L'UNIversiTÀ

Attualità

Chissà se a Peppino sarà mancato l’amore

Non sono solita commemorare gli anniversari  dei morti per mafia. O meglio lo faccio sì, ma nel mio intimo. Non apro mai la porta a pensieri pubblici perché non mi riesce. Ma c’è un giorno dell’anno,image, dove mi devo fermare per fare entrare un’occasione naturale di memoria.  La colpa non è del giorno, né di me stessa, la colpa è di Peppino Impastato.  Perché la morte non sta bene addosso a nessuno, ma men che meno doveva stare  bene addosso a Peppino. E mi sale una rabbia come se fosse stato un mio fratello, un mio cugino stretto, come se fosse stata una persona che amavo a tal punto da non poter sopportare il peso di un male che è stato fatto anche a me.  Sarà che gli altri signori della legge, gli altri eroi della giustizia, noi ce li ricordiamo adulti, quasi vaccinati contro il dolore. Peppino invece aveva la mia età. E aveva tutte le stesse declinazioni della vita che si custodiscono quando si hanno vent ’anni.  Ascoltava i Beatles, sognava di innamorarsi veramente, leggeva Pasolini, gli piaceva la fotografia, faceva radio. Certe volte mentre camminava si doveva fermare per guardare più a lungo un posto. Per sognare come cambiarlo. Gli piaceva fare casino nei centri sociali, gli piacevano le giornate di sole a Cinisi e il rumore del mare. Come tutti i diversi, come tutti quelli che hanno una sensibilità in più nel voler trasformare le sovrastrutture del mondo, ha dovuto lottare anche contro gli scherzi della sua fragilità. Perché voler cambiare le cose vuol dire sempre misurarsi con la rinuncia di adagiarsi a quello che di sicuro già  c’è.  Chissà se gli sarà mancato l’amore di una donna quando tutti avevano paura di avvicinarsi perché la sua vicinanza era già pericolo, chissà se gli sarà mancato l’abbraccio stretto di suo padre negli anni in cui furono lontani per divergenze troppo grandi e troppo profonde di pensiero. Chissà quante volte seduto sulla sua seicento azzurra, con la radio accesa sotto, si sarà fumato una sigaretta e si sarà chiesto se ne valesse veramente la pena. Il prezzo per cambiare l’umanità è quello di allontanarsi dall’ umanità? Il prezzo per essere un eroe, qual è? Quello di spegnere la propria vita per accendere quella degli altri? Quello di essere ricordati per sempre sì ,ma mentre non ci siamo più, mentre non la possiamo  respirare né sentire questa memoria di onnipotenza sulla nostra carne?

No, Peppino queste cose non se le sarà chieste. Perché questi sono i miei pensieri, e come tali sono fragili, inferiori. Perché non sono un eroe e non avrei mai avuto il coraggio di andarmene via di casa e di rinchiudermi in un garage a sopravvivere con i soli guadagni della mia lotta. Perché non sono un eroe e non ce l’avrei fatta a continuare a gridare che la Mafia è una montagna di merda in un paese dove stavano già pianificando il mio omicidio. Queste domande Peppino non se le sarà fatte perché aveva  solo le risposte. La sua idea di bene, la forza del vento che spazzava via forte la paura in Sicilia, la certezza che vent’ anni sono pochi per vivere tutto quello che c’è da vivere nella vita, ma bastano per rendere immortale un attimo, un gesto, una passione.

A Peppino devo la mia riconoscenza, tutte le mie parole. Anche la più piccola cosa che diventerò avrà dentro di sé una parte piccola del suo coraggio. Ogni volta che passo da Cinisi mi sembra di sentirla la musica che suona dai balconi di Radio Aut, e mi sembra di intravederlo, magro, coi capelli neri,  fra gli alberi di limoni che costeggiano le strade del paese. Vorrei andare lì, abbracciarlo, fargli sentire la vicinanza di un tempo che non lo ha dimenticato. Poi sfugge. È stata solo un’impressione. Ma io ci credo che è ancora li e ci guarda e continua a prendere in giro la nostra paura.

Che giorno è il giorno dopo dei siciliani onesti?

Che giorno è il giorno dopo dei siciliani onesti? Il giorno dopo è sempre il figlio del giorno prima e non si può cancellare in una sola buona dozzina di ore il sapore amaro di quest’altra speranza che  muore. Ma ho sentito frasi troppo gravi per dargli il mio lasciapassare ad esistere: “è finita”, “non bisogna credere più a niente”. Svegliamoci. L’unico modo per consentire a Pino Maniaci di essere ancora un eroe è dargli ancora il potere di farci crollare tutto come se lui fosse il rappresentante di quel tutto. Pino Maniaci, a quanto pare, non era l’uomo modello dell’antimafia. Ma l’antimafia non è un solo uomo. L’antimafia è il giornalista che fa il suo dovere, ma è anche l’insegnante che educa al rispetto di una norma di legalità, è un consigliere che vigila sul territorio, ma è anche un ragazzo che non accetta la raccomandazione per quel concorso pubblico. È vero, siamo stanchi. Siamo stanchi di sentirci presi in giro dai galantuomini della legalità che  sono intrisi fino al collo di compromessi e mazzette e si sono permessi di venirci a fare la morale per anni. Ma che vogliamo fare? Vogliamo buttare via  quello che siamo diventati anche grazie a questi  esempi? L’inceppo del sistema sta qui: Pino Maniaci sarà anche un falso, ma l’impegno con cui noi lo abbiamo seguito era vero. Noi e la nostra crescita morale rimangono vere a prescindere dai personaggi che possono avere costellato ed alimentato il percorso. E questo ce lo dobbiamo ricordare perché altrimenti ci sentiremo  derubati della nostra storia.  Aver creduto in un giornalista che si professava libero da qualsiasi mafia ci ha fatto crescere come uomini liberi. Ci ha fatto praticare una scelta tra il bene ed il male, tra chi volevamo sentire e chi volevamo mettere a tacere. E questo dato rimane come tassello della nostra identità ideologica. Che lui poi si sia rivelato un sempliciotto che non possedesse un’idea vera della giustizia, questo è un fatto che lo debilita nella sua individualità di uomo e di professionista. Ma non ci può ledere. Ci può deludere.

Non voglio entrare nel merito della vicenda giudiziaria perché sono in corso indagini accurate ed è inutile professare condanne prima del tempo. Ma ciò che emerge dalle intercettazioni è così lampante che sarebbe anche un po’ ipocrita non formulare quantomeno giudizi personali.  A Pino Maniaci voglio solo dire che per essere eroi ci vuole una certa stoffa. Cioè si può giocare a fare tanti mestieri, però per quello dell’eroe o ci nasci o ci muori. Ed inventarsi paladini della giustizia senza avere chiaro il concetto di giustizia corrisponde a giocare a fare il medico senza avere chiaro il concetto di salute o di malattia. E ci si può ammalare facilmente quando non si hanno chiari i concetti e soprattutto quando si cerca di confonderli agli altri.

