L'UNIversiTÀ

Gabriele Morrone

Faccio parte di S.U fin dall'inizio della mia carriera universitaria presso la facoltà di Scienze politiche e ho iniziato a collaborare con questa rivista in modo sempre più assiduo e appassionato. Mi sono posto fin dal principio l'obiettivo di raccontare quello che vedo in modo mai banale e patinato, osservando da vicino una città meravigliosa come Bologna attraverso gli occhi di chi è abituato alle contraddizioni della propria isola natia: la Sicilia.

La stagione dei migranti

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Alcuni sistemano con cura dei cartoni raggrinziti per formare una specie di letto contro i ripiani di marmo, altri cercano riparo sull’erba accanto alle vecchie altalene arrugginite, i meno fortunati si arrangiano con le foglie dei salici che fanno da contorno alla piazza caotica.
Ecco lo scenario che si staglia davanti agli occhi di chiunque entri in questa piccola città di provincia della Sicilia occidentale. Uno spettacolo di uomini e lavoratori che s’innesca fin dalle prime ore del giorno e che trova tregua solamente verso le 10 della mattina, quando ormai quasi tutti gli agricoltori hanno raggiunto le proprie terre dalle quali estrarre i frutti, che a fine giornata daranno un senso monetario alla fatica.
Ahmed, Abdul, Dimitri sono alcuni nomi dei tanti che in Settembre prestano le proprie braccia per raccogliere quell’uva che dopo mesi diventerà vino pregiato, pronto ad imbandire le tavole di mezza Europa. Bianco d’Alcamo DOC, questo è invece il nome del suddetto vino, venduto anche a 15 euro nei supermercati dell’Emilia ma che a monte vede un ricavo di pochi centesimi per numerosi chili di materia prima.
Queste sono le proporzioni di questa guerra tra poveri: da una parte la moltitudine di uomini color caramello che affollano le piazze siciliane, dall’altra gli agricoltori sempre più soli nel portare avanti un’occupazione antica e piena di tradizione, ma ormai svilita e poco soddisfacente.
Questa guerra come detto, inizia qualche ora prima dell’alba, gli agricoltori guidano fino alle piazzole e vengono assaltati da questi moderni schiavi che richiedono un’occupazione, la scelta è veloce e razionale, si preferiscono coloro che hanno già lavorato nelle proprie terre o chi per requisiti fisici potrebbe apportare un maggiore beneficio alla raccolta.
Caricato un numero di uomini congruo al lavoro prospettato, i camioncini si indirizzano verso gli appezzamenti di terreno che fanno da cornice alla piccola cittadina. Cominciando alle 6 si avrà una pausa sotto qualche albero di carruba verso le 13 per poi concludere con il buio.
I lavoratori faranno ritorno alle bidonville improvvisate, i più fortunati usufruiranno delle docce messe a disposizione dalla Protezione Civile, che qui si muove come in una qualsiasi favelas sudamericana assicurando a questi lavoratori stagionali un pasto caldo la sera e pochi e insufficienti posti per dormire in tenda.
È questa l’immagine di un’Italia dimenticata, di un piccolo puntino sullo stivale dove un popolo abituato ad emigrare si confronta con l’accoglienza. Una terra dove tutto per fortuna o purtroppo rimane immobile.
Appunto l’indomani il tutto ricomincerà, lontano dalle discussioni di chi parla di accoglienza o respingimenti, lontano da chi divide il mondo in buoni e cattivi, da chi diffondono a gran voce slogan razzisti e rassicuranti dalle poltrone di un talk show.
Sarebbe interessante mettere davanti a quest’immagine coloro che sbraitano, per comprendere se un briciolo d’umanità può scaturire davanti al sorriso gentile di Abdul o al letto d’erba di Amhed.

Erasmus feelings

Rotterdam, accanto ponte Erasmus - foto di Gabriele Morrone
Rotterdam, accanto ponte Erasmus – foto di Gabriele Morrone

