Rotterdam, accanto ponte Erasmus - foto di Gabriele Morrone
Rotterdam, accanto ponte Erasmus – foto di Gabriele Morrone

Due mesi.
Ecco quanto tempo è passato da quando ho lasciato Bologna. Ecco da quanto tempo dormo a 1400 km dalle due torri.
Non vorrei raccontare nulla, l’Erasmus è un’esperienza che va vissuta, sperimentata e declinata in tutte le sue sfaccettature. Dalle serate con musica tamarra olandese alle biciclettate alle quattro di notte, l’Erasmus ti regala contemporaneamente gioia e inquietudine.
Gioia che deriva dal sentirsi parte di una grande comunità, in grado di conoscere centinaia di persone provenienti dagli angoli più sperduti della terra, gioia derivante da una spensieratezza mentale che solo questa condizione sa creare e, nel mio caso, é quella delle piccole abitudini che costruisci quando condividi cucina, bagno e soggiorno con 15 persone.
L’inquietudine è invece figlia di una delle sensazioni più umane: quella di non fare/scoprire abbastanza. Sembrerà strano ma senti sempre che potresti fare di più, vedere di più, conoscere più persone, più culture, più parole. E ti trovi a progettare il prossimo viaggio, la prossima festa, la prossima birra non appena finisci la precedente. Non sei mai sazio di stampare biglietti ferroviari, controllare i prezzi su Airbnb o su Flixbus.
I giorni passano velocemente, in un valzer di ormoni, risate e pranzi improvvisati. Gioia e inquietudine si alternano in modo incessante, mentre scambi parole in un precario inglese con tutti quelli che ti circondano e che sai che stanno vivendo le stesse identiche emozioni solamente codificate in un’altra lingua, con altre parole o inflessioni.
Impari a pronunciare il motto austriaco contro i tedeschi, le volgarità in spagnolo o le particolarità in francese.
Impari che, nonostante tu chieda di non farlo, il coinquilino da Hong Kong ti aspetterà comunque con la luce accesa fino alle cinque di mattina in virtù di un esagerato rispetto.
Impari a compatire l’amico australiano che ancora non ha cambiato l’orologio e che incontri in cucina con una pizza all’ananas alle 7 di mattina.
Tutto sembra inglobato in una normalità che cominci a sentire anche tu, ma che si squarcia nel momento in cui pensi a dove sei, alla distanza dai tuoi cari, circondato da persone che della tua lingua conoscono solamente “pizza” e “pasta”. In quei momenti rivaluti tutto, senti di non appartenere a quel mondo, ma di farne parte in quel preciso momento, come chiunque altro attorno a te.
Non stai fingendo, sei solo consapevole che la tua parte da studente Erasmus è quella. Niente più, niente meno. Stai vivendo in una bolla create da condizioni che non si ripeteranno più. Magari vivrai esperienze simili ma non in questa forma, con questa intensità.
Ovviamente esiste anche la parte accademica, lezioni, meeting, tutorial e senti di essere in un altro mondo, lontano dalle aule della vecchia Unibo. Qui sperimenti nuovi metodi (nel mio caso il PBL, pochissime lezioni frontali, grandi discussioni sui temi più importanti in gruppi di massimo 15 persone).
E impari a convivere con l’ossessione olandese per i numeri: li trovi in ogni stanza, dagli sgabuzzini ai bagni, dai computer ai tavolini per il pranzo in biblioteca.
Apprezzi tutto, sei pronto a tutto, consapevole che prima o poi finirà. Ma che al tuo ritorno sarai cambiato, ne migliore ne peggiore. Solamente diverso.

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Gabriele Morrone

Gabriele Morrone

Faccio parte di S.U fin dall'inizio della mia carriera universitaria presso la facoltà di Scienze politiche e ho iniziato a collaborare con questa rivista in modo sempre più assiduo e appassionato. Mi sono posto fin dal principio l'obiettivo di raccontare quello che vedo in modo mai banale e patinato, osservando da vicino una città meravigliosa come Bologna attraverso gli occhi di chi è abituato alle contraddizioni della propria isola natia: la Sicilia.
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