L'UNIversiTÀ

Anna Rita Francesca Maino

Sono nata a Matera e attualmente vivo a Bologna, dove studio Giurisprudenza. Non amo descrivermi, ma descrivere, anche perché leggermi significa un po' conoscermi. Scrivo per passione e credo che carta e penna facciano miracoli: "curano i dolori, consolidano i sogni, restituiscono la speranza".

È ai padri che si ritorna

Viviamo in un presente complicato in cui le certezze di sempre sono messe in discussione e non possiamo prevedere con conclusioni affrettate se si tratterà di un fallimento o di un’evoluzione. Fra questi pilastri d’argilla c’è anche la famiglia, la sua concezione, le sue radici e i suoi valori. Senza avventurarsi sui temi delle unioni civili, delle adozioni o della maternità surrogata, riflettevo semplicemente su quanto possa essere frustrante trascorrere la festa del papà o della mamma immuni da cascate nel cuore, qualora sia assente un destinatario per questi auguri. E’ una mancanza che può essere fisica, ma soprattutto emotiva. I vuoti interiori sono soggettivi, indefinibili, e ci si può sentire orfani pur non essendolo, ma per mia immensa fortuna sono ipotesi a me sconosciute. Credo che i figli non siano di chi li mette al mondo, ma di chi li accompagna per mano nella vita, trasmettendo umanità, educandoli all’amore e al rispetto, all’onestà e alla dignità. Ci sono uomini e donne che fanno figli e poi ci sono i padri e le madre.
Di norma diffido per indole dalle date convenzionali, ma il 19 Marzo è una tenera eccezione. Mi piace rinnovare sottovoce la gratitudine profonda che nutro nei confronti di chi ha immortalato la mia infanzia in una collezione di scatti che cresce con me. Alcuni padri compiono gesti eccezionali in nome di questo amore, come Mark Zuckerberg, che, assieme a sua moglie Priscilla, ha commosso il mondo, quando alla nascita della loro figlia Max, si è impegnato a donare il 99% delle sue azioni di Facebook – dal valore di 45 miliardi di dollari – per promuovere il potenziale umano e l’uguaglianza fra tutti i bambini attraverso la Chan Zuckerberg Initiative.
Altri dedicano ai propri figli poesie o canzoni che, anche se diventano successi mondiali, sono scritte soprattutto come fossero carezze intime e private da donar loro ad ogni lettura, ad ogni ascolto.
I più, invece, vicini o lontani, sfidano le difficoltà quotidiane e provano a vincerle per il bene dei loro cuccioli.

Luigi Guerricchio, anni '90, Matera - foto di Giuseppe Maíno
Luigi Guerricchio, anni ’90, Matera – foto di Giuseppe Maíno

Penso ai padri con evidente ottimismo, nonostante non sia possibile generalizzare, ma offenderei la mia storia familiare se non lo facessi. Le sbavature e le incomprensioni sussistono fisiologicamente in tutte le relazioni umane, come in quelle con i padri. Quella paterna è una figura unica e fondamentale che viaggia in prima classe anche con gli scioperi o con i guasti al motore. In senso lato è ai padri che si ritorna quando si cercano le origini dei fenomeni, le radici dei perché, come nel caso dei nostri padri costituenti.
E’ ancor più particolare il rapporto che si instaura fra i padri e le figlie, perché condiziona inevitabilmente lo sguardo che queste avranno sugli uomini, il modo in cui li ameranno, il rispetto che da loro pretenderanno.
Parte di qui il grado di aspettativa che non è la prosecuzione del filo paterno, ma un trampolino verso la sfera maschile nella quale ci si orienta anche grazie a quel linguaggio non verbale appreso a casa.
L'Aquila, 2009 - foto di Giuseppe Maíno
L’Aquila, 2009 – foto di Giuseppe Maíno

Ricordo certe frasi di mio padre, che nel bene e nel male, hanno condizionato la mia infanzia e la mia crescita, come quando a sei anni mi ha insegnato a prelevare ad uno sportello bancario, svelandomi con fiducia quelle cinque cifre segrete ed emancipandomi con così poco. Oppure quando qualche anno dopo mi ha spiegato in poche parole la differenza fra la destra e la sinistra, che “pensa un po’ di più alla gente poverella e per bene come noi”. Ha custodito per sempre la mia infanzia e quella dei miei fratelli in pellicole chilometriche di bagnetti, vacanze al mare e primi giorni di scuola, oltre all’infinito repertorio fotografico, prezioso come noi. Mi ha accompagnata a scuola per sedici anni dal primo giorno di asilo all’ultimo del liceo, cantando Battisti o in silenzio assonnato, cercando invano un dialogo mattutino o nervoso nel traffico, ma sempre abilissimo alla guida e, molte volte, in ritardo!
Polignano a mare (BA), anni '90 - foto di Giuseppe Maíno
Polignano a mare (BA), anni ’90 – foto di Giuseppe Maíno

L’ho visto piangere in un paio di circostanze anche se non avrei voluto, ma è servito per conoscere meglio la sua profonda sensibilità, che è l’obiettivo della sua macchina fotografica. Non sa tutto di me – perché nessuno lo sa – e le distanze esistono fra di noi, però non mancano le ragioni per accorciarle, come quella fiducia incondizionata nei miei confronti che non mi abbandona mai e mi fa sentire contemporaneamente libera e protetta. E’ curioso della mia opinione e crede in me, sempre. Questa certezza non ovvia è come un vento che soffia dentro e scuote le parti migliori di me, che pensano al domani col sorriso.