Due mesi.
Ecco quanto tempo è passato da quando ho lasciato Bologna. Ecco da quanto tempo dormo a 1400 km dalle due torri.
Non vorrei raccontare nulla, l’Erasmus è un’esperienza che va vissuta, sperimentata e declinata in tutte le sue sfaccettature. Dalle serate con musica tamarra olandese alle biciclettate alle quattro di notte, l’Erasmus ti regala contemporaneamente gioia e inquietudine.
Gioia che deriva dal sentirsi parte di una grande comunità, in grado di conoscere centinaia di persone provenienti dagli angoli più sperduti della terra, gioia derivante da una spensieratezza mentale che solo questa condizione sa creare e, nel mio caso, é quella delle piccole abitudini che costruisci quando condividi cucina, bagno e soggiorno con 15 persone.
L’inquietudine è invece figlia di una delle sensazioni più umane: quella di non fare/scoprire abbastanza. Sembrerà strano ma senti sempre che potresti fare di più, vedere di più, conoscere più persone, più culture, più parole. E ti trovi a progettare il prossimo viaggio, la prossima festa, la prossima birra non appena finisci la precedente. Non sei mai sazio di stampare biglietti ferroviari, controllare i prezzi su Airbnb o su Flixbus.
I giorni passano velocemente, in un valzer di ormoni, risate e pranzi improvvisati. Gioia e inquietudine si alternano in modo incessante, mentre scambi parole in un precario inglese con tutti quelli che ti circondano e che sai che stanno vivendo le stesse identiche emozioni solamente codificate in un’altra lingua, con altre parole o inflessioni.
Impari a pronunciare il motto austriaco contro i tedeschi, le volgarità in spagnolo o le particolarità in francese.
Impari che, nonostante tu chieda di non farlo, il coinquilino da Hong Kong ti aspetterà comunque con la luce accesa fino alle cinque di mattina in virtù di un esagerato rispetto.
Impari a compatire l’amico australiano che ancora non ha cambiato l’orologio e che incontri in cucina con una pizza all’ananas alle 7 di mattina.
Tutto sembra inglobato in una normalità che cominci a sentire anche tu, ma che si squarcia nel momento in cui pensi a dove sei, alla distanza dai tuoi cari, circondato da persone che della tua lingua conoscono solamente “pizza” e “pasta”. In quei momenti rivaluti tutto, senti di non appartenere a quel mondo, ma di farne parte in quel preciso momento, come chiunque altro attorno a te.
Non stai fingendo, sei solo consapevole che la tua parte da studente Erasmus è quella. Niente più, niente meno. Stai vivendo in una bolla create da condizioni che non si ripeteranno più. Magari vivrai esperienze simili ma non in questa forma, con questa intensità.
Ovviamente esiste anche la parte accademica, lezioni, meeting, tutorial e senti di essere in un altro mondo, lontano dalle aule della vecchia Unibo. Qui sperimenti nuovi metodi (nel mio caso il PBL, pochissime lezioni frontali, grandi discussioni sui temi più importanti in gruppi di massimo 15 persone).
E impari a convivere con l’ossessione olandese per i numeri: li trovi in ogni stanza, dagli sgabuzzini ai bagni, dai computer ai tavolini per il pranzo in biblioteca.
Apprezzi tutto, sei pronto a tutto, consapevole che prima o poi finirà. Ma che al tuo ritorno sarai cambiato, ne migliore ne peggiore. Solamente diverso.

Quo vado?!

 

L’ho visto. Non me ne vergogno, sono stato al cinema e l’ho visto. Tra i 22 milioni d’incasso di “quo vado?” 7 euro sono i miei.
Mi sono accostato al film con sufficienza e senza troppe pretese, Luca Medici, in arte Checco Zalone, non mi ha mai fatto impazzire, ritenuto degno di un Colorado qualsiasi più che del più colto Zelig, questa macchietta comica nella mia testa è sempre stata accomunata alla risata di pancia, al doppio senso.

Eppure devo ammettere che “Quo vado” non è un cinepanettone, sono lontani i tempi nei quali le risate erano causate da una flatuleimagenza di boldiana memoria, ora alla gente serve di più. Come svegliati brutalmente dall’ovattata era berlusconiana, ci riscopriamo realisti e concreti, non più mitiche vacanze a Cortina o sul Nilo ma concretissimi posti fissi da non perdere a costo di rinunciare all’amore (vero must di ogni commedia italica).
Zalone si scopre brutale e impietoso, e lo fa tramite la sua unica arma: la mediocrità.
Il personaggio è mediocre, meschino, perfettamente integrato in quei meccanismi che hanno retto la prima/seconda Repubblica (non a caso dedica l’unica canzone propria del film al rimpianto dell’era democristiana).
Gli impiegati pubblici ne escono con le ossa rotte, i radical-chic terzomondisti ecumenici altrettanto, preti antimafia e boss ‘ndraghetisti vengono dipinti con la stessa ferocia dissacrante durante la proiezione.
È l’esaltazione del medio man, (altro…)

