L'UNIversiTÀ

Bologna

IL BUGIARDINO MUSICALE: Umberto Maria Giardini + Enolibrì, TPO (Bologna)

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La malinconia a volte è una compagna inaspettata o indesiderata, ma non possiamo evitare la sua presenza in tutte quelle situazioni in cui il nostro masochistico gusto per ciò che è stato e ciò che non c’è più prende il sopravvento sul nostro animo. Allora, come mantenersi in quella sfera positiva della malinconia senza cadere nella diabolica attrattiva della depressione? Mi serviva una medicina: così ieri sera ho guardato bene nel mio cassetto di opportunità e ho scelto di andare a vedere Umberto Maria Giardini al TPO di Bologna.

INDICAZIONI: Umberto Maria Giardini è un cantautore italiano attivo sin dal 1999 sotto lo pseudonimo Moltheni. Dopo una carriera durata undici anni, una prematura partecipazione a Sanremo (per sua fortuna non ripetuta), molte collaborazioni importanti (Battiato, Verdena) e otto album pubblicati, decide di ritirarsi definitivamente dalle scene. Ma nel 2012 torna in campo con un progetto che porta il suo nome reale e pubblica tre album, per la gioia di grandi e piccini.
COMPOSIZIONE: Umberto Maria Giardini (voce e chitarra); Marco Marzo Maracas (chitarra elettrica); Giulio Martinelli (batteria); Michele Zanni (tastiere, synth, basso).
INDICAZIONI TERAPEUTICHE: Infonde fiducia nel poter sentire in Italia bellissime musicalità unite a testi poeticamente visionari. A volte basterebbe semplicemente spegnere la radio o Mtv.
AVVERTENZE E CONTROINDICAZIONI: Meglio qualche secondo di silenzio che un minuto di imbarazzo: a causa di molte pause e sospensioni all’interno dei brani, chi non conosce le canzoni rischia di sfociare in applausi tremendamente fastidiosi nel bel mezzo delle strofe, come ho potuto notare durante la serata.
DOSI CONSIGLIATE: La dieta dell’imperatrice (2012, La Tempesta/ Woodworm/ Venus); Ognuno di noi è un po’ Anticristo EP (2013, Woodworm); Protestantesima (2015, La Tempesta Dischi).
MODALITA’ D’USO: Dirigersi in collina al tramonto, in un balcone vista mare, sotto un portico o ad un suo concerto, chiudere gli occhi e prendere le dosi consigliate. Se queste non bastassero risfogliare il precedente catalogolo musicale sotto il nome di Moltheni.

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Cercando informazioni sull’inizio del concerto scopro che quest’ultimo in realtà fa parte di un evento più grande: Enolibrì, quattro giorni (dal 17 al 20 marzo) di mercato per dare spazio alle produzioni di editori e vignaioli indipendenti. Il tutto accompagnato da musica, dibattiti, assaggi, e al costo di solo 1 euro!
La location è il TPO (Teatro Polivalente Occupato) di Bologna: in fondo il bancone con il vino e gli aperitivi, al centro gli stand degli editori con libri e fumetti, dall’altro lato il palco con le presentazioni e la musica.
Quest’ultima inizia intorno alle 22:30 con Daniele Celona, bravissimo cantautore dell’energia unica, una piccola scoperta a inizio serata.
Un’oretta dopo arriva Umberto Maria Giardini: si presenta da solo alla chitarra, mentre mano a mano dalle quinte arriva il resto del gruppo. Come per rivendicare le proprie radici musicali si iniza subito con una canzone del passato Moltheni: L’attimo celeste (prima dell’apocalisse). Si capisce all’istante che il pubblico verrà trasportato in un’altra dimensione. Le chitarre tagliano l’aria introducento la marziale Urania, brano dell’ultimo album compagno di quel lato sofferto della malinconia (“Oggi è un altro giorno vuoto/oggi è un altro giorno in cui ti invoco“). Si passa con Amare male in un crescendo di sensazioni che sfociano nel lungo finale e nel lirismo del cantautore (“Chi digerisce i miei no per le colpe che non ho“). Un altro finale capiente è quello del brano successivo Tutto è Anticristo, pezzo molto strumentale che fa navigare tra i meandri della psichedelia e che riflette tutta la bravura dei musicisti all’opera. A questo filone di sensazioni si ricollega un altro brano dello stesso EP (Ognuno di noi è un po’ Anticristo) ovvero Omega. E’ il momento dell’omonima traccia dell’ultimo album: Protestantesima, potente e rockeggiante, è un inno alla sincerità tipica di una persona come Umberto che di certo non ha peli sulla lingua. La frase “I preti e gli operai le chiavi dei miei guai” mi ricorda tanto la poesia di MontalePiccolo testamento” in cui l’autore rivendica una propria coerenza personale che “Non è lume di chiesa o d’officina/che alimenti/chierico rosso, o nero“. Anni luce arriva splendida come sempre, un tunnel che sembra veramente condurci “lontano anni luce”, fuori dal tempo, fuori da noi stessi. Chiudo gli occhi e mi accorgo che è proprio così. Durante un classico momento di sospensione del brano successivo, Molteplici e riflessi, si ripete una situazione imbarazzante, ma ora giunta dai fonici dietro il palco che, parlando troppo ad alta voce, nell’attimo di silenzio vengono inevitabilmente sentiti. Umberto si gira sorridendo verso di loro e riesce a passarci sopra. Ma effettivamente l’unico punto negativo dell’evento è che essendoci molta gente dall’altra parte del TPO intenta a fare altro (tra vino e libri) non si riesce ad avere un silenzio completo che richiederebbero canzoni riflessive e delicate come quelle del cantautore.
Si riparte con Il vaso di Pandora, invettiva verso una Milano sempre più cocainomane. Anche qui Umberto si allontana dal mainstream “E se è vero che tutto si compra e il denaro rincuora/resto pulito e raro/e chi se ne frega” in tutta la sua purezza musicale. A seguire la perlacea Sibilla e la meditativa Quasi Nirvana. Continua con un altro brano del primo album La dieta dell’imperatrice: il trionfo dei tuoi occhi, sempre molto visionario tra impressioni nostalgiche e parole metaforiche.
Torna il passato Moltheni e arriva Educazione all’inverso. Poi il cantautore si sofferma un attimo: “Chi mi conosce sa che non mi piace parlare molto sul palco. Non mi piace la gente che lo fa. Lo evito per non dire troppe… cazzate” e in questa semplice frase si rivela tutta la filosofia di un autore come lui, sintetico, incentrato sull’unica cosa importante per il suo lavoro ovvero la qualità della sua stessa musica. Ed è per questo che musicalità come le sue, nonostante meriterebbero un maggiore successo, possono continuare a vivere solo in ambienti più intimi, al di lá delle orecchie viziate dal pop più banale e da testi asciutti di contenuto. Questa invece è poesia.