Fino in fondo al pozzo

Palazzo Marino - Comune di Milano
Palazzo Marino – Comune di Milano

Con un nodo alla gola che non si è ancora sciolto sono trascorse settimane dalla morte di Giulio Regeni, ricercatore friulano di 28 anni, inghiottito dal buio di un omicidio politico. Abbiamo aspettato che le notizie acquisissero una certa coerenza prima di scriverne, anche perché le indagini preliminari che parlavano di un incidente stradale, come causa del decesso, erano assai poco credibili.
Ci siamo documentati, stiamo seguendo con apprensione gli sviluppi di questa vicenda che evidentemente cela conflitti e interessi ulteriori: le piste improponibili, i risultati autoptici italiani ed egiziani che non combaciano, gli evidenti segni di tortura sul corpo di Giulio.
Le nostre istituzioni non sono state a guardare, Amnesty International Italia ha promosso la campagna “Verità per Giulio Regeni”, cui ha aderito la Repubblica e pochi giorni fa anche il Parlamento europeo si è espresso con una risoluzione d’urgenza in cui “condanna con forza la tortura e l’assassinio del cittadino europeo Giulio Regeni” e “chiede alle autorità egiziane di fornire alle autorità italiane tutti i documenti e le informazioni necessarie per permettere un’inchiesta pronta, trasparente e imparziale”. Essa condanna la violazione dei diritti umani e l’uso sistematico di sequestri e torture contro gli oppositori da parte del regime di Al Sisi. L’Egitto l’ha respinta come “non veritiera”.
Noi non possiamo aggiungere informazione a quella che ci viene proposta e che, soprattutto in casi controversi come questo, è essa stessa una giungla. All’inizio è stato faticoso persino capire quale versione dei fatti raccontasse il vero. Per giorni è stato difficile individuare la fonte più attendibile, ma la volontà di non accettare depistaggi e verità di comodo è il fine che ci ha motivati nella realizzazione di questo pamphlet dedicato a Giulio Regeni.
L’UNIversiTA può contribuire a mantenere agitate le acque dell’attenzione su questa storia, perché fra di noi non passi, assieme al tempo, l’incontenibile bisogno di verità e di giustizia. Siamo studenti indignati che raccolgono una delle voci del coro che grida verità per Giulio Regeni. Questa edizione straordinaria del nostro giornale esprime la nostra tensione, l’inquietudine positiva che ci accompagna alla ricerca di una spiegazione.
Abbiamo pensato a queste pagine come un’opportunità per approfondire le ragioni di questo ingiustificato attentato alla vita di un giovane che aveva incentrato i suoi studi di ricerca sul sindacalismo indipendente egiziano e sui diritti dei lavoratori. Vogliamo capire cosa ci sia dietro la sua morte per leggere i profili ulteriori alla cronaca del fatto.
Pertanto uno dei primi interrogativi che ci siamo posti è stato quello di approfondire il tema e il metodo di ricerca di Giulio, i suoi ideali, che erano al contempo la fonte e il fine della sua attività. Infatti, non è scontato declinare il contenuto dello studio di un ricercatore, perché capire i caratteri della sua indagine significa avvicinarsi, almeno col pensiero, agli esiti della sua ricerca. Si trova quello che si cerca e forse Giulio era andato troppo in fondo. Così fra i contributi esterni alla nostra redazione abbiamo accolto con entusiasmo anche quello di un ricercatore e due dottorandi, perché ci orientassero nella definizione di questa professione.
Inoltre, abbiamo provato a ricostruire il contesto culturale e politico egiziano oltre all’analisi dei fatti.
Siamo stati spronati da un naturale senso del dovere, una particolare sensibilità sociale di chi reputa fondamentale la ricerca di questa verità ancora insabbiata.
In una lettera a l’Espresso i genitori di Giulio scrivono che in una scuola di Fiumicello un gruppo di giovani ha piantato una quercia simbolica nell’area scolastica, perché diventi un giorno “un luogo di ricordo, di meditazione, ma anche di vita”.
Nel rispetto dei loro sentimenti e della dignità del loro dolore, anche noi abbiamo voluto scrivere in queste pagine, che sono l’esito di un lavoro collettivo, ci auguriamo, utile e discreto.
Ci sono vite che non conoscono la morte, se nel loro nome altra gente si mobilita con pazienza e perseveranza.
Forse sarà stata solo una coincidenza, ma Giulio è scomparso al Cairo proprio il 25 Gennaio, anniversario delle proteste del 2011 in Piazza Tahrir contro l’allora presidente Mubarak.
Intanto, ogni giorno emergono novità sul caso Regeni, che non sarà trascinato via dalle turbini del deserto. Giulio era un cittadino italiano, uno studente europeo, perciò è nostra la responsabilità di reagire come se fosse stato nostro fratello ad aver subito quelle torture, come se fosse stato di un nostro amico quel cadavere rinvenuto in condizioni pietose in un fosso di periferia. Ma in fondo a quel fosso noi vogliamo trovare la verità, come fosse quel pozzo di cui scriveva Sciascia ne Il giorno della civetta: “la verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità.

