L'UNIversiTÀ

Andrea Giua

Iscritto al terzo anno in Scienze Politiche, Sociali e Internazionali, faccio parte di S.U. dal marzo 2016. Sono appassionato di politica e sport (di qualsiasi genere e livello) e, soprattutto, sono sardo!

Luigi Zamboni e la “sua” bandiera tricolore

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Apro Facebook e vengo a sapere che il 23 ottobre avrà inizio “La Via Zamboni”, un’iniziativa periodica che riempirà il centro della nostra zona universitaria di musica, arte e scienza: insomma, di Cultura. E la domanda di manzoniana memoria che subito mi torna alla mente è la solita: “Zamboni, chi era costui?”.
Per tanti può essere un dettaglio insignificante, ma per un universitario bolognese, specie se fuori sede, la strada che porta il suo nome è il primo vero riferimento topografico per combattere la paura di perdersi nelle mille stradine bolognesi.
Luigi Zamboni (da non confondere con Anteo, anarchico italiano del Novecento, al quale è stato dedicato un pezzo della cinta muraria) era, primo di tutto, uno studente di giurisprudenza della nostra Alma Mater Studiorum. Nasce nell’ottobre 1772 da una famiglia di commercianti di stoffe con bottega in via Strazzacappe (nei pressi di via Galliera), ma per il resto è davvero difficile reperire informazioni sulla sua adolescenza. Qualche testimonianza dell’epoca lo descrive alto e robusto, per nulla timido e dalla parlantina abbastanza sciolta.
Le prime notizie certe su di lui risalgono al 1791: condividendo con la madre simpatie per i rivoluzionari francesi, Luigi si avvicina all’abate Beausset, commissario politico del direttorio francese; grazie a queste frequentazioni decide quindi di arruolarsi nell’esercito francese come portabandiera.
Dopo un breve soggiorno in Corsica, dove viene a contatto con gli ambienti della massoneria, s’imbarca verso l’isola di San Pietro (per noi sardi più semplicemente Carloforte, cittadina che si trova sull’isola), dove viene instaurata un’amministrazione democratica sul modello francese.
Una volta rientrato a Bologna, si fa strada nei circoli patriottici che si opponevano al dominio dello Stato Pontificio sulla cittadina felsinea. È qui che, insieme a Giovanni Battista de Rolandis (cui è per l’appunto dedicata una traversa di via Zamboni), organizza una sollevazione della comunità universitaria contro il governo papale presente in città. Nella notte tra il 13 e il 14 novembre 1794, forti dei manifesti distribuiti nei giorni precedenti e del sostegno di parte della comunità, i due passano all’attacco, ma si ritrovano praticamente abbandonati a causa della forte pioggia che aveva scoraggiato gli altri manifestanti. Zamboni e de Rolandis sono allora costretti alla fuga, ma vengono arrestati due giorni dopo a Covigliaio, in Toscana; vengono rinchiusi nel Carcere del Torrone (nell’attuale Sala Borsa), dove il 18 agosto 1795 Luigi Zamboni viene ritrovato impiccato. Sulla sua morte i giornali dell’epoca gridano però allo scandalo, denunciando le torture cui era stato sottoposto prima della morte, probabilmente vere cause del decesso.
Ma allora perché ricordarsi di lui, un rivoluzionario con poche fortune?
Perché è proprio dal tentativo eroico di Zamboni che noi italiani abbiamo preso la nostra bandiera tricolore. Fu proprio in quella sventurata serata che comparvero le prime coccarde con i colori del nostro attuale vessillo, cucite secondo le cronache dalla madre di Luigi. Come lui stesso disse: “Noi al bianco ed al rosso, colori della nostra Bologna, uniamo il verde, in segno della speranza che tutto il popolo italiano segua la rivoluzione nazionale da noi iniziata, che cancelli que’ confini segnati dalla tirannide forestiera”.
E allora, camminando lungo la nostra amata via Zamboni, è il caso di ricordarci che i passi che seguiamo sono quelli di un universitario che, in difesa dei suoi ideali, ha lottato fino a dare la propria vita; uno studente che, come tanti prima e dopo di lui, ha fatto in modo che noi oggi potessimo vivere in un’Italia libera e unita sotto la “sua” bandiera tricolore.