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Il discorso continua: “Dirò solo che la prossima è una canzone col tempo rivelatasi molto importante per me, per quello che faccio e per quello che continuerò a fare. Voglio dedicarla a mio fratello”. Il brano è Saga. Dopo altri vari ringraziamenti e un saluto finale, il concerto termina con un brano dell’ultimo album Pregando gli alberi in un ottobre da non dimenticare.
Ci ringrazia ancora, ci riguarda tutti, compreso me, intento a battere le mani davanti al palco assieme ad un mio amico. Alla fine decido: compro il suo cd e me lo faccio autografare.
La malinconia si è prosciugata nelle emozioni di una serata stellare e di un evento come Enolibrì che, a mio parere, è stato molto ben organizzato in tutte le sue sfumature artistico-culinarie e culturali. Ed è proprio in ambienti come questi che nasce e si diffonde la poesia. Ed è proprio per questo che consiglio vivamente di andarci anche questa sera, ultima data del festival che vedrà anche la partecipazione del particolare dj Don Pasta e del cantautore Pierpaolo Capovilla.

Bologna é una regola?

image(Foto di Giovanni Andreani)

Sono ai 300 scalini, il colle da dove si vede il destino di tutta la città. Non sono giunta fino a qui per rispondere alla domanda iniziale, ma per pormela dall’alto. Una regola per essere tale deve darci un comandamento e noi dobbiamo trovare una sintonia nel volerne essere condizionati. Il palazzo dell’Ospedale Maggiore in lontananza, tutta la città antica diffusa a macchia confusa, di cui resta solo un colore rosso intenso che ne copre le forme, gli spazi vuoti che se ne intravedono in mezzo. San Luca in alto sulla sinistra. San Luca che è la prima cosa che vedi di Bologna quando stai per tornare da un treno che ti ha portato qui da un altro altrove. San Luca che è la prima cosa che vedi di Bologna, quando da Bologna vuoi scappare. E come nell’Infinito di Leopardi quella Basilica, posta sulla terrazza della città, pare sembrarti la siepe oltre cui non poter spostare più i tuoi pensieri.
Bologna la puoi incontrare in tanti momenti della vita. La puoi incontrare quando arrivi, quando te ne stai per andare. Quando sei arrivato già da un po’, ma solo una sera, in un all’ improvviso non programmato, ti prende la nostalgia di un profumo che hai avvertito all’angolo di una strada in centro. L’ ipod con la musica scarico ti ha costretto a mettere via le cuffie e così devi necessariamente respirare il rumore di questa città dal vivo. Sarà facile allora accorgersi di come Bologna viva di una musica propria, trafficata di immagini che sono un fragile e variabile elenco di tutti i quadri di parole e di scene umane che la popolano senza invaderla: il violinista piazzato davanti via de’ Musei che cerca sempre di rubarti l’ispirazione per il suo nuovo pezzo dal sorriso o dalla malinconia che la tua espressione si è cucita addosso quel giorno, due ragazze sedute sui gradini di San Petronio che fanno un gran vociferare di confidenze mentre bevono bicchieri pieni di altrettante cose che non si diranno, gli umarell davanti il cantiere Rizzoli, le mani incrociate dietro la schiena e tutto un parlottare a gesti, un uomo sui quaranta  con la valigetta in mano e una bella camicia bianca col colletto slacciato, cammina di fretta mentre parla al telefono. Pensi che pagheresti per sapere se fra quindici anni avrai anche tu quella stessa sicurezza nel sapere dove andare in una mattina come un’altra.