Il nostro posto nel mondo

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(Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1986 – ‘Paesaggio Italiano’ (1980-1992)”

Nell’era del digitale la carta stampata acquisisce ancor più valore, perché è rara e ricercata; infatti, la pazienza e la passione con cui nasce e cresce questo giornale ne sono la conferma. Non è una testata nazionale, non ha una tiratura importante, eppure è per noi un’opportunità preziosa per agire da uomini liberi. Non abbiamo paura di pensare, di esprimere un’opinione, di scegliere da che parte stare.
Coltiviamo dubbi e ci mettiamo in discussione, pensando in grande nel nostro piccolo. Continuiamo a ricercare i nostri maestri senza mai smettere di essere noi stessi. Abbiamo l’ambizione di dialogare col lettore fino all’ultima parola per informarlo, incuriosirlo, anche indignarlo, se lo riterrà opportuno, purché non resti indifferente.
L’UNIversiTA‘ è una finestra aperta da cui osserviamo il mondo con il nostro sguardo per cercare di capirlo e per mantenere una promessa che inconsciamente gli abbiamo fatto: vedere oltre che guardare. Non vogliamo rinunciare alla potenza delle parole pure e vere che possono cambiare i destini; alcune possono essere semplici sostantivi, altre contenitori speciali come i dubbi e i sentimenti, la speranza e il coraggio.
Ci sentiamo responsabili di ognuna di loro.
E’ faticoso – forse impossibile – navigare nel mare in tempesta dell’attualità che ad ogni istante si rinnova e rimanere aggiornati è una sfida che non sempre siamo in grado di vincere.
La temperatura della nostra società sale e scende a modo suo e noi dobbiamo essere consapevoli di non conoscere – e non poter conoscere – tutte le verità che, invece, vorremmo raccontare. Tuttavia, manteniamo la rotta senza perdere di vista la nostra stella polare: approfondire il nostro tempo, imparare dalla storia, essere allenati per il futuro.
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(Luigi Ghirri-Kodachrome, Punto e Virgola, Modena 1978)

Questa rivista aspira ad essere la sintesi modesta di una redazione più estesa, che nella nostra pagina on line è ancor più dinamica e aggiornata ogni giorno. Vogliamo crescere convinti che ciascuno di noi possa fare la differenza attraverso qualsiasi sentiero traccerà l’avvenire.
Su queste colonne parliamo di politica perché è la parte che influenza il tutto, commentiamo l’arte che trasmette ciò che i sensi spesso non sanno dire, affermiamo opinioni per mezzo delle quali, contemporaneamente, raccontiamo le nostre vite.
Chi scrive ha le sue ragioni, le sue ispirazioni e noi cerchiamo di conciliare la realtà interiore con quella esteriore, perché, riflettendoci, è l’esatto dissidio che ognuno vive quando si relaziona con l’altro.
Non riusciremmo ad esistere nel mondo senza rendere visibili le nostre luci e le nostre ombre. Per noi è essenziale alimentare il nostro spirito critico, affinché sia possibile distinguere il vero dal verosimile. Con un po’ di affanno sgomitiamo fra i giorni, perché cerchiamo di capire che senso abbia il suono del nostro presente. Che si tratti di rumore melodia dipende da noi.
Facciamoci caso, cari lettori, a quanto questo significhi essere liberi.