Detto questo, gli rendiamo merito per il valore aggiunto al territorio con alcune delle sue importanti inchieste. Anche se non sappiamo a quale prezzo di dignità gli siano costate.  Ma diciamo che oggi non siamo proprio in vena di ringraziamenti, quindi non ci dilungheremo nell’ elenco.  L’elenco degli altri eroi invece, quelli veri,resizeè lungo. E oggi rileggeremo con piacere solo quello.

 

Ma, finita l’Università, che fai? Resti o torni a casa?

Ma, finita l’Università, che fai? Resti o torni a casa? Questa è la domanda che tanti studenti fuorisede a Bologna, specie se provenienti dal nostro Mezzogiorno, si sono sentiti porre, almeno una volta. Una domanda alla quale, inevitabilmente, hanno dovuto dare (dopo averla trovata) la loro personalissima risposta. Dietro una domanda di questo tipo c’è una legittima curiosità: il desiderio di sapere se, finita l’esperienza bolognese, questa venga messa da parte, appesa come un titolo sul muro dei ricordi e delle esperienze; oppure, al contrario, se abbia ancora qualcosa da dire e che, con forza, si sostituisca definitivamente al mondo passato, fatto di luoghi e conoscenze miste a nostalgia. Una domanda che tocca nel profondo lo studente, che si avvia a concludere il suo corso di studi e si ritrova di nuovo, immediatamente e quasi senza rendersene conto, di nuovo davanti ad un bivio fondamentale. Questa domanda si collega ad una risposta, sofferta o meno, ragionata o istintiva. Una risposta che tante volte entra in contatto con uno dei temi sul quale noi tutti, come cittadini italiani, ci interroghiamo fin dall’inizio della nostra esperienza nazionale: la cosiddetta (e ormai mitica) questione meridionale.

Dentro questo mondo fatto di domande e richieste mai sopite, rientra il tema dell’emigrazione. Sia chiaro: in un mondo globalizzato, “piccolo” ed interconnesso, nascere e crescere in un luogo per poi lasciarlo e trasferirsi in un altro, e poi in un altro ancora, è la norma. Anzi: è una legittima pretesa ed anche un prezioso privilegio (che vediamo messo a dura prova in questi giorni fatti di muri da innalzare in frontiere riscoperte). Se poi si pensa alla grande massa di studenti italiani che, conclusa la loro esperienza formativa, cercano (e spesso trovano) lavoro all’estero, il tema dell’emigrazione Sud-Nord all’ interno del nostro piccolo territorio nazionale può sembrare del tutto marginale ed indifferente.

Ancora: è bello immaginarsi cittadini del mondo, liberi di scegliere il luogo dove si intende costruire la propria storia e vivere l’incredibile varietà delle nostre città, veri e propri micro-cosmi a sé stanti: Patria est ubicumque est bene, dicevano i latini, con illuminante saggezza. A maggior ragione, da cittadini italiani, è giusto sperimentare. E, allora, stando così le cose, perché l’emigrazione dal Meridione è un problema? E perché il “resti o torni a casa”, domandato ad uno studente del Sud, è una domanda particolarmente sensibile?

Perché un intero pezzo del nostro Paese ha un bilancio eternamente in rosso. E non è il bilancio fatto di numeri e moneta (anche quello tradizionalmente negativo): è il bilancio delle speranze e dei sogni ad essere col segno meno. Una comunità che investe sui suoi giovani, che li cura (attraverso il servizio sanitario pubblico) e li istruisce (attraverso la scuola pubblica) e che, quindi, mette da parte momentaneamente le sue forze più fresche ma che, alla fine, vede queste stesse forze andar via, verso altri lidi, è una comunità che perde. E il Sud Italia è una comunità perdente da troppo tempo. Certo, esistono molte realtà positive ed attrattive, ciascuna con la propria storia da raccontare; ma il dato complessivo è quello di un continuo emigrare di forze giovani e produttive verso contesti più promettenti. Un Futuro che scappa via, una promessa mantenuta altrove. Bologna, invece, deve la sua forza alla sua straordinaria capacità di riuscire a dare e, allo stesso tempo, a ricevere molto.

La bolognesità è una ricetta fatta di solide tradizioni, tra le quali prevalgono quelle della solidarietà e della tolleranza, elementi che rendono la città delle Torri la perfetta meta per tanti studenti. Studenti che, una volta laureati, decidono di ricambiare quanto ricevuto da Bologna: e lo fanno restandoci e popolandola. Difficile lasciarla, Bologna. A volte, il rapporto che uno studente fuorisede (e quindi non pendolare) con le sue due città (Bologna e quella di sua provenienza) è quello che si ha con una coppia di genitori separati. Il legame rimane per entrambi, si cerca di mantenere un contatto, attraverso un difficile dosaggio di affetti e tempistiche differenti. Oppure, proprio come accade con situazioni analoghe, si arriva a preferire un genitore piuttosto che un altro (se non, addirittura, odiarne e sconfessare uno). Chi mantiene un contatto, un rapporto con la sua città di provenienza, e quindi sente ancora come parte integrante del suo Io tutto ciò che la riguarda, sa che prima o poi dovrà rispondere a quella domanda. Molto spesso la risposta è dovuta all’esigenza per eccellenza: il lavoro. Un bene che il Sud Italia non è mai riuscito a corrispondere per davvero, specie negli ultimi decenni, alle sue giovani generazioni. Ma non è l’unico elemento ad incidere: molte piccole realtà provinciali del Mezzogiorno, proprio perché perennemente in perdita nel bilancio delle risorse umane, non sono in grado di offrire un contesto culturale e sociale fresco, attrattivo e vincente. Come un cane che si morde la coda, come un’equazione senza risultato: si vorrebbe “tornare giù” ma “giù è tutto più difficile” e quindi si “rimane su”. E quindi, inevitabilmente, il cerchio si stringe e ricomincia la contraddizione: se non si “torna” le cose non “cambiano” e quindi, non si “torna”. Sono discorsi che fanno, ormai, parte del nostro vocabolario nazionale, dato che possono essere, con qualche accortezza, applicati anche al rapporto Italia-Estero. Eppure, la loro forza ed influenza è enormemente maggiore in certe realtà meridionali e solo chi ha avuto modo di toccare con mano questo tema è in grado di capire l’entità dell’emergenza. Che fai, resti o torni a casa? Una domanda difficile. La classe politica e, quindi, i cittadini meridionali devono lottare per cambiare la risposta. I giovani meridionali devono riconquistare le loro città. Perché, decidere se restare o meno nella brillante Bologna, è più semplice e bello se è davvero possibile sceglierlo.