Io Bologna la incontrai una sera di un po’ di tempo fa seduta sugli scalini di San Giovanni in Monte. Mi accorsi che non era una città come le altre, ma che aveva dentro di sé altre città. In quell’angolo che mi riservava quella sera compresi la sua regola: dare a tutti l’impressione che un posto di lei appartenga a loro. Una piazza, la terrazza del condominio dove abitano, una panchina dentro un giardino, un portico sotto cui vanno a chiacchierare. Tutti a Bologna hanno il loro posto. Quello dove l’hanno incontrata o quello dove si sono incontrati con loro stessi. Quello dove si sono fatti una fotografia con una persona che amavano, o quello dove hanno fotografato solo con gli occhi un momento che poi li avrebbe cambiati per sempre. E questa è una magia che non si può trovare altrove. Come se questa città fosse un enorme castello con un numero esagerato di stanze, ed anche se le stanze sembrano non bastare per quanti sono quelli che abitano il castello, in un modo quasi inspiegabile, alla fine ognuno riesce a trovare la propria: unica, nascosta. Quella dove sentire forte il peso del proprio posto in mezzo alla bellezza degli altri.
image(foto di Giovanni Andreani)

Questa la regola che fa da regola alle altre. Una volta trovata la propria stanza, viene da sé trovarsi incastrati in tutti gli altri comandamenti, quindi: vivere secondo un modo che è tipico di questo ambiente. Essere senza copione. A Bologna la vita è, quasi la maggior parte delle volte, una grande prima senza prova generale, e devi avere l’abilità di far finta di sapere gestire con arte situazioni non previste per non deludere lo spettatore che ti è dentro. Dall’università, agli amici, alle sere di pioggia, o a questo tramonto ai 300 scalini, è sempre una corsa contro l’emozione inversa.
Dicono che Bologna sia molto cambiata nel tempo, che prima si avvertisse di più l’armonia eccentrica della partecipazione, del movimento, della positiva confusione. Non abbiamo prove per dire il contrario, ma a me sembra come se a questa città appartenga un mistero che non le hanno strappato via gli anni. Rimane quasi illeso questo formulario di comandamenti che va dalle regole per gestire i luoghi fino a quelle per gestire il proprio tempo libero e non libero. Quelle che ti indicano strada per trovare la tua stanza, e quelle che ti impartiscono come arredarla. Con tende, senza tende, con una grande armadio o solo con una sedia dove poggiare pochi vestiti importanti.

image (Foto di Giovanni Andreani)

Bologna è una regola che può anche deludere. Perché ogni città ha dentro la città interiore che vivi in quel momento. La debolezza, la paura di non essere forte come lo pretende la vita che ti attende, l’amore che si nasconde dietro la solitudine introversa di una sera in centro. E Bologna è maledettamente brava a traslare su di sé, come uno specchio, le sensazioni che ti investono e a rivestirne della stessa pelle anche tutti i luoghi che la abitano. Le Torri ti sembreranno allora meno alte, meno infinite. E tutte le sue piazze meno ariose, più strette e affollate dalla confusione di una vita che non ti appartiene.
Ma la mattina dopo è gia passato. Perché Bologna, così come noi, si è già svegliata in un’altra maniera. Con la stessa frenetica fretta con cui cambia il nostro umore, cambia il suo. Perché l’umore di Bologna è il nostro nelle stesse proporzioni in cui sono nostre anche la sua grazia ed il suo carattere.
Bologna è la regola e noi siamo la regola di Bologna. Nessuno dei due sa prescindere dalla presenza dell’altro. Perché, nonostante in ogni posto in cui esistiamo lasciamo parti di quello che siamo, in questa città più delle altre andiamo a formare la sua storia mentre lei crea il nostro presente. Siamo le sue strade, i suoi pomeriggi, i suoi impegni.
È lei è la nostra domanda, le nostre notti insonni, lei è i nostri comandamenti.

