò il percorso perchè va vissuto sulla pelle, vi dirò solamente che ci siamo persi ma che ci siamo anche ritrovati, che abbiamo gioito come bambini quando abbiamo visto il mare dopo 4 ore di cammino, ma soprattutto che abbiamo visto un posto così:

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Le mie vacanze dopo questa avventura fanno il giro di boa perchè stiamo entrando nella settimana di ferragosto.
Questa data è come le due facce di una medaglia, da un lato il periodo più bello dell’anno, dall’altro, invece, ti fa capire che le tue vacanze stanno per finire.
Ormai sono a casa da un paio di settimane e ho ripreso le vecchie abitudini, quindi giustamente arrivano le cazziate da parte di mia madre per cose tipo il disordine, le ore piccole e tanto altro.
Purtroppo è svanita la magia del “sono appena tornato”. Prima o poi doveva succedere.
La settimana di Ferragosto la facciamo tutta d’un fiato con il mio coinquilino di Modena arrivato a trovarmi in Sardegna. L’ultimo giorno azzardiamo con un altro clichet: “Beh da oggi basta bere per un bel po’”. Tutte balle.
Chiudo l’estate con una settimana di relax in cui cerco di fare tutte quelle cose che, causa vari impegni, non sono riuscito a fare fino a quel momento. Ovviamente non ci riuscirò e non appena tornato a Bologna inizierò subito a viaggiare con la mente e a pianificarle per il prossimo ritorno.
Saluto tutti gli amici sapendo che è come se stessi premendo il tasto pausa di un registratore, consapevole che non appena tornerò andrò a schiacciare il tasto play e tutto ripartirà da dove l’abbiamo lasciato, stessi rapporti, stessa amicizia. Perchè con gli amici veri funziona così.
Vivo gli ultimi giorni di vacanza con un misto tra nostalgia e voglia di voler rimanere, anche solo un giorno in più. Ma non si può.
Penso sempre più spesso a dove sarà la mia vita quando avrò un lavoro. L’ho sempre immaginata nella mia città, non lontano da lì. Eppure da un po’ di tempo le cose sono cambiate, la vedo più distante, come se il mio futuro lavorativo fosse lontano da casa.
Vorrei dire “This Must Be The Place” come cantavano i Talking Heads. Vorrei dire “Feet in the ground, Head in the sky”, piedi nella mia terra e testa sotto il mio cielo. Ma la realtà è che non so quale sarà il mio posto. So quale dovrebbe essere ma non quale sarà.
Allora rimetto le cuffie, afferro nuovamente la valigia e riprendo l’aereo sapendo che stavolta non ci sarà nessun sorriso ad attendermi all’aeroporto, ma va bene cosi.
Va bene perchè sono stato con la famiglia, ho visto le stelle cadenti nella notte di San Lorenzo, ho girato dei posti meravigliosi che ho cucito nel cuore, ho visto molte albe e tantissimi tramonti, ho fatto le cazzate con gli amici e ho fatto le 9 di mattina insieme a loro per poi scoprire che è semplicemente “Late to bed and early to rise”, troppo tardi per andare a dormire e troppo presto per essere svegli. Ma che bello.

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