É accaduto in città

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Unire la fotografia alla passione per la storia di Bologna: queste le ragioni che hanno ispirato la giovane regista catanese Noemi Pulvirenti in E’ accaduto in città, mediometraggio della sezione Fare Cinema a Bologna e in Emilia Romagna, all’interno della 22ª edizione di “Visioni Italiane”.
Il protagonista è Luciano Nadalini, fotografo di cronaca dal 1984, che per l’Unità ha documentato numerosi eventi accaduti a Bologna negli ultimi trent’anni: da studente nel 1968, a operaio nel 1977, a fotografo dagli anni ’80 ha vissuto in primo piano occupazioni studentesche, rivendicazioni sociali e cambiamenti culturali di questa città e delle sue generazioni.
Con la penetrante delicatezza del bianco e nero, nel Natale del 1984 ha immortalato la strage del Rapido 904, di cui è rimasto emblematico lo scatto di un bambolotto fra le rovine dell’esplosione, così realistico da sembrare un bambino.
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Ha fotografato le cronache degli omicidi commessi dalla banda della Uno bianca, che per anni hanno tolto il fiato alla città di Bologna, ferita contemporaneamente dalla strage di Ustica e da quel 2 agosto 1980. Una città rossa per il sangue che l’ha attraversata e per gli ideali che l’hanno animata e resa bandiera al vento di una certa cultura.
Natalini raccontava quello che succedeva in città per il suo giornale e per piacere, ma il suo lavoro ha avuto una portata ulteriore: grazie alle sue fotografie sui pazienti di un ospedale psichiatrico di Reggio Emilia, la Procura ha avviato delle indagini, che hanno accertato abusi nei loro confronti, perciò è stata poi disposta la chiusura della struttura.
In questa circostanza, come a seguito dei fatti di Genova, durante il G8 del 2000, la DIGOS di Bologna gli ha chiesto di consegnare i negativi delle sue foto, ma lui si è rifiutato, mancando un mandato di perquisizione da parte dell’autorità giudiziaria.
Questi due episodi sono sintomatici del lavoro di un fotografo di cronaca sempre fedele ai fatti che, attraverso uno scatto, diventano voce a cui dare ascolto per sempre, secondo un linguaggio che non ha bisogno di parole.
La pellicola alterna alle vicende narrate da Nardini le sue fotografie, che, assieme, in venti minuti riproducono – dal punto di vista della sua esperienza – tre decenni bolognesi in cui la storia si è fatta strada, spesso con violenza, e andava documentata in anni cruciali in cui ogni diritto era una conquista e non una concessione.
Se c’è la foto, il fatto è successo”, afferma Nardini in una delle ultime battute, perché la fotografia è un potentissimo mezzo di comunicazione delle dinamiche sociali e culturali.
La fotografia è testimonianza della storia: infatti, egli è membro dell’associazione bolognese U.F.O – Unione Fotografi Organizzati – che ha unito vari archivi fotografici per un catalogo cittadino che rappresenta l’inestimabile memoria storica di ciò che “è accaduto in città”.
Il cinema, il teatro e la fotografia sociali sono espressioni culturali idonee a nutrire una democrazia di pensieri civili e Visioni Italiane è una vetrina vivace per menti aperte che vogliono rimanere tali.

Francamente, non ce ne infischiamo

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Ci sono appuntamenti con la Nazione ai quali nessun cittadino dovrebbe mancare, come il discorso di fine anno del Presidente della Repubblica. È un momento istituzionale che ho sempre considerato cruciale, perché sintetizza un sentimento, nobilissimo e non spontaneo: il nostro senso di appartenenza all’Italia si manifesta anche attraverso questi eventi importanti. Ieri è stata la prima occasione per il Presidente Sergio Mattarella, il cui intervento è stato l’esatto specchio della sua persona sobria ed elegante. Ha parlato a braccio, seduto cordialmente su una poltrona, come se gli Italiani fossero nel suo salotto, spontaneo e informale. I suoi occhi azzurri e luminosi solo dopo i primi minuti hanno smesso di ballare fra la telecamera e il resto della stanza per rimanere fissi e in connessione ideale con ogni cittadino all’ascolto. Piccoli dettagli da cui traspare il garbo di un uomo, apparentemente schivo, ma nel profondo garante della nostra Costituzione e valido rappresentante dell’unità nazionale. Dopo aver preso confidenza con una personalità da decifrare è possibile cogliere l’essenza delle sue parole pacate e sagge. E’ stato abile nel pronunciare il suo discorso dalla prospettiva dei cittadini comuni nei loro luoghi quotidiani: ha esordito parlando del lavoro che manca tanto per numerosi giovani preparati quanto per i disoccupati più maturi che, soprattutto al Sud, soffrono di questo disagio sociale che è oltretutto la negazione di un diritto fondamentale. Mi ha colpito la sincerità con cui si è rivolto alle famiglie in affanno, ai disabili, agli anziani “soli o che si sentono soli”, ai malati e ai bambini nati nel 2015, portatori di gioia e di speranza. Ha proseguito con la condanna dell’evasione fiscale che, secondo Confindustria, nel 2015 è stata pari a 122 miliardi di euro ovvero pari a 7.5 punti del PIL. Un aberrante malcostume pari al fenomeno della corruzione di chi ruba, sfrutta, inquina, calpesta i diritti: la correttezza e l’onestà si esigono prima di tutto da chi governa, perché svolga la sua funzione pubblica con trasparenza, rispetto e sobrietà assieme al fedele rispetto delle leggi e della Costituzione, che è una realtà viva e concreta solo quando sono attuate le regole della nostra convivenza civile. Doveroso il tema del terrorismo fondamentalista che ha colpito con violenza l’Europa, ma non ci condizionerà perché la libertà delle nostre scelte di vita rimanga baluardo di pace e democrazia e perché sia da difendere come impegno sociale di cui ciascuno è portatore in leale collaborazione con gli altri Paesi dell’Unione Europea. Inoltre, ha ricordato che l’Italia ha conosciuto la sofferenza dell’emigrazione, perciò oggi l’immigrazione è una questione da affrontare con accoglienza, ma rigore: l’integrazione si realizza innanzitutto attraverso la conoscenza della lingua italiana e il lavoro onesto. In caso contrario gli immigrati delinquenti devono essere puniti come gli italiani disonesti, poiché illegalità, malaffare e corruzione rubano il futuro. Ha parlato delle mafie da combattere senza esitazione, onorando il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine che ogni giorno agiscono con coraggio in questa direzione e ricordando che i giovani sono i primi cui repelle un sistema che rifiuta la legalità. E’ confortante la fiducia che gli Italiani ricevono anche all’estero, come esempi di bellezza, bravura e talento, perché non possiamo restare intrappolati dai luoghi comuni che spesso connotano solo in negativo la nostra italianità. Dobbiamo difendere e potenziare ciò che ci rende unici e insostituibili, ricordare che bisogna aver cura della nostra Repubblica che compirà 70 anni nel 2016, far vivere i principi che danno impulso alla nostra stessa vita. Per tale lascito emotivo che rinnova la fede nei valori civili ribadisco l’opportunità di questi riti per ritrovarci e darci speranza. Ammiro il Presidente Mattarella per la delicatezza con cui è presente nella vita della nostra Nazione e monitora con sobrietà questa stagione della nostra democrazia. Ho atteso con impazienza il suo messaggio e l’ho recepito con soddisfazione. Solo quando ci si sente protagonisti del sistema è possibile partecipare naturalmente alle pretese di una democrazia, che offre la rosa più candida delle libertà e pertanto il suo equilibrio è fra i più delicati: si mantiene o sbilancia in base alla cifra del nostro interesse al suo destino.