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Alessandro Milito

Veloci, come delle volpi nei sentieri

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Qualche sera fa si è svolta la presentazione del libro dell’avvocato penalista Andrea Speranzoni, intitolato “A partire da Monte Sole” ed incentrato sulle vicende delle stragi compiute tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 dai militari della XVI divisione Reichsführer, coadiuvati dai fascisti italiani, a causa delle quali persero la vita quasi ottocento persone, tra cui 221 bambini di età compresa fra i quattordici giorni di vita e tredici anni. All’incontro c’era anche un testimone chiave delle stragi, il signor Ferruccio Laffi, rappresentato in tribunale proprio dall’avvocato Speranzoni.
La vicenda viene ripercorsa dall’avvocato in un modo pacato, ma deciso, come se ci stesse raccontando una storia dell’orrore inventat. Nell’aula cala un silenzio carico di attesa, rammarico, incredulità a tratti. Le date sono fondamentali per comprendere non solo ciò che accadde a Marzabotto e a Monte Sole, bensì anche ciò che fino al 1994 l’avvocato definisce un vero e proprio insabbiamento delle prove.
Facciamo un salto temporale di cinquantasei anni: siamo nel 1960. Il quattordici gennaio di quell’ anno, il procuratore generale militare, Enrico Santacroce, dispone l’archiviazione provvisoria dei fascicoli che incriminano i responsabili delle stragi. È un abuso di potere, perché l’occultamento non permette la loro spendibilità penale. Nel 1965, la Germania chiede all’Italia di essere messa al corrente di “eventuali” fatti commessi dalle SS in territorio italiano; detto fatto, Palazzo Cesi spedisce i fascicoli alla Repubblica Tedesca, che tuttavia li rimanda al mittente considerandoli “irrilevanti”. Ci si dimentica di queste prove nascoste nell’ armadio della vergogna – così definito dall’avvocato – sino all’estate del 1994, quando l’archivio viene rivelato. Ci si aspetterebbe la conduzione delle indagini dal momento della riapertura dell’archivio, tuttavia, non è così: il primo atto d’indagine è dell’aprile 2002. L’avvocato Speranzoni sottolinea, in modo chiaro e a scanso di equivoci, una vera e propria inerzia da parte dei magistrati, che decidono di non indagare sulle vicende. Nel marzo 2002, il presidente tedesco Johannes Rau incontra il nostro presidente italiano Carlo Azeglio Ciampi. Rau muove un’accusa grave sulle “iene” che macchiarono di sangue innocente le loro camicie nere, lì a Monte Sole. La molla che incentivò un’effettiva riapertura del caso con indagini serie si deve ad un servizio giornalistico proprio nei luoghi delle stragi. Negli anni 2005 – 2006 le indagini si dichiarano concluse. Il 13 gennaio 2007, viene emessa la sentenza di primo grado che condanna gli otto responsabili delle SS che parteciparono all’eccidio. L’appello contro la sentenza di condanna viene discusso nel 2008, ma la condanna è definitiva: il risarcimento in sede civile nei confronti delle vittime e degli enti pubblici ed otto ergastoli. Qui arriviamo al punto focale del discorso dell’avvocato. Tale risarcimento e tali ergastoli non sono mai stati attuati. Il primo grande interrogativo è: perché? Forse per non incrinare i solidi rapporti tra l’Italia e la Germania? Il processo tenutosi a La Spezia è importante anche, se vogliamo, per uno studio linguistico e psicologico sulle parole e sugli atteggiamenti degli imputati. Nella città ligure, infatti, vennero sentite due ex SS, mentre altre testimonianze vennero raccolte dai giornalisti. Albert Meyer, comandante di squadra che circondò l’oratorio di Cerpiano, sbarrò le porte e lasciò morire cinquanta persone, si vanta di aver trattenuto due giorni le vittime per “farle soffrire di più”. Le parole sono chiavi d’indagine, spie di un sadismo lucido ed efferato, non di una pazzia che vaneggia.
Mi viene in mente Anna Harendt che, nella “Banalità del male”, parla dell’atteggiamento lucido dei più grandi criminali della seconda guerra mondiale, durante il processo condotto nei loro confronti, che quasi guardavano attoniti gli avvocati dell’accusa perché, in fondo, loro avevano “solo” eseguito gli ordini del Terzo Reich. Speranzoni cita solo due dei modi con i quali i soldati tedeschi appellavano le vittime: “bacilli di sinistra” (si fa riferimento proprio all’orientamento politico, giustificando gli omicidi da un punto di vista politico) e “fiancheggiatori delle bande”. Quest’ultimo termine ha qualcosa che va oltre il crudele, perché i “fiancheggiatori delle bande” altro non erano che i bambini. La narrazione della strage non si ferma al processo, bensì continua, perché l’avvocato parla proprio di “silenzio di Stato”: è quello che avvolge, ad esempio, la figura di Carl Hass, agente segreto inserito nella rete di spionaggio americano, che compare in due film (uno del 1962, l’altro del 1969) interpretando un ufficiale tedesco, proprio negli anni ’60, in cui pendeva su di lui un mandato di cattura internazionale. Hass paga per la strage delle Forze Ardeatine solo nel 1998; un suo verbale viene acquisito da un giudice che indaga sulla “strage della tensione” e su Piazza Fontana. Insomma, qui la Storia entra prepotentemente nelle vite della gente, creando legami e nodi inscindibili tra due eventi temporalmente distanti, ovvero appunto gli eccidi del 1944 e l’attentato terroristico di Milano, del 1969, e mette in luce una connivenza tra assassini che, per la gente comune, è quasi improbabile. Qui, emerge anche un altro personaggio importantissimo per comprendere la Storia italiana: è l’intellettuale e regista Pier Paolo Pasolini. Egli, nel 1974, si reca a Gardelletta di Monte Sole per riprendere uno dei suoi film cult, ovvero “Salò o “le 120 giornate di Sodoma”. Pasolini non sceglie proprio quel luogo per un semplice caso: egli è consapevole del messaggio più o meno implicito che, attraverso il film, vuole inviare, ovvero la denuncia della spersonalizzazione e deumanizzazione delle vittime, ridotte a semplici “cose” da parte del nazismo. Tuttavia, alcune riprese furono sottratte nel 1975, anno cruciale per Pasolini: infatti, da un’indagine condotta a Roma, alcune di queste bobine dovevano essere oggetto di scambio, proprio in quell’anno, all’idroscalo di Ostia, in cui venne trovato senza vita proprio il regista. Da notare la modalità con cui fu ucciso Pasolini, il vilipendio sul suo corpo che, stando a quanto afferma con certezza Andrea Speranzoni, fa riferimento all’ideologia reificante del sistema nazista. Tale ideologia rientra anche nel “nuovo modo di essere criminali nell’Italia di quel tempo” (cit.) . Ancora. Luigi Di Gianni, regista, si reca a Monte Sole per parlare con le vittime, perché vuole girare un documentario per la Rai, che però “stranamente” non verrà mai pubblicato. Le verità raccontate dai testimoni scompaiono. Sono gli anni in cui Pasolini sta girando “Accattone”, in cui il personaggio principale, Vittorio, interpretato da Franco Citti, viene definito “mostro umano”, giustificando così la misera fine a cui va incontro. Forse che Pasolini faceva riferimento proprio agli epiteti offensivi con cui le SS appellavano le loro vittime, per giustificare i loro crimini?
Torniamo alle vittime, alle parole, alla loro dignità. Dignità è, ancora una volta, il termine che inquadra meglio l’atteggiamento di Ferruccio Laffi. L’anziano signore quasi si vergogna di raccontare ciò che ha visto e subito. Abbassa la testa, quasi chiude gli occhi per cercare nel buio senza forme quelle parole dolorose che, fino a martedì, non erano mai state raccontate ad un pubblico. Parla piano, incespica nei termini italiani “Preferisco parlare in dialetto, ma so che non tutti potrete capirmi”. Lui era contadino; la sua era una famiglia povera, normale come tante altre. Erano in diciotto in casa: tre fratelli partiti in guerra, i suoi genitori, due cognate, gli altri fratelli e nove nipotini. Si divideva la casa, il letto, il companatico. Si lavorava duro, tanto che non c’era nemmeno tempo per soffermarsi a riflettere sulla guerra che, fino alla mattina del 29 settembre, era sentita come qualcosa quasi di distante. La guerra, però, non solo non era distante, bensì giocava con i fili della vita della sua famiglia, decidendo al momento giusto quando far cadere a terra i suoi burattini. Se le ricorda, Ferruccio Laffi, le cannonate del 29 settembre 1944. I tedeschi corrono rapidi dalle montagne, fanno razzie ai casali vicini. Lui e i suoi fratelli corrono, veloci come volpi nei sentieri del bosco vicino casa. Aspettano lì tutta la notte: l’indomani, tutto sembra finito. Una quiete cala a forza sul paesaggio, quasi come fosse una maschera che nasconde la realtà che sta per svelarsi davanti agli occhi di Ferruccio: giunto a casa, l’orrore gli si palesa davanti con violenza. Diciotto cadaveri, diciotto vite violentate, mutilate, uccise, vilipese. Durante il racconto, Ferruccio non trattiene le lacrime e cade in un pianto liberatorio: “Mi sembra di vederli ancora qui davanti a me” e tende le mani, come per dare enfasi a ciò che dice: “Mio padre era accanto alla porta, tutto rannicchiato, di fronte alle vittime. Gli hanno fatto vedere lo spettacolo prima di ucciderlo…”. L’aula è pietrificata, quasi non respira, non si muove. Vedo una moglie stringere le mani di suo marito e forse quel gesto è il simbolo esterno di ciò che tutti, indistintamente, proviamo. Ferruccio Laffi riprende fiato e racconta della sua odissea personale: dovette nascondersi con altri due amici nei boschi, per sfuggire ai tedeschi. Si cibava di bacche, percorreva i sentieri più impervi “come una volpe”. Viene catturato dai tedeschi che lo portano in degli appartamenti con altre persone, dei “campi di concentramento” come li definisce, in cui lavora duro e manda giù lacrime amare, tutte le volte che sente i colpi di pistola che decretano la fine di un prigioniero, a caso. Riesce a scappare, si unisce ai partigiani fino a quando la guerra finisce. Il suo racconto s’interrompe così. Ciò che più stupisce è la normalità, quella che è seguita dopo queste scelleratezze e che non ha consentito alla giustizia di fare il suo corso, anzi: si è imposta nella quotidianità, dando la possibilità a questi beceri criminali di fare le loro vite indisturbati, portare i nipotini a scuola, ricoprire ruoli importanti, ricevere addirittura medaglie al valor civile nei loro paesi tedeschi. La memoria….La memoria si costruisce non chiudendo gli occhi, non arrendendosi a ciò che sembra e non è, per vigliaccheria, per comodità. La paura di guardare fa chinare il mento, fa credere che ciò non possa essere mai accaduto, perché ci si dimentica di avere una coscienza collettiva che, in quanto tale, deve saper problematizzare. “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti” canta De Andrè: come dargli torto?