London Afloat: vivere sulle barche nei canali londinesi

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Visioni urbane, categoria inserita all’interno del consorso nazionale per corto e mediometraggi Visioni Italiane, non è la semplice mostra dei luoghi cult di una città, ma piuttosto l’insieme di documentari su piccole comunità che la abitano.
Tra questi c’è “London Afloat” (2015) di Gloria Aura Bortolini, fotografa e giornalista, ma soprattutto documentarista che nemmeno in questo caso si smentisce, raccontando una realtà sociale che scorre sulle acque del canale Regent a Londra.

London Afloat mostra una città diversa da quella che siamo abituati ad immaginare e che molti hanno vissuto da turisti. Nella Big City le vite di acrobati, artisti, scultori scorrono all’interno delle barche che con pochi soldi hanno acquistato e galleggiano accanto al lussuoso quartiere di Maida Vale. L’interazione tra i residenti di questa area e chi sta nelle barche non è però sempre facile: i primi non apprezzano questi invasori che, dal loro punto di vista, deturpano la riviera, mentre i secondi, vagabondi e incompresi, amerebbero avere l’opportunità di interagirvi.

Questo desiderio pare, però, difficile da realizzarsi, mentre il loro stile di vita particolare, indotto principalmente da ragioni economiche, non lascia spazio ad alternative. Nel documentario si rappresenta, infatti, una comunità che si reinventa continuamente, combattendo contro la tassazione dell’organizzazione Waterways.

Significativo nel documentario è il contrasto con il canale del Tamigi in cui avere una barca è un lusso e le motivazioni per viverci sono strettamente legate ad un senso di libertà ed indipendenza. Chi la gestisce paga tra 100 e 200 mila sterline ed è per lo più preoccupato che vi sia una perfetta sintonia tra gli arredamenti, senza nessuno spazio per le imperfezioni.

Ma la componente forte, anche dal punto di vista emotivo, sono loro, i senza tetto, che galleggiano sul canale di Regent. La giornalista Bartolini riprende tutte le loro sfaccettature, incluse la frustrazione e il disorientamento per le regole imposte.
Sono persone di età ed estrazioni sociali diverse che reagiscono in base alla propria sensibilità. Alla fine del documentario spicca uno di loro, il più suscettibile alle pressioni del sistema, il quale si chiede come si possa vivere così a 50 anni. È con questa domanda, che l’intervistato e la giornalista Bartolini lasciano lo spettatore, ora consapevole di un nuovo mondo dietro la spettacolarità del Big Ben e del Tower Bridge.

Visioni francesi: storie di vita ordinaria

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Visioni Italiane si propone di esplorare l’eterno e immancabile connubio tra amore e odio attraverso l’esperienza di cinque cortometraggi di produzione francese di notevole impatto. Si parla della vita umana, il duro e arduo compito di stare al mondo, di affrontare le astrusità giornaliere ed esistere in un sistema a noi spesso ostile e contrario. Ma si parla molto anche della morte, concezione oscura e misteriosa, l’estremo passo verso una dimensione sconosciuta e totalmente inesplorata.
Il viaggio si apre con E.T.E.R.N.I.T(2015) di Giovanni Aloi, storia di Alì, un operaio tunisino alle prese con la difficile condizione dell’essere un immigrato in una terra straniera. L’amore c’è, è sentito e sofferto. Amore verso la propria terra e verso quella famiglia che tempo prima è stato costretto ad abbandonare. Rappresentazione schietta e sincera di un capitolo delicato della nostra società. Tristezza e grigiore dipingono la drammatica quotidianità di migliaia di immigrati nordafricani residenti in Italia. Ma alla fine del suo viaggio Alì potrà finalmente riabbracciare le persone che ama.
La famiglia e l’amore, elementi dominanti del seguente Bal De Famille (2015) di Stella di Tocco. Storia di un dramma famigliare vissuto attraverso gli occhi della giovane Julie, la quale non si rassegna ai soprusi subiti dalla madre. L’odio viscerale, manifestato nei confronti di quel padre austero e maschilista, colpevole diretto dei dispiaceri della consorte, e l’amore forse represso e forse schiacciato dal peso dell’incomprensione e del silenzio. Julie osserva, Julie scruta attentamente e in un ultimo disperato gesto sfoga violentemente la sua frustrazione di figlia passiva e afflitta.
La morte arriva inaspettata nello splendido L’Etourdissement (2015) di Gérard Pautonnier.
Dopo la morte di un collega, Eddy è incaricato di comunicare la tragica notizia alla moglie del defunto. La morte si converte in un’esperienza buffa e divertente coadiuvata da un saggio uso di gag condite con uno humor tipicamente francese. Basta solo uno scambio di sguardi, l’osservazione di un piccolo grande dettaglio per comunicare la devastante perdita del proprio amore, la persona che fino a quel momento aveva dato un senso alla vita della neo vedova Coppi.
Morte e odio, amore e incomprensione vengono racchiusi nelle mura domestiche del quarto cortometraggio, Maman(s) (2015) di Maïmouna Doucouré. Storia di adulteri, sofferenze e, ancora una volta, di drammi famigliari. Viviamo attraverso gli occhi della piccola Aida il suo dolore nei confronti della poligamia del padre, non accettata e mal vista. L’odio si trasforma in desiderio di morte, l’uccisione del frutto del peccato, il suo piccolo fratellastro, creatura innocente che da poco è venuto al mondo, ha conosciuto la vita. La morte si trasforma in vergogna, umiliazione e rigetto. La piccola Aida dovrà imparare a convivere e a comprendere gli errori del genitore.
Per ultimo, un viaggio tra le strade della nostra Bologna percorrendo vita, morte e miracoli di una delle personalità più illustri e controverse del secolo scorso, Pier Paolo Pasolini. Realizzato da una giovane ragazza francese, A Quoi Sert La Lumière (2015) di Cécile Lapergue è un atto d’amore verso la città rossa, una manifestazione di ammirazione e adorazione nei confronti di un genio del pensiero e della settima arte. Pasolini vive, nei ricordi della gente, nelle fotografie sbiadite ritraenti il suo volto scavato e nelle sue bellissime opere, le quali rimarranno immortali e splendenti per l’eternità. Vivere nei cuori e nei ricordi di chi resta non significa morire.