Non perdiamoci di vista

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A Bologna si celebra il maxiprocesso Aemilia, il primo sulla ‘ndrangheta nel Nord Italia con oltre 200 imputati.
In queste settimane la nostra attenzione mediatica è stata pressoché totalizzata dagli attacchi terroristici di Parigi e dai loro incalzanti e imprevedibili sviluppi, tuttavia, ci sono spazi di informazione nazionale sui quali è altrettanto importante rimanere aggiornati. Infatti, pur riconoscendo il diverso grado di allarme sociale che tali fatti generano nell’opinione pubblica, il cittadino modello, che ha memoria lunga e mente aperta, non può certo essere complice dell’oblio politico e giudiziario di casa nostra. Nell’ultimo mese sono cominciati due processi eclatanti: Mafia Capitale a Roma ed Aemilia a Bologna, entrambi maxiprocessi dai profili importanti in fase di accertamento da parte dell’autorità giudiziaria. Il padiglione 19 della Fiera di Bologna è blindatissimo: la DDA bolognese ha ipotizzato 189 diversi capi d’imputazione per 219 imputati; all’udienza preliminare hanno partecipato in collegamento video anche una quarantina di detenuti fra i quali 14 boss di ‘ndrangheta al 41 bis. Ma ai possibili reati di usura, estorsione, associazione a delinquere di stampo mafioso, si aggiungono anche quelli meno tipici della criminalità organizzata in senso stretto, come la corruzione elettorale, il falso in bilancio e la turbativa d’asta, propri, invece, dei cosiddetti colletti bianchi. Senza immergersi nei tecnicismi giudiziari e nel raffinato lessico giuridico, ciò che seduce la riflessione è l’inquietante radicamento del sistema della ‘ndrangheta in Emilia Romagna: non si parla di mera infiltrazione, come fino a poco tempo fa si sosteneva ingenuamente, quando non era concepibile riconoscere che una terra da sempre votata alla legalità e alla virtù civica fosse corrotta dal turpe malaffare. I primi flussi sarebbero cominciati già negli anni ’90 per poi radicarsi pandemicamente, approfittando anche di situazioni contingenti, come la ricostruzione successiva al recente terremoto che ha colpito il cuore di questa Regione. Se è difficile da spiegare, è molto più complesso realizzare che questa contaminazione sia avvenuta davvero in una terra piena di risorse non solo economiche, ma soprattutto culturali, sedimentate nel tempo per la particolare sensibilità politica e civica di questa popolazione. Forse all’inizio è stata sottovalutata l’entità di questo fenomeno ora al vaglio degli inquirenti, ma la presenza di circa trenta richieste di costituzione di parte civile a nome di enti, associazioni, Comuni è una reazione significativa che mostra la volontà di riaffermare quell’identità offesa. Di solito dinnanzi a queste notizie si pensa che spetti solo alla magistratura e alla polizia giudiziaria il compito di indagare, accertare e giudicare, mentre noi siamo autorizzati ad attendere con non troppo pathos, come se qualunque decisione non ci riguardasse. Ma dietro un fatto c’è un antefatto, una ragione che l’ha generato, dopo la cronaca c’è la sua lucida analisi. E’ troppo importante conoscere le attuali condotte criminali, soprattutto perché nella loro evoluzione sono sempre più calate in contesti all’apparenza puliti, distanti dai luoghi comuni. Certamente qualcosa si sa, ma probabilmente non si vuole sapere abbastanza, sebbene queste dinamiche, edite o inedite che siano, coinvolgano tutti, poiché animano il sistema politico-imprenditoriale e dunque le ripercussioni sono dirette su noi cittadini. E’ questa la conseguenza maggiore che dovrebbe scuotere maggiormente le nostre coscienze. Conoscere è il presupposto fondamentale per scegliere come agire quando sarà il momento. Con tutto il rispetto e la giustificata tensione per il panorama internazionale, non possiamo essere ulteriormente vittime della selezione informativa fatta dai mass media più di quanto sia inevitabile. Non c’è spazio per dire tutto, non c’è tempo né particolare interesse per ogni capillare aggiornamento e le linee editoriali tendono a raggiungere i temi che più si lasciano seguire. Ribadendo che ci sono questioni più urgenti e contingenti di altre su cui è bene spendere fiumi di inchiostro e ore di diritta televisiva, non è ammissibile che all’improvviso tutto il resto sia sommerso dall’alta marea del secondo piano. E’ come se si accettasse di vivere a puntate, mentre ogni fatto continua ad evolversi in silenzio. Improvvisamente non c’è quasi più nulla da aggiungere sulle sorti di Roma. Ma se l’attualità il giorno dopo diventa storia e questa, per non essere divorata dal presente, deve essere ricordata, allora domandarsi cosa accada oltre quello che ci lasciano conoscere, andare alla ricerca dell’informazione perduta, è un piccolo favore che facciamo alla collettività e quindi a noi stessi.