Le ferie del fuorisede

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Per il fuorisede che ritorna a casa
In treno, in aereo, in autobus o in macchina il fuorisede prima o poi, in modo gioioso o malinconico deve tornare a casa.
Non nella casa in terra straniera per la quale paga esosi affitti e che ha addobbato seguendo un dubbio gusto nel campo del design ma a Casa.
La casa che lo ha visto crescere, la casa delle delusioni amorose liceali, quella in cui sa che ad aspettarlo ci sono parenti, amici e genitori.
Durante questa mistica transumanza il fuorisede fantastica sulle prelibatezze culinarie che lo attendono, pregusta il recupero delle numerose ore di sonno perse durante i recenti periodi di studio o più semplicemente sente avvicinarsi la presenza materna apportatrice di magici rifacimenti di letti o piegamenti di vestiti.
Il culmine della contentezza viene raggiunto all’arrivo, ad attendere il figlioletto che vive lontano sono presenti parenti lontani e vicini, nonni e cugini che passavano per caso da li.
Ed eccolo lì, spuntare come un eroe che torna dal fronte, il fuorisede comincia a salutare le due trecento persone accorse per l’evento con il fare sbarazzino di chi si è emancipato perché cittadino di una città più grande e moderna (nel suo cuore rimpiange il piccolo paesino di provenienza ma mai e poi mai lo ammetterà).
Il resto è storia, finita la mezzora di saluti e baci si viaggia come in una millenaria processione verso casa, la valigia la prende il papà, non perché il figlio sia stanco dal viaggio ma perché ritenuto stanco per la vita fredda e grama lontana dal nido familiare.
E la mamma? Questa figura mitologica metà dietologa metà balia? La madre si commuove, non per il ritorno del figlio ma per lo stato in cui lo trova. Il figlio è magro. Non si discute. Nonostante abbia preso 20 kg per via dell’alimentazione tutta kebab e pizzaBo. Il figlio è magro e pallido per dogma.
La madre vive questa condizione come una sconfitta esistenziale, una messa in discussione delle proprie capacità genitoriali inficiate dalla distanza dal pargoletto deperito.
In quanto bambino del terzo mondo di 80/100 kg il fuorisede va fatto mangiare, e per farlo la madre ha già preparato prima d’andare a prenderlo una cena che oscilla tra le 3000 e le 4000 calorie a portata, corredata di cibi sconosciuti alla convenzione di Ginevra a grandezza Giuliano Ferrara.
E il nostro fuorisede come reagisce al tutto? All’inizio è in paradiso, abituato alla freddezza dei troll che lo circondavano che si ostinava a chiamare coinquilini il fuorisede è commosso da questa esplosione di calore umano tale da fare invidia all’Etna. Si gode quella serata, ignaro di come quell’apprensione sconosciuta in terra straniera cambierà effetto sul proprio io.
Il cambiamento comincia dal giorno dopo, precisamente la mattina, la mitica figura centrale del nostro racconto si sveglia con fare rilassato alle ore 13:40 trovando un altro immenso pranzo preparato per le sue adesso meno fameliche fauci, ma tale calo dell’appetito (dovuto alla sontuosa cena della sera prima) non viene ritenuto possibile dalla madre che in virtù del dogma sopra citato inizia a vedere vestiti sempre più larghi e corpi sempre più deperiti. È l’inizio della fine, alimenti che vengono nascosti e spacciati per deglutiti solo per non essere calati a forza nello stomaco del povero studente che rimpiange la libertà culinaria tanto disprezzata nei magri periodi d’esame.
Allora il fuorisede decide di uscire, per non dover giustificare perché ad un’ora dal pranzo non ha ancora ingerito quella leggerissima fetta di pandoro al cioccolato, chiamato un amico ritorna nell’arena che lo aveva visto protagonista (ma quando mai!): la piazza del paese.
Qui è tutto un salutare ed aggiornare su quando si è arrivati, come vanno gli esami e quando si ripartirà, immancabile infatti la domanda “ma quando riparti?” che mette in dubbio la felicità mostrata da chi la formula.
Tra di loro i fuorisede si annusano come animali rari, mirano a mostrarsi integrati al massimo nella nuova città, vantano l’atmosfera “di Lì”, la pulizia e l’educazione che da buoni criticoni non ravvisano nei propri concittadini. Il fuorisede gioca anche la carta del maledetto lontano dalla famiglia, con tutte le ragazze che gli capitano a tiro, ricevendo lo stesso numero di rifiuti di un qualunque liceale ma almeno usando argomentazioni e tecniche più affinate, insomma come perdere ma con tanto stile.
Sconsolato torna a casa e li trova un’altra limitazione della propria libertà data per scontata fuori dalla terra natia, il padre che in modo apprensivo aspetta lo scapestrato figlio ad orari improbabili, eppure non è una cosa inaspettata, il terrorismo psicologico a suon di “quando torni? Che combini?” era cominciato dalle 10 di sera, ma si manifesta in tutta la sua potenza appena varcato l’uscio di casa.
Malinconico della fredda casuccia straniera il povero eroe si corica a letto, consapevole che l’indomani sarà un altro giorno, uno in meno dal ritorno nella città degli studi, dove ricominciare a fantasticare sulla vita a casa con i suoi.
Che vita grama.