É accaduto in città

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Unire la fotografia alla passione per la storia di Bologna: queste le ragioni che hanno ispirato la giovane regista catanese Noemi Pulvirenti in E’ accaduto in città, mediometraggio della sezione Fare Cinema a Bologna e in Emilia Romagna, all’interno della 22ª edizione di “Visioni Italiane”.
Il protagonista è Luciano Nadalini, fotografo di cronaca dal 1984, che per l’Unità ha documentato numerosi eventi accaduti a Bologna negli ultimi trent’anni: da studente nel 1968, a operaio nel 1977, a fotografo dagli anni ’80 ha vissuto in primo piano occupazioni studentesche, rivendicazioni sociali e cambiamenti culturali di questa città e delle sue generazioni.
Con la penetrante delicatezza del bianco e nero, nel Natale del 1984 ha immortalato la strage del Rapido 904, di cui è rimasto emblematico lo scatto di un bambolotto fra le rovine dell’esplosione, così realistico da sembrare un bambino.
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Ha fotografato le cronache degli omicidi commessi dalla banda della Uno bianca, che per anni hanno tolto il fiato alla città di Bologna, ferita contemporaneamente dalla strage di Ustica e da quel 2 agosto 1980. Una città rossa per il sangue che l’ha attraversata e per gli ideali che l’hanno animata e resa bandiera al vento di una certa cultura.
Natalini raccontava quello che succedeva in città per il suo giornale e per piacere, ma il suo lavoro ha avuto una portata ulteriore: grazie alle sue fotografie sui pazienti di un ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, la Procura ha avviato delle indagini, che hanno accertato abusi nei loro confronti, perciò è stata poi disposta la chiusura della struttura.
In questa circostanza, come a seguito dei fatti di Genova, durante il G8 del 2000, la DIGOS di Bologna gli ha chiesto di consegnare i negativi delle sue foto, ma lui si è rifiutato, mancando un mandato di perquisizione da parte dell’autorità giudiziaria.
Questi due episodi sono sintomatici del lavoro di un fotografo di cronaca sempre fedele ai fatti che, attraverso uno scatto, diventano voce a cui dare ascolto per sempre, secondo un linguaggio che non ha bisogno di parole.
La pellicola alterna alle vicende narrate da Nardini le sue fotografie, che, assieme, in venti minuti riproducono – dal punto di vista della sua esperienza – tre decenni bolognesi in cui la storia si è fatta strada, spesso con violenza, e andava documentata in anni cruciali in cui ogni diritto era una conquista e non una concessione.
Se c’è la foto, il fatto è successo”, afferma Nardini in una delle ultime battute, perché la fotografia è un potentissimo mezzo di comunicazione delle dinamiche sociali e culturali.
La fotografia è testimonianza della storia: infatti, egli è membro dell’associazione bolognese U.F.O – Unione Fotografi Organizzati – che ha unito vari archivi fotografici per un catalogo cittadino che rappresenta l’inestimabile memoria storica di ciò che “è accaduto in città”.
Il cinema, il teatro e la fotografia sociali sono espressioni culturali idonee a nutrire una democrazia di pensieri civili e Visioni Italiane è una vetrina vivace per menti aperte che vogliono rimanere tali.