Sania Mirza: “Guardate i miei colpi, non il mio corpo”

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Se si parlasse di lei solo per i suoi risultati sportivi, non ci sarebbe nulla di cui stupirsi. Esplosa nel circuito internazionale nel 2005, a soli 19 anni, con la vittoria del torneo WTA di Bangalore, Sania Mirza è la tennista indiana più forte di tutti i tempi. Negli ultimi due anni ha praticamente dominato, in coppia con la leggenda svizzera Martina Hingis, il doppio femminile con ben 14 titoli WTA (tra cui Wimbledon, US Open e Australian Open), a cui si sommano i 3 titoli slam vinti in doppio misto. Insomma, un palmares di tutto rispetto.
Eppure la sua fama, soprattutto in India, ha soprattutto a che vedere con la sua vita extra-tennistica. Per una ragazza indiana di fede musulmana esistono, infatti, barriere e ostacoli che richiedono una tenacia ancor più grande di quella mostrata ogni giorno sui campi da tennis.
Il 2005, anno dell’exploit sportivo, rappresenta per Sania l’inizio di un lungo calvario: a causa del suo abbigliamento in campo, ritenuto eccessivo e non rispondente ai canoni della Sharia, viene emessa contro di lei la prima fatwa, un parere di un esperto di legge coranica sull’orientamento della Sharia riguardo a un dato comportamento. Sebbene privo di esecutività diretta, questo provvedimento scatena contro di lei una feroce persecuzione da parte degli integralisti islamici dell’Andhra Pradesh, suo Stato di origine.
Ma il carattere di una ragazza come Sania non si piega a queste minacce: qualche anno dopo si esprime pubblicamente in favore del sesso prima del matrimonio, prestando il fianco ad una seconda fatwa. La paura stavolta si fa sentire eccome: per giocare il torneo di Calcutta le viene assegnata una scorta a causa del rischio di attentato a cui si trova esposta.
Allora anche in una guerriera come lei si fa strada il pensiero di arrendersi, fino a dichiarare in conferenza stampa: “Talvolta penso che farei meglio a mollare tutto”; per fortuna il coraggio non l’abbandona e la sua vita, tennistica e non, continua spedita.
Nel 2010, con un’inaspettata mossa, decide di infrangere uno dei pilastri della sua cultura: rompe il fidanzamento “negoziato” dai genitori e scappa con Shoaib Malik, capitano della nazionale pakistana di cricket.
Anche alla luce dei difficili rapporti diplomatici tra i due paesi, Sania dimostra ancora una volta di non farsi dettar legge da nessuno. Rojit Brijnath, giornalista sportivo indiano l’ha definita “la ragazza che sta rompendo tutte le barriere sociali e culturali possibili”.
Nonostante tutto e tutti, Sania nel 2013 apre, nella sua città natale di Hyderabad (India centrale), un’accademia tennistica per ragazzi e ragazze meno abbienti: lei sa quanto lo sport possa essere uno strumento di emancipazione e di rivoluzione culturale e politica. Grazie ad esso è infatti divenuta un personaggio politico e sociale con grande seguito in India, spesso avvicinata anche ad una candidatura politica di livello nazionale.
A sintetizzare la sua storia, il suo coraggio e la sfida che ha lanciato alla cultura del suo paese è la frase che le ha provocato tantissimi guai in tempi recenti: “Guardate i miei colpi, non il mio corpo”. Quei colpi che non sono solo volée e rovesci, ma che sono colpi assestati ad una cultura fatta ancora di pregiudizio e di sottomissione della donna.

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