Queste nostre fragili certezze

In queste ore tutti noi simagetiamo cercando di spiegare l’irragionevole. Al di là del forte impatto emotivo che hanno generato gli attacchi terroristici a Parigi durante la notte dello scorso 13 Novembre, ci domandiamo come sia potuto accadere un tale disastro che ha colpito con violenza simboli della nostra cultura occidentale. Fino a che punto si può spingere ancora la nostra tolleranza? Come reagire alla rabbia che ha generato questa sofferenza? Si può chiedere all’orgoglio ferito di tacere per dar voce ad una difesa razionale? Questi come altri sono i quesiti che più di tutti stanno affollando le nostre menti. Ma nell’incertezza – o nell’impossibilità – di risposte universali, è doveroso fare appello ai nostri punti di forza, all’unità nazionale che oggi non ha più solo i confini di un Paese, ma di un intero continente, perché quei giovani francesi freddamente uccisi sono i nostri cugini, facendo parte della stessa famiglia che è l’Unione Europea. Possiamo reagire potenziando le nostre caratteristiche vincenti che certo non coincidono con la strategia bellica, ma con la forza della democrazia. Le nostre Nazioni hanno già vissuto l’esperienza delle guerre lancinanti da cui sono rinate e in conseguenza delle quali sono state scritte le pagine più belle e durature della nostra storia. Fogli colmi di valori che trasudano vita dopo la morte, speranza dopo l’orrore. Una guerra contemporanea non avrebbe confini terreni, ma probabilmente si combatterebbe fra i cieli, sulle nostre teste, sopra le quali prima o poi piomberebbero le tragiche conseguenze. In momenti nevralgici come questi ciascuno deve essere disposto ad un’ingerenza nel proprio foro interiore, perché sia garantita una maggiore sicurezza comune. (altro…)

Cronache di una domenica insolita

Cronache di una domenica insolita per Bologna, una città libera, aperta, ma fedele a se stessa. Con non poco disagio, stamattina mi sono intrufolata fra bandiere dai colori che non sono i miei per la pura curiosità di capire gli animi di quella gente in Piazza Maggiore, lì per manifestare un pensiero politico. Temevo di destare sospetto, perché non applaudivo, non annuivo, ma, al contrario, mi irrigidivo, tamburellavo freneticamente le dita su ogni superficie. In effetti cercavo di resistere al nervosismo che genera un ambiente diverso, eppure mi ero recata lì intenzionalmente e per un fine. Volevo sentire e osservare le persone che erano attorno a me, cercare di comprendere cosa pensassero e quanto fosse profondo il solco della nostra diversità ideologica. Infatti, mentre le chiacchiere di Meloni, Salvini e Berlusconi le avrei potute recuperare dai giornali e dalla televisione, quest’indagine socio-culturale era questione di empatia. E’ stato aperto anche il baule della storia, considerati i troppi riferimenti al passato, a quel 1994 di 3597229-006-kY6E-U43130331377573F2G-593x443@Corriere-Web-Sezionicui resta una sola figura centrale, allora protagonista, mentre oggi timida comparsa che tenacemente non si rassegna allo scorrere del tempo. Tuttavia questa realtà emergeva dallo spirito della gente: con la velata riconoscenza rivolta ai vincitori che furono o con il generale rispetto che si nutre verso gli anziani, la folla borbottava paziente in attesa di Salvini, accolto come una fresca boccata d’ossigeno, dopo che si apre una finestra. Ponendo in secondo piano i contenuti degli interventi sul palco che non hanno aggiunto nulla di nuovo ai rispettivi indirizzi politici, ho trovato una moltitudine di persone piuttosto composta, ma dall’accento prevalentemente padano. Nessuna meraviglia nell’udire veneti e lombardi dalle verdi tinte nel cuore della rossa Bologna: mi è sembrato come di essere ad una partita di calcio in cui tifosi in trasferta siedono da ospiti. Mi è parso che, con il beneficio dell’udito raffinato e dello sguardo vispo nonostante la piccola statura, stessi assistendo ad un raduno di fedelissimi fuori dal soliti confini. E poiché la libertà di manifestare pacificamente il proprio pensiero è un diritto costituzionalmente garantito, non mi scandalizza l’evento odierno, credendo (altro…)