Incontro con Matteo Garrone

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Signore e signori, Matteo Garrone!
Inizia così l’incontro con il regista romano intervistato da un incalzante Gian Luca Farinelli.
“I negativi dei film di Matteo li teniamo a fianco a quelli di Fellini e Chaplin” scherza il direttore della Cineteca di Bologna, Matteo ride nell’ascoltarlo e inizia a raccontare.
Il percorso per diventare un cineasta passa prima per il tennis e poi per la pittura accompagnato in questo lungo viaggio dal noto direttore della fotografia e compagno della madre, Marco Onorato.
Garrone spiega che Marco ha curato la fotografia di tutti i suoi film e soprattutto si è assunto la grande responsabilità di fargli capire che la sua carriera non fosse il tennis e che non avrebbe mai sfondato in quel campo: “l’ho capito a malincuore” ammette Garrone.
“Il primo libro che ho letto? A 19 anni e mio padre , critico teatrale e appassionato di lettura, era disperato. Quando un giorno tornai a casa con un libro di Bevilacqua per lui fu il colpo di grazia”, scherza Matteo.
Quel libro comunque non l’ha mai letto e il primo è diventato una biografia di Che Guevara.
Dopo aver mollato il tennis racconta di aver iniziato a cimentarsi nella pittura ed è proprio così che è nata l’idea per il suo primo film: “Cercando dei paesaggi da dipingere ho visto una parte della periferia di Roma piena di prostitute dai colori sgargianti e dei loro clienti. Quelle immagini mi sono rimaste impresse, allora ci ho provato, pensando che in fondo non costasse nulla”.
Così a 26 anni dirige il suo primo film, “Silhouette” (1996), che racconta la giornata di alcune prostitute nigeriane nella periferia romana. Ad accompagnarlo sul set ci sono solamente Marco Onorato e il fonico: “Credo che non dimenticherò mai la faccia del casellante quando mi vide con le tre attrici travestiste da prostitute” dice ridendo. Questa prima opera la finanzia con i soldi guadagnati dal suo precedente lavoro in un locale romano da lui gestito.
Spiega come nella vita abbia corso molti rischi, specialmente in “Estate romana” (2000) in cui per fare il co-produttore ha dovuto ipotecare la sua casa, ma poi si è aggiudicato il premio qualità: “mi diedero 300 milioni di lire, mica male insomma!” – conclude sorridente.

Nel suo ultimo film “Il racconto dei racconti” (2015) ha avuto un difficile rapporto con gli effetti speciali, spiegando che non era abituato ad usarli con così tanta frequenza e che la presenza di tutto quel verde sul set – per creare gli effetti speciali si usano dei teli verdi, ndr – è stata veramente complicata.
Matteo rivela, inoltre, un rapporto molto complicato con Peter Suschitzky, direttore della fotografia che, tra gli altri, ha curato la fotografia di “Star Wars – L’impero colpisce ancora“.
Garrone racconta molti scontri sul set con Suschitzky perché Peter preferiva la camera fissa mentre lui seguire sempre l’attore.

Su questo aspetto riesco a fargli una domanda:
“Matteo, durante le riprese di “Vittime di guerra” due giovanissimi Sean Penn e Michael J. Fox si scontrarono molto sul set per via delle diverse personalità. Alla fine delle riprese, però, Michael J. Fox lasciò un biglietto dentro il camerino di Sean Penn con scritto: ‘lavorare con te non è stato un piacere, ma sicuramente è stato un onore‘. Anche lei e Peter alla fine avete fatto pace? ”
Matteo Garrone: “Si sì, c’è stata una grande rappacificazione! Sul set gli scontri erano dovuti alla grande passione che entrambi mettevamo nel nostro lavoro, ma alla fine siamo riusciti a venirci in contro”. Sorride.

L’incontro si chiude con una domanda di Farinelli: “Se ti dovessi chiedere qual è il tuo regista preferito?”
Garrone non ci pensa neanche per un secondo: “Paul Thomas Anderson.”

Estate romana

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Il regista Matteo Garrone ripropone alla Cineteca di Bologna il suo film del 2000, autoprodotto con la collaborazione dell’Istituto Luce, che racconta un viaggio in una Roma diversa. È un omaggio al teatro d’avanguardia romano degli anni ’70 e protagonista è un’attrice, Rossella Or, che torna nella capitale per ritrovare amici e colleghi, in un momento di frenetica preparazione per ospitare l’imminente Giubileo, ma rimane sopraffatta da una città in cambiamento.
La solitudine e l’inquietudine del personaggio sono lo specchio della città stessa, perché i luoghi e i paesaggi non sono solo lo sfondo, ma sono i veri protagonisti. È una Roma atipica quasi irriconoscibile, spogliata della sua eleganza e vestita di impalcature, con la volontà di dare il senso di una città nascosta, impacchettata. Così come Rossella, una figura fragile e indifesa, spaesata di fronte ad una dimensione mutata.
È stato definito dal regista come un ‘poemetto libero‘ rispetto alla sceneggiatura, perché l’approccio con cui è stato girato è la manifestazione di una ‘incosciente’ libertà espressiva; la generazione è infatti quella appartenente al mondo stravagante di questo periodo teatrale, ma centrale per la cultura artistica.
All’epoca non è stato apprezzato da buona parte della critica, ma è probabilmente un lavoro che si comprende appieno a posteriori: descritto da Garrone come un incastro tra il lavoro di critico teatrale di suo padre e un racconto di Melville, ‘Bartelby lo scrivano‘, è sì un ossequio al Beat 72 – va menzionato il cameo di Victor Cavallo – ma è sopratutto uno sguardo ad una Roma in pieno mutamento, colta forse impreparata, attraverso gli occhi innocenti di una tormentata attrice, capaci però di mettere in luce ombre poco considerate della città eterna.