Ho votato No. Ma non mi sento un mostro per questo.

A nostre spese  abbiamo imparato che ogni discussione post elettorale che si rispetti  oramai si giochi sulle piattaforme dei social network . Abbiamo anche imparato di  come più che una discussione si tratti di serie di monologhi moralizzatori che di regola vengono lanciati al cittadino che non ha fatto il suo dovere, al cittadino che non è degno di essere chiamato tale, al cittadino che, seguendo le indicazioni di questi appelli, dovrebbe letteralmente nascondersi  e non farsi vedere in società per almeno un paio d’anni.

A me, non piacciono le generalizzazioni ed, onestamente, non mi piacciono nemmeno quelli che vogliono fare i portatori sani di coscienza civica solo per un giorno. Perché sì, ammettiamo che dia anche  la sensazione di un certo potere raccogliere like virtuali  facendo i Che Guevara della situazione, però ogni monologo, ogni appello, ogni discorso deve avere con sé le radici del rispetto verso il discorso dell’altro.  Anche il silenzio ha la sue ragioni. Possiamo non condividerlo e possiamo ritenere quelle ragioni vane, ma la prima lezione di democrazia da cui ripartire, a mio avviso, è proprio quella di comprendere il silenzio civico nel suo significato.

Nella votazione referendaria di ieri il silenzio era una risposta specifica. Che ci piaccia o no, il referendum abrogativo nasce proprio con il vincolo di un quorum elettorale da raggiungere. Quindi, se voglio esprimere il mio dissenso rispetto alla proposta che mi viene fatta politicamente, posso decidere di non andare a votare contribuendo al non raggiungimento del quorum e quindi al suo fallimento. Certo, c’è chi potrà  ravvisare  in questo comportamento un atteggiamento di non considerazione rispetto alle sorti del paese, ma c’è chi leggendo più lucidamente, potrebbe anche notarci  una concreta presa di posizione contro la consultazione referendaria.

Poi che, ovviamente, ieri ci siano stati milioni di italiani che non abbiano votato per pure ragioni di noia, di disinformazione, di distanza dal problema, anche questo è legittimo credere che sia accaduto. Ma ce ne sono stati molti altri che non hanno votato perché erano con consapevolezza contrari alla riuscita di questa consultazione. È sempre facile fare un grande mucchio di tutte le personalità e di tutte le vicende, perché, ammucchiando e omologando, quando si punta il dito contro non si deve fare lo sforzo di distinguere tra le ragioni dell’uno e dell’altro. Ma distinguere è sempre il primo passo per scegliere cosa conoscere.