Le ragioni della fede

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In due anni e mezzo di pontificato Papa Francesco ha dimostrato di voler contribuire alla realizzazione di una comunità cristiana che sia effettivamente inserita nella società contemporanea e non parallela ad essa. Nonostante la comprensibile osservazione dei canoni religiosi e la fede nei dogmi da cui scaturisce l’approccio alle questioni mondane e ultramondane, è innegabile che l’attuale Vescovo di Roma abbia intrapreso un percorso di “laicizzazione” della società cristiana. Dall’emblematica scelta del nome papale continua a stupire con paradigmi di sobrietà comportamentale da cui si evince che egli è veramente una guida morale e spirituale. Il primo Papa appartenente all’ordine religioso dei gesuiti è generoso di primati: infatti, con la semplicità dei puri e l’audacia dei coraggiosi, pochi mesi dopo la sua elezione ha riformato lo IOR, ha disposto un sinodo straordinario sulla famiglia e indetto un Giubileo inconsueto nella tempistica sul tema della misericordia. L’inizio dell’Anno Santo, che verterà sulla compassione per la miseria morale e spirituale degli uomini, coinciderà con il 50° anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II. La portata di tale evento si è già palesata nel suo spessore – almeno mediaticamente – attraverso le righe che Francesco ha inviato al Mons.Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione e massimo referente organizzativo del prossimo Giubileo.
A chiare lettere ha evidenziato in essa l’attuale cambiamento del rapporto con la vita, la cui negazione o interruzione in qualsiasi forma è per la Chiesa peccato gravissimo. Tuttavia, ha deciso di concedere il perdono a chi abbia scelto e praticato l’aborto – in difformità eccezionale rispetto al canone 1398 che prevede la scomunica per la donna, per chi abbia procurato l’aborto o cooperato alla sua realizzazione, trattandosi di un reato contro la vita e la libertà dell’uomo.
Per l’Anno Giubilare che verrà, tale facoltà di elargire la remissione dal peccato sarà estesa a tutti i sacerdoti nei confronti dei pentiti di cuore che chiedano assoluzione. In realtà, secondo la laica e imperfetta opinione di chi scrive, proprio questa non sembrerebbe una rivoluzione copernicana dell’indulgenza, poiché il credente che abbia peccato e si sia ravveduto con sincerità nel profondo e al cospetto di Dio, è elevato al perdono a prescindere, grazie al sacramento della Confessione. Pertanto, il sentimento di compassione per la fragilità umana che induce a condotte peccaminose verrebbe, di fatto, solo esteso durante il Giubileo, poiché già persistente nello spirito stesso della Chiesa.
Dunque, così come la tassatività del Vangelo non può legittimare l’aborto, il perdono delle pene temporali dato in circostanze straordinarie non differirebbe da quello di cui il fedele redento beneficia in ogni momento del suo cammino di fede. Ma se questo “dramma esistenziale e morale” – come lo definisce il Papa nella missiva – trova definitiva indulgenza solo nell’intimistico rapporto con Dio, l’intervento della Chiesa è un passaggio che sfugge alla logica laica, che non condivide, ma comprende, il tentativo di giustificare la finitezza umana dinnanzi all’immensità della fede. Quindi piuttosto che interpretare questa scelta del Papa come un ulteriore gesto di raccordo fra le disarmoniche inclinazioni di atei e credenti, sarebbe più apprezzabile valutarla come una delle declinazioni della virtù morale della misericordia; assieme ad essa, egli ha accolto i Lefebvriani, non escludendoli dall’indulgenza plenaria ovvero ha accordato l’opportunità ad ogni diocesi di aprire una porta santa, autorizzazione inedita nella storia della Chiesa: infatti, il vescovo ne potrà istituire una in ogni cattedrale, santuario o chiesa da questi stabilita, perché ogni fedele impossibilitato a recarsi a Roma sia ugualmente partecipe – e protagonista – dell’anno giubilare.
Così, anche il preferire l’aborto ad altre colpe quale sostanza dell’indulgenza plenaria sembrerebbe essere connotato da valenza simbolica piuttosto che capitale, secondo il modesto pensiero dell’autrice. Ciò rappresenta ugualmente un’innovazione perché, manifestare tanto platealmente la tolleranza per una delle macchie più sporche della coscienza, evidenzia l’assenza di confini nella valle misericordiosa di Dio, per coloro che credono a queste ragioni.
Tuttavia, qualora si consideri coincidente con il peccato la scelta sofferta, dolorosa e matura di vivere l’indelebile esperienza dell’aborto e qualora se ne colga l’indicibile coinvolgimento emotivo e morale ad essa connesso, allora si può timidamente ipotizzare che l’interruzione di una gravidanza, ritenuta dono divino, non può che essere argomento soltanto di un dialogo silenzioso fra impari. In esso l’uomo cerca Dio, perché Egli soffi sulla nebbia fitta di questo dilemma profondissimo. Ma esula da ogni intermediazione giubilare o confessionale ciò che attiene allo scrigno della coscienza individuale, dove risiederà sempre e si risolve il senso di quella la cicatrice. Se si risolve.