VITE IN VIAGGIO

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Un viaggio lungo tante vite eppure concentrato e comunicato nelle proiezioni che oggi hanno visto protagonisti Giacomo Dondi con “Composto 01 Bunny” per la sezione “Fare cinema a Bologna e in Emilia Romagna“, Christian Cinetto con ” A tempo debito” e Chiara Natalino con “Joie de vivre” per la sezione Visioni DOC.
Visioni Italiane continua a dare emozioni forti in queste giornate, a comunicare realtà differenti e talvolta lontanissime dal nostro immaginario con l’incisività che a volte solo la semplicità riesce a raggiungere. A metà fra animazione e surrealismo si colloca il “Composto 01 Bunny”(2015), un corto molto semplice e breve, ma dietro il quale si cela un grande messaggio: l’uomo può osare e rischiare, ma non potrà mai controllare tutto, e in particolare non potrà mai farlo senza sacrificare e sacrificarsi.
Di tutt’altro respiro e’ l’opera di Cinetto, ” A tempo debito” (2015): un docu-film sulla realizzazione di un corto nella Casa Circondariale di Padova i cui protagonisti sono alcuni detenuti. Un’opera fantastica che attraverso le lezioni di recitazione tenute dall’autore, con l’aiuto di alcuni ospiti molto particolari, apre innumerevoli riflessioni sull’umanità, i sentimenti di coloro che, per i motivi più svariati, vivono la reclusione; alcuni sanno quando usciranno, altri non sono neppure a conoscenza della loro colpevolezza o innocenza: il processo è in corso, e forse solo dopo innumerevoli rinvii sapranno la loro sorte.
E’ un film sull’umanità, ambientato in carcere, ma non parla del carcere” dice l’autore, un viaggio toccante che attraversa quindici vite: molti protagonisti sono giovani, padri e mariti dalle vite difficili, costantemente sotto la spada di Damocle della povertà e della fame; altri sono stati condannati, ammettono le loro colpe e affrontano la pena con il dolore di chi sa di aver sbagliato, senza poter tornare indietro per ricostruire il passato su cui il pregiudizio sociale peserà sempre. Con molta diffidenza iniziale i detenuti si mettono in gioco, iniziano a relazionarsi fra di loro e con l’autore, si abbandonano alle emozioni e raccontano la loro vita.
Lezione dopo lezione l’entusiasmo cresce: superato l’imbarazzo queste persone si ritrovano a meditare come singoli e come gruppo sulla loro vita e su quello che sarà di loro, in maniera intensa e seria. Inoltre, accade che alcuni mutino i propri comportamenti: la vita molto spesso lancia delle sfide cruente.
Come si può cambiare essendo abbandonati a se stessi, nel buio di una cella affollata, ma nella quale si è costantemente soli? La necessità di applicare davvero una concezione rieducativa della pena si fa sempre più pressante, e sono proprio iniziative come questa a fornirne la prova inconfutabile della reale efficacia.
I ragazzi realizzano il corto con un impegno che nessuno si sarebbe mai aspettato: dalla stessa aula del carcere in cui si sono tenute tutte le lezioni guardano ciò che hanno realizzato, commossi e soddisfatti per essere stati almeno questa volta messi alla prova su qualcosa che possono fare grazie alla loro creatività.
Nel frattempo altri sono stati rimessi in libertà, e invece di riprendere a spacciare o a fare rapine per guadagnarsi da vivere sognano di diventare attori.
A conclusione della sessione un corto lineare e semplice che ha come protagonista un’insegnante precaria con la passione per il Burlesque: mettendo in mostra il proprio corpo e il ballo sensuale, Louiza accetta se stessa e il suo corpo, trasmettendo al pubblico un’incredibile “Joie de vivere“.

Visioni Sarde: un’isola tutta da raccontare

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Spiegare un’isola piena di tradizioni e stretti legami col passato è un’impresa ardua, specialmente in un contesto che non consente di poter avere finanziamenti importanti: questo rende ancora più onore ai cortometraggi scelti per la sezione “Visioni Sarde“, all’interno della 22ª edizione di Visioni Italiane, organizzata dalla Cineteca di Bologna.
In questa particolare categoria la riproduzione di una realtà poco conosciuta è magia, storia, fantasia; è la comunicazione di un contesto che, con poche immagini, può diventare familiare.