Io ho votato, ma ho votato No.  E  non mi sento un mostro per questo. E, malauguratamente, non sono nemmeno la figlia del proprietario di un pozzo petrolifero nell’ oilplat Adriatico. Ho votato no perché questo quesito era posto malamente e non ravvisavo nella legge attuale una grave minaccia. Non ho una conoscenza ambientale così specifica, ma con i miei mezzi ho cercato di informarmi.  E posto che, da nessuna legge  attualmente vigente, è previsto l’ impianto di nuove trivelle, si sarebbe trattato esclusivamente del  decidere se continuare a mantenere in vita quelle già esistenti fino all’ esaurimento dei pozzi sottostanti.  Io ho votato affinché queste si mantenessero in vita perché credo che non si possano smantellare di colpo creando il problema della disoccupazione in circa 7.000 lavoratori e rispettive famiglie. Ho votato no perché credo che il fatto che questi impianti  si trovino a 12 miglia dalla costa garantisca comunque il rispetto di un certo  vincolo ambientale. E ho votato no perché credo, forse scioccamente, che di questo petrolio ne abbiamo ancora bisogno. Perché ritengo che l’energia rinnovabile non la potremo avere domani, ma che prima serva un piano effettivo che programmi con gradualità ed intuito in toto il rinnovamento. E se questo piano di rinnovamento ed investimento non lo abbiamo già pronto, finirebbe che comunque dovremmo compensare l’attesa andando ad importare il petrolio all ’estero.

Probabilmente una scelta ignorante, discutibile, ed arrogante la mia. Ma comunque, una scelta. Che merita lo stesso rispetto che meritano tutte le altre  risposte di questo paese.

Dei modi di onorare la memoria di Giulio Regeni

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Non conoscevo Giulio Regeni né la sua attività di ricerca, prima che divenissero tristemente note. Scosso dalle sue vicende – come tanti, specie se legati da una qualche comunanza nel mondo della ricerca – ho letto ex post qualche suo contributo, qualche sua cronaca anche di natura giornalistica dall’Egitto.
Non sono nemmeno un granché simpatetico con certe premesse ideologiche dell’attività di Regeni, lo dico con sincerità ma anche con grande rispetto, perché premesse ideologiche nell’attività di studio possono esserci, sono legittime, e anche benvenute quando chiaramente postulate, come Regeni faceva, da studioso serio.
Anche alla luce di queste premesse, l’impressione che ho ritratto dall’approccio col lavoro di questo sfortunato giovane uomo – e che si unisce al naturale sconcerto e all’indignazione per la vicenda di vita – è di grande dignità ed onestà. Regeni era un vero ricercatore, si poneva delle reali domande su effettivi, drammatici problemi, e indagava genuinamente alla ricerca di possibili chiavi di lettura, con passione. Era una persona che, da par suo, e come ogni ricercatore dovrebbe fare, analizzava i fenomeni cercandone una comprensione diretta, ed anche sfidando certe vulgate ridicole: la prima, catastrofica, abnorme, è proprio nell’etichetta sloganistica delle “primavere arabe” che ne accompagnerà ogni ricordo, come copertura posticcia di fenomeni ben più complessi e delicati, complessità e delicatezza di cui Regeni, in vita e in morte, ci ha rammentato.
Il primo modo per onorare la memoria di Giulio alla luce di tutto questo è, per me almeno, contestualizzarne così, con rispetto vero e profondo, l’attività, cercando di comprenderne i commendevoli moventi e le serie implicazioni.
Il secondo modo – ovvio ma da rimarcare – è ricercare la verità e la giustizia postume che Giulio merita nella chiarezza della sua morte, e che meritano la sua famiglia, i suoi amici, la sua comunità di colleghi, da ultimo il suo paese nativo ed anche l’Egitto, che era amato Paese d’adozione, come il Governo italiano mi pare stia facendo e come deve continuare a fare, anche nei necessari consessi internazionali. Una serie di persone, i familiari almeno, hanno diritto a questa verità e a questa giustizia.
Il terzo modo per onorare la memoria di Giulio – e questo è anche un personale auspicio politico – è quello di riflettere senza infingimenti sulla vicenda di Regeni per farne tesoro a livello di comunità. E’ ormai chiaro che Giulio è stato torturato, non è stato ucciso per odio privato o criminalità comune. C’è orrore e sdegno per questa vicenda, ma permane un paradosso dietro questo pur sincero sentimento collettivo, che si percepisce: si è già ricordato in questi giorni, ma è giusto rimarcarlo, che è l’Italia per prima a non riconoscere, nel proprio codice penale, un formale reato di tortura.
Ciò nonostante la ratifica più di venticinque anni fa della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 1984; ciò nonostante in sede parlamentare si siano succedute, e si siano abortite, decine di disegni di legge in materia; ciò nonostante la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia condannato l’Italia della scuola Diaz di Genova espressamente per vicende di tortura, e si appresti a condannarla ancora per quelle di Bolzaneto, a memoria di quello che sappiamo può accadere nelle nostre caserme e nei nostri istituti penitenziari, dove affidiamo l’incolumità di un cittadino allo Stato o a chi per lui (il caso Cucchi è qui, ancora aperto, mentre scriviamo, ad interrogarci).
Sarebbe un bel gesto, mentre ci indigniamo giustamente e con forza per vicende insieme vicine e lontane, riflettere alla luce di queste cose su quello che ci accade intorno, anche più vicino, e indirizzare produttivamente le nostre reazioni: è stato già proposto da qualcuno, e qui solo ci si associa, che per commemorare il nome di Giulio si chiami Legge Regeni qualcosa di così atteso ed importante come una legge italiana sul reato di tortura, in memoria di un giovane italiano torturato qui ed ora, e perché si possa dimostrare, più che con tanta retorica, che dagli orrori della vita si può talvolta apprendere davvero.

Leonardo Pierdominici
research associate European University Institute, Firenze, e Università di Bologna