Bologna, 25 Settembre 2015
Anna Rita Francesca Maìno

Un vocabolo impegnativo

Ognuno vive i suoi giorni in armonia con il tempo che attraversa, seguendo una linea immaginaria, autonoma, spesso inconsapevole che è tracciata dal nostro Io interiore. Non possiamo definire concretamente cosa significhi vivere, perché la vita è composta da istanti memorabili e da ore anonime, entrambi fugaci, ma dilatare la durata dei primi a scapito delle seconde è un’impresa che ci vede protagonisti. E’ come un respiro necessario e sistematico, ma mentre questo può essere frenato solo per qualche secondo, la vita può divenire apatica senza confine. Essa procede incalzante e imprevedibile, bendata dal destino è al contempo fra le nostre dita. Infatti è un’illusione asserire che ci appartenga del tutto e che sia una tela candida sulla quale facciamo scivolare il colore delle pennellate dei nostri anni; la sorte è caotica, il futuro incerto, il passato è storia, eppure, il presente ci spetta: possiamo provare ad essere complici del nostro destino appena acquisiamo la consapevolezza di quale sia, fra le infinite sfumature, il pigmento che si abbina di più all’abito che indossiamo. Desiderare di vivere in tale maniera è una scelta di coraggio, la parte che determina il tutto e per realizzare questo proposito occorre “riflettere” nella doppia, profonda accezione espressa qualche sera fa da Concita De Gregorio, durante la presentazione del libro “Coraggio” di Umberto Ambrosoli, organizzata da “il Mulino” presso l’idilliaco chiostro di San Domenico a Bologna. Così come lo specchio riflette la nostra immagine esteriore, quella interiore emerge dialogando con noi stessi, pensandoci. E’ coraggioso essere se stessi, dopo aver riflettuto e, appunto, essersi rispecchiati e pensati; come è coraggioso (ri)cercare veramente la propria identità per poi manifestare all’esterno questa virtuosa bellezza trovata. Ciascuno dà un’interpretazione personale alle faccende della vita, ad esempio l’”eroismo quotidiano” è inteso da Ambrosoli come “l’essere fermamente rispettosi della legge” e dunque il coraggio civile si coniuga con l’esercizio della propria responsabilità, anche a costo di essere impopolari, ma giusti. In verità, il coraggio è per definizione un moto irrazionale, perché è veicolato dal cuore che accetta l’esposizione al pericolo, al dubbio, alla potenziale sofferenza. Laddove i più si fermerebbero, i coraggiosi procedono nonostante le intimidazioni e le incertezze delle conseguenze. Esercitare tale virtù non equivale all’assecondare il folle impulso: si ragiona con coraggio quando quella che è fra le più nobili capacità dell’animo orienta verso scelte e azioni che non tutti affronterebbero. Può accadere che non ci si renda conto di incedere sulle rive del coraggio e che l’impegno per un interesse pubblico sia riconosciuto come tale da un giudizio altrui, alle volte anche posteriore alla vita stessa. Invece proprio in questa silenziosa autonomia risiede il coraggio autentico che è talmente radicato nello spirito da non necessitare di un plauso o supporto esteriore per concretizzarsi. Al di là di ogni illustre riferimento ad emblematici uomini del presente e del passato che hanno dimostrato e dimostrano ammirevole fedeltà a questa umana virtù, è già appagante riconoscere individualmente la coerenza ovvero il coraggio di voler essere se stessi. Qualora vi siano questi presupposti, si intende e spera che vi sia una naturale propensione alla condotta virtuosa nell’affrontare le vicissitudini della vita; inoltre, è egualmente logico rapportarsi con il sentimento avverso della paura che è tanto umana quanto contrastabile, se non vincibile. E’ già coraggioso colui che percepisce intimamente la paura e la affronta a testa alta seppure nella ragionevole esitazione, dettata dalla oggettiva finitezza umana. Il discrimine fra un comune essere umano e un Uomo è la dignità con cui questi decide di camminare a schiena dritta nella vita senza bisogno di solidarietà diffusa. C’è molta libertà nell’animo dei coraggiosi, perché scegliere di voler adempiere ad un dovere di coscienza è la perfetta sintesi di una filosofia ponderata, certa di conferire alla propria vita quel senso di pienezza gioiosa e soddisfatta. Comunque vada, provare ad essere Uomini è ossigeno meraviglioso.

Bologna, 12 Giugno 2015

Anna Rita Francesca Maìnoimage

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