Il paesaggio paradisiaco e il racconto sono i due filoni principali che, attraverso occhi e tecniche diverse, giocano con l’immaginazione dello spettatore.

“Alba delle Janas” (2015), il primo dei cortometraggi in scena, del regista Daniele Pagella è la rappresentazione delle antiche grotte delle fate (in sardo Domus de Janas) che si materializzano in un viaggio nel tempo in cui il mestiere dell’archeologo diventa un cartone in 3d. Grazie a questa scenografia le famose “Domus de Janas” diventano il fulcro di un villaggio preistorico adatto per una visione anche da parte dei bambini.

In “ Per Anna” (2015), invece, cortometraggio di Andrea Zuliani, riaffiorano per un attimo i ricordi di Heidi che gioca con le capre sul prato e la sua infanzia spensierata: queste immagini svaniscono immediatamente quando emerge la storia di una bambina che deve affrontare la durezza di un silenzio involontario da parte del suo amico, Nicola, un bambino muto, sui coetaneo, che Anna incontra sul posto, dopo essere arrivata con suo padre da Mialno.

Ma quello che rimane più impresso di ognuno dei corti sono le emozioni trasmesse in varie maniere, come attraverso il suono di un treno in “El Vagòn” (2015, di Gaetano Crivaro, Andrés Santamaria), in cui un vecchio vagone, sui binari abbandonati della stazione di Cagliari, è diventato la casa dei due protagonisti.
Altre emozioni da raccontare sono quelle de “La danza dei sacri demoni” (2015) di Franco Fais in cui il suono delle campane dei Mamuthones, maschere tradizionali, che, in occasione dei fuochi di Sant’Antonio e del carnevale, cominciano una danza rituale con trenta chili di campanacci sulla schiena.
Anche in “Meandro Rosso” (2015) di Paolo Bandinu le immagini pittoriche delineate in stop motion sono l’essenza dell’omaggio a tre grandi registi: Lynch, Fellini e Risi.

Lasciamo ad ogni lettore la propria riflessione su uno dei fotogrammi che qui vi proponiamo, mentre chiudiamo questa piccola kermesse con la consapevolezza che sia il sorriso a caratterizzare ancora i sardi, come si racconta in “Paolina era la madre di Giulia” (2015) di Clara Murtas, in cui Bruna, scrittrice illetterata, comincia a scrivere poesie dopo la morte di una figlia neonata e ogni giorno decide di regalare una poesia a chiunque incontri in un parco.
Chissà che non sia proprio il sorriso il vero segreto della lunga vita dei sardi.

Hailstone’s dance

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Quando si guarda un film al cinema generalmente non ci si scorda mai della visione collettiva che se ne sta avendo, ci si immedesima sì, ci si interroga da dentro. Ma c’è un tutto, c’è un cinema che ti ricorda che non sei solo. Che più persone stanno guardando la vita che si manifesta in quella pellicola. Hailstone’s dance inverte le proporzioni di questa collettività e ti fa sentire una cosa sola con la solitudine della storia che racconta.
Siamo in Iran e Lei non la vedremo mai negli occhi. Ha un vestito bianco con lo strascico di cotone che sbatte sull’asfalto nero della strada dove cammina. La meta non la conosciamo, ma piano piano assume le forme del finale di questo racconto. Ci sono giostre, marciapiedi, ci sono prati verdissimi e poi palazzi alti quanto i tetti di una metropoli, ci sono luoghi da piccoli, e luoghi da grandi. Ci sono voci di bambini sul sottofondo dei rumori, e poi il suono chiaro di un pianto inghiottito all’ultimo momento. Ci sono contrari, ci sono opposti degli opposti. Ci sono immagini di un’ infanzia iniziata per bene, e immagini della stessa infanzia rubata poco dopo.
Hailstone’s dance è il tragitto verbale di una ragazza che racconta lo stupro domestico subito dal padre. La voglia profonda di augurare la morte a chi le ha fatto del male, e la sincerità morale, però, nel non riuscire ad essere allo stesso basso livello di chi le ha procurato la morte interiore.
Ogni giorno sembra che il ricordo debba diminuire e che debba fare meno impressione sentire quella sporcizia nella propria vita. Ma ogni giorno è grande la delusione di non potersi emancipare dal dolore. Il futuro non è futuro perché è nascosto dalle ombre, ma lei continua a camminare, sulla strada, sul marciapiede. Non sa quando avrà la sensazione fisica di andare oltre, e di non tornare indietro, ma cammina. Ascolta con insistenza il ritmo di una vita che, se comunque non è ancora “futuro”, è già “divenire”.
Il regista, Seyed Ali Jenaban, è presente in sala. Dice qualche parola commosso, poi lascia parlare il cortometraggio. La sua più grande emozione è vedere Bologna seduta in platea davanti a lui. È una città che non è la sua, ma è una città che gli ha dato la possibilità stasera di ascoltare il suo talento.

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