PROSPETTIVE DI VOTO: FRA REFERENDUM E CAMBIAMENTO CLIMATICO

Foto di Greenpeace
Foto di Greenpeace

La democrazia non fa per tutti, ma vi dirò di più: la democrazia non fa proprio per chi il 17 aprile si asterrà dal partecipare alla consultazione referendaria in materia di trivellazioni in mare; semplicemente, non si può addurre a banali scuse e giustificazioni per poter legittimare la propria posizione di inerzia politica, sociale, mentale.
Il quesito “superstite”, unico sopravvissuto alla scure della Corte Costituzionale, ha ad oggetto l’abrogazione o meno della disciplina legislativa in materia di concessioni per la trivellazione in mare entro le 12 miglia, nella parte in cui prevede che la durata delle concessioni possa protrarsi sino alla “vita utile del giacimento”: l’eventuale vittoria del “SI”, previo raggiungimento del quorum (circa 26 milioni di italiani), comporterà semplicemente la costituzione di un termine legale di durata della concessione. Sminuire l’entità di questa consultazione e ostacolarla direttamente e indirettamente, è una strategia emblematica dal punto di vista tattico, una strategia che dimostra ancora di più quanto sia importante esprimere il nostro voto, che va al di là del semplice quesito: é un voto che potrebbe davvero lanciare un segnale forte in tema di riduzione dell’utilizzo di fonti energetiche combustibili fossili, causa principale di emissioni di CO2 e del conseguente fenomeno del “cambiamento climatico”. Le prospettive di un voto compatto a favore del “SI” sono molto lungimiranti: per la prima volta possiamo essere chiamati ad esprimere la nostra idea su come impostare la politica energetica dei prossimi anni e non possiamo più prescindere dal considerare la lotta al cambiamento climatico come prioritaria in assoluto. L’IPCC (International Panel on Climate Change) avverte sulla necessità, ormai improrogabile, di ridurre del 95% le emissioni di CO2 entro il 2050 solo per poter contenere il surriscaldamento globale entro i 2°C. Attualmente le emissioni dei cosiddetti “gas a effetto serra”, come riporta l’Agenzia Europea per l’Ambiente, sono provocate essenzialmente da “combustione di carburanti fossili (carbone, petrolio e gas) nella produzione di energia, nel trasporto, nell’industria e nell’uso domestico (CO2), nell’agricoltura (CH4) e le modifiche della destinazione dei suoli come la deforestazione (CO2), la messa a discarica dei rifiuti (CH4), l’utilizzo dei gas fluorurati di origine industriale”.
I rischi connessi a una costante sottovalutazione del cambiamento climatico da parte di Governi e Imprese impegnate nel settore energetico potrebbero rivelarsi fatali nell’immediato futuro, come riporta uno studio condotto da Legambiente.
Le possibili conseguenze di un inefficiente apporto normativo ed economico sul tema comporterebbero irreversibili desertificazioni delle zone più calde del Pianeta, un assoluto aumento di fenomeni disastrosi quali inondazioni e alluvioni, una disastrosa compromissione degli ecosistemi naturali, un innalzamento del livello dei mari tale da mettere in pericolo le popolazioni delle zone costiere e tale da intaccare, attraverso le infiltrazioni di acqua salata, la disponibilità di acqua dolce, una proliferazione di forme patologiche, nonché, come conseguenza di queste radicali modificazioni, un ingente fenomeno migratorio dovuto all’invivibilità assoluta con la quale determinate zone dovranno fare i conti.
La fine non è vicina, tuttavia, abbiamo ancora la possibilità di ridurre i rischi connessi al climate change: proprio oggi la Costa Rica, come riporta l’Independent, celebra i suoi 75 giorni di fornitura energetica green ai suoi abitanti, un risultato esemplare che già da subito ha mostrato i suoi effetti positivi con un aumento consistente delle piogge. Essere consapevoli della situazione reale è il primo e fondamentale passo per modificarla; tutti i settori scientifici devono in via prioritaria occuparsi del contrasto al cambiamento climatico, come forma principale di tutela ambientale, e noi stiamo ancora parlando di trivellazioni? Questo referendum si mostra funzionale alla manifestazione di una volontà coesa verso l’utilizzo di rinnovabili come fonte prioritaria di approvigionamento energetico, e questo è possibile nell’immediato. La politica di contrasto all’effettiva utilità di questo referendum dimostra esclusivamente la volontà di mantenere uno status quo non più sostenibile: gli ostacoli conseguenti al mancato accorpamento del referendum alle elezioni amministrative o alla difficoltosa possibilità di votare “fuori-sede” per studenti e lavoratori sono lo specchio di una preoccupante opera di minimizzazione della partecipazione sociale alla politica attiva.
Vorrei proporvi, in coclusione, oltre a quanto detto sino ad ora, poche ragioni per le quali è necessario votare, in primis, ma soprattutto votare “SI”:
– rendiamo effettivo il nostro diritto alla cd “democrazia diretta”, dimostriamo che le risorse investite per i referendum non sono sprecate, dimostriamo di essere consapevoli e non passivi ricettori nella società moderna;
– chiediamoci quali sono le potenzialità economiche del nostro Stato e cerchiamo di darci una risposta, davvero l’approvigionamento di combustibili fossili è la nostra potenzialità? Davvero preferiamo mettere da parte la nostra ricchezza ambientale per un “pugno di barili”? La green economy è l’obiettivo principale e per raggiungerlo non possiamo più permetterci di prendere le parti di poche lobby del petrolio svendendo il nostro mare in cambio del 7% delle estrazioni (fra le royalties più basse al mondo);
-c’è una falsa convizione che attraverso le trivellazioni l’Italia riuscirà a recedere la dipendenza energetica dall’estero, quanto di più falso;
-un voto sociale e la costituzione di una grande coalizione per la transizione energetica impegnata anche sul fronte del climate change possono rappresentare i primi benefici “oltre quesito” di una vittoria dei “SI”.
Il 17 aprile va’ a votare “SI”, perché qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare è possibile finché la Terrra sarà in grado di accoglierti: “L’uomo appartiene alla Terra. La Terra non appartiene all’uomo”(Toro Seduto). Buon voto!

Il G8 di Genova con le parole di un padre

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C’è una costante nella mia quotidianità che, in questi giorni, si palesa spesso: la dignità del dolore. Io, questa dignità del dolore, l’ho rivista anche ieri sera, nell’aula II della Facoltà di Lettere e Filosofia di Via Zamboni 38. L’ho rivista nelle parole, negli atteggiamenti e in quel sarcasmo sottile di Giuliano Giuliani, padre di Carlo Giuliani, giovane ragazzo ucciso con un colpo di beretta durante gli scontri del 20 luglio 2001, a Genova, in occasione del G8. Avevo sei anni nel 2001, quindi ricordo a stento i miei primi quaderni di italiano, pieni di lettere da ricopiare in bella copia. Non posso assolutamente ricordare ciò che i tg dell’epoca dissero, in merito alla vicenda. Posso, però, ricordare un film: Diaz. Ricordo che si parlava di ciò che accadde in quella scuola genovese, nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001. La polizia massacra di botte 93 ragazzi, giustificando tale massacro con l’appellativo di “perquisizione legittima“.
Stando a quanto la Polizia afferma, era giunta in questura una soffiata secondo la quale, in quella scuola, vi era possesso di molotov da parte dei ragazzi che, per il codice penale, è un reato di terrorismo, punito fino a quattordici anni di carcere. “Macelleria messicana” è stato, in un secondo momento, il modo in cui i tribunali, i telegiornali e l’opinione pubblica hanno definito ciò che successe davvero tra quelle mura. “Uno schifo” sembra a Giuliano Giuliani, il modo più corretto, giusto, appropriato, veritiero per definirlo. Non voglio soffermarmi sulla repressione effettuata dalla polizia per eliminare un movimento nato nel 1999 e chiamato “Il popolo di Seattle“, che aveva come scopo quello di opporsi alla globalizzazione e di creare un vero e proprio “Parlamento mondiale” fatto da gente comune e contrapposto ai Parlamenti in cui i potenti decidono le sorti di un Paese; non voglio soffermarmi sul ruolo delle intelligence che già un paio di anni prima del G8 organizzavano tale repressione; né mi soffermerò sul precedente di Goteborg dello stesso anno, in cui la polizia attuò tali violenze con le stesse modalità che, qualche mese dopo, si sono ripetute nel capoluogo ligure; né dirò delle forze dell’ordine che, nella mattina del 20 luglio, benché fossero a distanza di 100 m dai cosiddetti “black block”, decisero di non intervenire, preferendo, invece, caricare e massacrare: ci sono anche telefonate registrate di cittadini comuni che esortano la polizia ad intervenire, perché nei loro quartieri le tute nere erano particolarmente attive. Superando ogni logica giuridica e prima di tutto umana, sono state usate anche spranghe di ferro contro i manifestanti pacifici, alcuni dei quali avevano i palmi delle mani colorate di bianco, segno di resa. Non darò voce allo sdegno nel sapere che i poliziotti implicati nella vicenda e nell’omicidio di Giuliani, non solo non sono stati puniti, bensì hanno anche avuto una carriera brillante. No.
Io voglio soffermarmi sulla figura di un padre addolorato, straziato, a cui hanno ucciso un figlio non una, bensì due volte con l’insabbiamento delle prove e la liquidazione della vicenda, ma che decide di imparare ad usare programmi tecnologici per sviscerare, sminuzzare, analizzare ogni conversazione telefonica, ogni foto, ogni video di quegli otto secondi fatali per il figlio, come se si fosse preso l’incarico di lustrare il volto macchiato di sangue e menzogne della giustizia italiana, che in quel momento decise di non vedere. Anzi no, fece una cosa peggiore: vide con indifferenza quel corpo a terra, ancora pulsante di vita e finito da un sasso lanciato da un poliziotto, ma fu scettica quanto basta; poi, preferì girare i tacchi e andare a sedersi comodamente in poltrona, archiviando il caso. Come, però, ha detto Giuliani: “Bisogna fare i nomi, ragazzi, non generalizzare, perché non tutti sono così marci“. Certo, non tutti. Giusto quelli da inserire nel nuovo cerchio degli ignavi del XXI secolo.