L’Erasmus che verrà

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Il trattato sui parametri d’ingresso nella comunità europea.
Ecco fino ad un anno fa l’unica nozione che mi balenava in mente quando qualcuno pronunciava “Maastricht”.
Non ero mai stato sfiorato dall’idea di approfondire le mie conoscenze circa questa piccola città olandese sulle rive del fiume Mosa, se non in occasione di una sciagurata interrogazione di storia durante il mio 3° anno di liceo.
Una volta a Bologna, Maastricht aveva cominciato a diventare un nome frequente a causa della tipologia di materie studiate, ma nel momento in cui ho preso la decisione di usufruire del progetto di scambio Erasmus, avevo in mente mete più calde e rinomate (Spagna, Grecia o giù di lì).
Pensate che mi ero anche informato sul tipo di materie dell’Università di Madrid da farmi convalidare sotto le due torri, eppure Maastricht (forse a causa dello studio intensivo di storia contemporanea) aveva iniziato ad apparirmi come la destinazione perfetta per chi, come me, volesse studiare relazioni internazionali e magari un domani, burger king permettendo, intraprendere una carriera diplomatica.
Non restava che informarsi: il prof responsabile del progetto? Lo stesso a cui avevo dovuto dimostrare il suddetto studio in storia. Le procedure? Complicate, ma fattibili. Le prove? Un colloquio in inglese con (ormai posso svelare il nome del prof) Cavazza e una lettera di presentazione nella quale dimostrare il mio interesse per l’Olanda accademica e non ludica. Risultato? Arrivo incredibilmente 5° in graduatoria e quindi vengo selezionato per svolgere quest’esperienza all’estero.
Era il tempo di fare i conti con le mie sensazioni, e non lo dico perché voglio apparire così didascalico da suddividere passo per passo la narrazione, ma perché durante tutto l’iter burocratico non avevo realizzato che stavo compilando i moduli che mi avrebbero portato lontano dagli affetti e da casa per ben 6 mesi.
Certamente Bologna aveva costituito un primo distaccamento dalla mia Sicilia, ma anche qui ero riuscito a creare il mio microcosmo, fatto di birre in piazza verdi, passeggiate per via del pratello e cene dai colleghi, e ora?
Ora toccava immaginarsi nel cuore della bistrattata Europa, collega di studenti di tutte le parti del mondo a seguire lezioni in una lingua straniera, costretto ad usare (si spera) l’inglese per ordinare caffè oscenamente lunghi o freddi piatti olandesi.
Devo dire che la realizzazione non è stata facile, l’euforia iniziale aveva rapidamente ceduto il passo ad un malinconico pensiero “E se non riuscissi ad inserirmi?”. Insomma, non è detto che riesca a stringere lo stesso numero di amicizie che sono riuscito a stringere a Bologna e non è neanche detto che riesca a godermi la città come sto riuscendo a fare all’ombra di San Petronio.
La visione paranoica e tetra si era impossessata della mia mente, fino a quando ho cominciato a valutare la cosa da un punto di vista diverso, ho infatti analizzato in modo razionale l’opportunità dicendomi: “ tra due mesi m’imbarcherò su un aereo che mi trasporterà in un paese straniero , ma nel quale non potrò fare altro che venire a contatto con culture e visioni del mondo diverse, un paese che attraverso il suo sistema di trasporti mi permetterà di raggiungere città del calibro di Amsterdam, Parigi e Berlino in meno di due ore, un paese che propone un metodo di apprendimento totalmente rivoluzionario (il PBL, molto più pratico e meno teorico), un paese che mi potrà donare finalmente la percezione di essere parte di un grande sogno che è l’Europa unita, ovviamente badando alla frizzante vita sociale che solo gli olandesi riescono a costruire.”
Mi mancherà Bologna, ma se ripenso che in un anno sono passato dal sentirmi perennemente in gita perché in una città diversa da quella in cui sono nato a considerare la stessa città casa, credo che in 6 mesi potrei anche amare quel micro mondo chiamato Maastricht e magari chiamare anch’esso casa, o meglio thuis.
Niente d’aggiungere, auguratemi solo buon viaggio.

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