Sono siciliana e ci sono cose che mi hanno offeso di più dell’intervista di ieri sera

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Sono siciliana e, francamente, mi hanno ferito cose più gravi dell’intervista a Salvo Riina. Lui, in fondo, a sentirlo sembra veramente un “marziano” precipitato sul pianeta terra privo di una cognizione generale sul linguaggio della società, sul significato morale delle cose. Non sa dare un parere sul fenomeno mafioso, non vuole formulare un giudizio sul padre, finge di essere stato all’oscuro delle stragi di matrice criminale portate avanti dalla famiglia, cita i comandamenti della Bibbia con la stessa considerazione con cui si legge il manuale delle istruzioni di un elettrodomestico. Io, in fondo, gliela auguro veramente questa non percezione della realtà, perché, altrimenti, vivere con la lucidità del senso di colpa che ti si staglia addosso con un cognome del genere forse diventerebbe troppo insostenibile, quantomeno lo diventerebbe per chi non ha il coraggio di affrancarsi dal passato e dalle proprie radici.
Quello che però mi lascia perplessa è la totale contestazione a Vespa. Cioè il fatto che si legga unicamente questo accadimento come un modo assoluto per dare spazio al signor Riina. Ovvero, mi lascia perplessa in relazione all’opinione che si ha in toto del sistema dell’informazione. Per quanto riguarda il “momento visibilità” sappiate che gliene state dando anche voi con i link di contestazione inerenti che proponete sulle vostre pagine, e gliene sto dando anch’io, a mio modo, con questo pezzo che sto scrivendo.
Ma l’informazione, a mio modestissimo e non qualificato parere, non può e non deve essere solo la proiezione di quello che è giusto vedere. Ma contiene, nei suoi corridoi e nelle sue finestre, anche la possibilità di dare spazio all’altra faccia delle cose. Cattiva, indisponente, discutibile, ma esistente come la faccia buona, pulita, migliore. E io ho trovato formativo che gran parte dell’Italia ieri sera si sia seduta ad ascoltare con disprezzo le parole di questo signore. È stato un bene che l’intervista fosse spezzata dai filmati delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, perché ci ha fatto venire l’impeto di alzarci dalla sedia e di difenderla noi a voce la vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino davanti alle parole asciutte e ipocrite di una persona che non sapeva mostrarci segno di empatia davanti a quel dolore comune. Ieri sera abbiamo per la prima volta, di nuovo, parlato pubblicamente di mafia perché ci siamo resi conto, dal vivo, di come sia soprattutto una battaglia di mentalità contrapposte. E la vera risposta da dare non avrà mai solo le sembianze di un maxiarresto o di un maxiprocesso, ma avrà in misura maggiore la forma di un linguaggio sociale che si discosti dalla puzza del compromesso morale.
E’ stato prezioso, ieri sera, assistere alla diversità di espressioni e di replica fra il figlio di Totà Riina e il figlio di Vito Schifani, membro della scorta Falcone, assassinato nella strage del ’92. Il primo, ermetico nelle risposte e impassibile nelle proprie posizioni, l’altro, dinamico, disponibile alle parole, generoso nelle risposte e nei racconti. Siamo veramente figli degli esempi che riceviamo, ma siamo soprattutto figli dell’esempio che riusciamo ad essere per noi stessi. Siamo sì il passato, se non riusciamo ad emanciparcene, ma siamo soprattutto il futuro, siamo la quota di onestà e di coraggio che decidiamo di investire nelle nostre scelte. Siamo la rabbia per quest’intervista che contestiamo, ma siamo anche il senso di rivalsa e di nuova dignità che da questa intervista emerge. Con più determinazione, con più chiarezza. Siamo quello che vediamo, ma siamo anche e soprattutto quello a cui scegliamo di credere dopo aver visto.
Il libro probabilmente lo compreranno in tanti. E sarà un fatto privato quello che gli avrà comunicato. Ma abbiamo un libero arbitrio per questo tipo di scelte. E se non vorrò fare questo acquisto perché non nutro nessuna curiosità in merito, sarò libera di essere la mia scelta.

Da un raìs all’altro

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Ogni mistero, specie se annidato sulla sfera politica delle relazioni tra stati, può finire per disperdere all’infinito le tracce che dovrebbero portare ai responsabili. La sensazione è che il giallo della morte di Giulio Regeni possa protrarsi a lungo, senza trovare risposte. La tragedia che ha colpito il nostro concittadino friulano sembra aprire una finestra di coinvolgimento nell’opinione pubblica, rispetto al tipo e alla quantità di rapporti che ci sono tra il nostro Paese e l’Egitto, oltre a riportare all’attenzione le dinamiche di potere interne a uno dei più rilevanti attori del Medio Oriente.
L’ordine di grandezza delle relazioni tra i due Paesi non sembra affatto trascurabile. Non è certo una novità che i Paesi arabi, da sempre, rappresentano un’area di interesse per gli Stati europei che, come il nostro, si affacciano sul mar Mediterraneo. E sono in tanti, a dire il vero, a bussare alla porta del generalissimo Abdel FattahAl-Sisi. Ci sono le banche, per cominciare, con il primo gruppo bancario italiano, Intesa San Paolo, che dal 2006 ha acquisito il quinto istituto di credito egiziano Bank of Alexandria, muovendo 5 miliardi di euro e rendendolo di fatto l’unico istituto a capitale straniero nel paese arabo. Banche, ma anche energia, altro settore sul quale l’Italia può fare la voce grossa rispetto agli altri competitor internazionali. L’estate scorsa Eni ha scoperto le potenzialità del supergiacimento Zhor, una miniera da 850 miliardi di metri cubi di gas, che porta con sé un indotto di gasdotti e infrastruttre. A tutto ciò, si aggiungano una miriade di legami che intrecciano gli interessi della nostra cara piccola e media impresa con le piattaforme imprenditoriali egizie.
Relazioni che, dunque, sembrano fitte e intense, al punto tale da chiedersi legittimamente se questo possa rappresentare o meno un elemento utile per minacciare Al-Sisi e lo stato maggiore egiziano, qualora non venga fatta chiarezza su questo mistero.
Eppure sappiamo che é stato proprio lo stesso Presidente egiziano a rassicurare il Governo italiano circa l’impegno delle forze di intelligence egiziane per far luce sulla morte di Regeni. Ma sappiamo anche che al momento è in azione una task-force investigativa italiana. L’efferatezza riscontrata sul corpo di Giulia sembra scatenare, infatti, la sensazione che possa trattarsi di omicidio politico, nemmeno questa certo rappresenta una novità. Ciò che non risulta chiaro ancora a nessuno è il perché colpire proprio un ricercatore, e perché questo ricercatore. Che possa trattarsi di uno scambio di persona, di un effettivo spionaggio o un semplice abbaglio della polizia egiziana, bisogna sempre partire dal lavoro che Regeni faceva sul territorio egiziano.
Ciò che è risaputo ai più, perché rimpallato su tutti i media, è che, oltre ad essere stato un articolista del Manifesto, pur pubblicando sotto pseudonimo, Giulio Regeni guardava ai sindacati indipendenti egiziani per i suoi interessi di ricerca.
Perché proprio i sindacati? Perché rimarcare la definizione di “indipendenti”?

Per andare in profondità e cercare di capire cosa tutto questo possa implicare, bisogna fare un passo indietro e tenere presente le dinamiche della politica interna dello Stato arabo. L’Egitto di questi anni ci fa tornare alla memoria i fatti del 2011 e la “primavera” di quei popoli che arrivarono, per extrema ratio, a destituire i propri raìs. Come accaduto in Tunisia, Libia e Yemen, anche gli egiziani ottennero la testa del proprio dittatore, Hosni Mubarak. Come nel giro di tre anni si sia arrivati da Mubarak ad Al-Sisi non è altro che la storia ordinaria di come le rivoluzioni del continente africano vengano facilmente tradite, in un susseguirsi di colpi di Stato, gelando i sentimenti della primavera araba, già bollata come grande illusione. Laddove la politica è troppo debole, sono i militari a prendere in mano le sorti di questi Paesi. Come in questo caso. Una giunta militare accompagna l’uscita di scena di Mubarak e indice elezioni libere per il 2012. La stessa giunta, un anno più tardi, destituisce con un golpe guidato da Al-Sisi, allora ministro della difesa, il neo-eletto presidente Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, il cui stesso governo non aveva mancato di assumere derive autoritarie a sfondo religioso e senza peraltro porre freno alle proteste per l’inasprirsi della crisi finanziaria egiziana. Da un raìs a un altro. Al-Sisi, infatti, ha consolidato il proprio potere quando, nel 2014, il suffragio popolare gli ha fatto toccare una di quelle percentuali bulgare – 96% – alle quali siamo stati già abituati dalle esperienze passate di altri regimi mediorientali. Un dato che gli ha permesso di soffocare l’opposizione, arrestando circa 20mila persone, sospettate di ostilità verso il nuovo assetto di potere, in nome della lotta al terrorismo. Concetti che è, tuttavia, difficile distinguere in Egitto. Pur trattandosi di un paese in cui la confessione islamica è prevalente, ciò non intacca la natura laica che le sue istituzioni hanno voluto assumere dal momento della decolonizzazione in poi. Motivo per il quale il multipartitismo e l’opposizione liberale sono tollerate. A farne le spese sono, invece, le frange dell’estremismo, sia politico che religioso. E poi ci sono i sindacati e con essi, di conseguenza, i diritti dei lavoratori egiziani. Anche questi duramente colpiti dal golpe di Al-Sisi in poi. E’ qui forse che si può collocare la rischiosa attenzione di Giulio Regeni per il sindacalismo indipendente. Le medesime ragioni per le quali lo stesso preferiva non firmare i suoi articoli, temendo per la propria incolumità. Prima della presenza di sindacati indipendenti bisogna, innanzitutto, riscontrare la presenza di un sindacato “ufficiale”, l’Egyptian Trade Union Federation (ETUF), federazione sindacale diretta dallo Stato e quindi difficilmente da considerarsi “indipendente”. Obiettivo esplicito di Al-Sisi è rafforzare la collaborazione tra l’ETUF e il governo, in maniera tale da marginalizzare il ruolo dei sindacati indipendenti nella rappresentanza dei lavoratori egiziani. I sindacati indipendenti si erano moltiplicati proprio a partire dalla rivoluzione del 2011, distinguendosi fra questi, in aperta contrapposizione all’ETUF, l’Egyptian Federation of Independent Trade Unions (EFITU) e l’Egyptian Democratic Labour Congress (EDLC).
Gli ultimi frammenti di questo interessante contesto socio-politico è lo stesso Giulio Regeni a fornirceli, attraverso l’articolo pubblicato dal Manifesto lo scorso 5 febbraio, a firma di Giulio, nonostante l’opposizione dei famigliari. Il raìs sembra essere riuscito nel suo intento di indebolire le frange indipendenti, dal momento che le due principali formazioni indipendenti sembrano agire ormai in maniera troppo frammentata e per lo più a livello locale. Troppo colpite dalle operazioni di repressione e cooptazione del governo, che, da due anni a questa parte, impedisce loro di convocare una assemblea generale. Regeni si trovava a riportare le loro ultime istanze, l’idea di stare uniti e veicolare una nuova protesta che guardasse ancora una volta a piazza Tahrir, cuore della rivoluzione.
E’ molto difficile riuscire a incrociare ricerca e giornalismo, trovandosi questi a viaggiare quasi sempre su binari paralleli. L’esperienza di Giulio dimostra che è possibile farlo, soprattutto se è la passione ciò che unisce questi diversi fini. La ricerca della verità del giornalismo, da una parte, la rigorosità e i canoni della ricerca accademica dall’altra. Un binomio che alla fine può rivelarsi troppo scomodo per alcuni.

Gianluca Scarano
Dottorando in Sociologia economica e studi del lavoro presso l’Universitá degli Studi di Milano ed ex rappresentante degli studenti presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna

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